
Il documentario, prodotto da ACAV e 46° parallelo, offre uno spaccato della situazione dei rifugiati in Uganda e del modello di accoglienza di questo Paese dell’Africa orientale. In Uganda esiste uno dei più grandi campi di rifugiati del continente – ma anche a livello mondiale – Bidibidi. Un luogo che nonostante l’alto numero di uomini, ma soprattutto donne e bambini che lo popolano, è un esempio di accoglienza alternativa e solidale nei fatti. Non divisioni o filo spinato ma un enorme villaggio con scuole, negozietti e persino aree giochi per bambini. Ad abitarlo sono sud sudanesi e congolesi che fuggono dai conflitti nei loro Paesi, a anche dalla fame e della povertà. Il documentario trasmette dunque un esempio di accoglienza che si contrappone alla violenza del rifiuto e alle barriere di molti luoghi d’Europa.

Crocco ha ricordato che in Italia la popolazione straniera residente è pari all’8,5% “per un gettito del PIL di 130 miliardi di euro annui. Una cifra equivalente al bilancio della Fiat, solo che gli immigrati pagano le loro tasse qui e 10 miliardi di versamenti annui all’Inps, con cui vengono pagate le pensioni agli italiani, mentre la Fiat le tasse le paga in Olanda”.
Il giornalista ha evidenziato poi un paradosso: “entro il 2050 a causa del calo demografico l’Europa perderà il 42% della forza lavoro, quindi non solo ci sarà lavoro in sovrappiù per i pochi giovani, ma per far andare avanti le nostre fabbriche si dovrà assumere personale dall’Africa“. Quando parliamo di immigrazione, ha concluso Crocco, “dobbiamo uscire dall’ipocrisia. Ipocrisia che sta nell’uso scorretto delle parole, che sta nell’accoglienza ‘fino a un certo punto'”. Che sta – evidentemente – nel non voler guardare in faccia la realtà.

“In Uganda – ha ricordato Elisabetta Bozzarelli – le nostre attività si concentrano soprattutto sulle donne e sulle ragazze. Attraverso corsi di formazione professionale cerchiamo di fare in modo che possano avere un futuro diverso che prostituirsi nel campo profughi“. Acqua, agricoltura, sanità sono altri ambiti di intervento sempre nell’ottica dei progetti che si cerca il più possibile di elaborare con la comunità locale.

La prima
è quella di Proactiva Open Arms – un migrante aggrappato a un salvagente gettato da una delle navi della ONG. “Poi quelle stesse ONG da angeli del mare in sei mesi si sono trasformate in un problema, nel nemico, nei complici degli scafisti. E questo grazie alle dichiarazioni improvvide del procuratore di Catania e di qualcuno che vuol diventare presidente del Consiglio e soffia sul fuoco“.La seconda foto
è quella di Riace, un paesino della Locride che stava morendo ma che il sindaco ha permesso che si riempisse di immigrati. L’ospitalità ha significato riportare alla vita il paesino calabrese, ridare speranza al futuro – non solo dei migranti – mostrare che un altro modello di accoglienza è possibile.La terza immagine – molto differente, opposta alla precedente – viene da Goro e Gorino, piccoli centri ai confini della Pianura Padana. Da dove pochi mesi fa partì una feroce protesta degli abitanti alla notizia che poche decine di migranti sarebbero arrivati di lì a poco.”Manifestazioni di avarizia, di arroganza” dice Ferramola che ricorda anche quanto abbia significato per le strutture ricettive di alcune città o piccoli centri essere entrati in piani di accoglienza: rimettere in moto l’economia e l’indotto laddove il turismo aveva invece mostrato evidenti segnali di crisi.
Infine, la quarta fotografia arriva da alcuni Paesi europei e mostra barricate e fili spinati. Scelte che comunque non potranno fermare la migrazione. “Nel 2016” – sottolinea il giornalista – “ci sono stati più migranti che dopo la Seconda guerra mondiale“. E, a chiusura dell’intervento, una considerazione: “Ci consideriamo un popolo generoso, accogliente, questo non è altro che uno stereotipo che ci piace tenerci appiccicato addosso, ma questo paradigma va ormai rimesso in discussione“.