Si sta forse avvicinando l’impeachment per Donald Trump? È davvero una possibilità concreta, ora che l’indagine del procuratore speciale Robert Mueller sul Russiagate punta perfino sugli affari di famiglia? Questa la domanda chiave che gira nelle strade, sui media e nelle istituzioni Usa a meno di sei mesi dall’insediamento della nuova Amministrazione. Ipotesi tutt’altro che sorprendente, vista la continua erosione della credibilità di Trump, e anzi più volte affacciatasi nel breve percorso di una presidenza caotica e imprevedibile. Ma anche se non dovessero emergere le prove di reati tanto gravi da rendere inevitabile l’impeachment (visti gli equilibrismi legali in cui è Trump è maestro indiscusso), il danno politico e d’immagine basato su falsità, “leak” e dietro-front continui alla fine potrebbe risultargli comunque fatale.
Qualcuno giura addirittura che lo staff della Casa Bianca si starebbe preparando alle dimissioni del presidente e del suo vice, ma per momento trattasi soltanto di notizie non confermate. È però vero che a livello interno l’escalation delle indagini sul Russiagate sta incrinando sempre più i rapporti fra Trump e lo staff, i cui interessi divergono in direzioni opposte, con possibili rischi legali per chi cerca di rimanergli “fedele” e la conseguente corsa a nominare un proprio avvocato di fiducia, come ha già fatto Mike Pence (e lo stesso Trump ha ingaggiato un legale ben addentro ai circoli di Washington).
Mentre dunque
Secondo Elizabeth Holtzman, ex deputata democrat che all’epoca votò per l’impeachment, gli odierni tweet di Trump tesi a minare l’indipendenza dell’indagine sul Russiagate, sarebbero anzi analoghi ai famosi nastri auto-accusatori di Nixon, poi resi pubblici grazie alla decisione unanime della Corte Suprema. E uno special di Open Source Radio (Bentornati alla terra di Nixon) propone un utile raffronto tra il presidente n. 37 e il n. 45, entrambi in caduta libera e fanatici delle montagne russe:
Dopo oltre quattro decenni, l’Oval Office è di nuovo al centro dell’impero, occupato da un pilota paranoico, impegnato a portare avanti un’incessante battaglia personale senza esclusione di colpi.
Anche i due fronti partitici continuano ad annaspare, preoccupati solo di salvaguardare le poltrone e sempre più distanti dal Paese reale (come d’altronde per le altre democrazie a capitalismo avanzato europee). Le spaccature continuano ad accentuarsi e il dibattito generale, al di là di una certa retorica aggressiva o dei rilanci delle grandi testate nazionali, non suscita grandi passioni. Tra le poche eccezioni, Slate rimarca l’inaccettabile segretezza delle discussioni tra i senatori repubblicani rispetto alla stesura del testo di riforma sanitaria, mentre un’analisi del settimanale New Yorker mette a fuoco gli obiettivi meno evidenti del GOP:
Trump non si limita a validare la destra repubblicana; con le sue capriole e dichiarazioni incendiarie quotidiane sta spostando l’attenzione dalle iniziative politiche del partito. Negli anni ’70, un eminente giurista britannico, Lord Hailsham, coniò la definizione per comportamenti di questo tipo: dittatura elettiva. Trump sta offrendo al GOP quello che chiedeva da tempo: una Casa Bianca disposta ad appoggiarne il programma reazionario, e un presidente che ne garantisce la copertura politica.
A livello democrat, Keith Harrison, primo deputato musulmano del Congresso, lancia un’Estate di Resistenza: iniziativa estesa a tutti i 50 Stati per discutere direttamente con i cittadini delle questioni bollenti sul tappeto, sanità e pensioni, lavoro e costo della vita, con l’obiettivo di trasformare il “Democratic Party in un vero e proprio partito basato sull’attivismo”. Ma forse è too little, too late?
A proposito di attivismo, sospese momentaneamente le grandi marce su Washington (si approssima la festa dell’Indipendenza del 4 luglio e poi c’è il rallentamento estivo), le proteste proseguono a livello locale e il sarcasmo abbonda su Twitter (con hashtag tipo #BananaRepublic). Intanto MoveOn.org torna alla carica puntando proprio all’impeachment, esito che richiede una “campagna paziente, strategica ed eseguita con rigore”. Invitando i cittadini a rilanciare la querela contro Trump, presentata dal Constitutional Accountability Center a nome di 196 parlamentari democrat, per aver accettato emolumenti da fonti estere senza previa autorizzazione del Congresso, come da normative vigenti. E a premere sulle amministrazioni locali affinché aderiscano alla U.S. Climate Alliance, che già include 12 Stati più Porto Rico, tesa a rispettare comunque gli accordi sul clima di Parigi recentemente ripudiati dagli Usa.
Invece sulla questione degli emolumenti personali di Trump, su Twitter l’account Emoluments Clause continua a rilanciare dettagli e attira un buon seguito, mentre il gruppo non-profit CREW (Citizens for Responsibility and Ethics) ha presentato tre formali denunce contro Trump, in aggiunta a quelle dei procuratori generali di Washington, D.C. e del Maryland. Una carta su cui giornalisti e attivisti progressisti puntano parecchio, come spiega Amy Goodman per DemocracyNow!:
Non era mai accaduto nella storia Usa che gli affari commerciali reali e potenziali di un presidente potessero raggiungere dei conflitti d’interesse di così ampia portata. Donald Trump è ben coinvolto nel ramo immobiliare e altri settori in ogni angolo del globo. The Atlantic ha compilato un elenco dei potenziali conflitti, enumerando almeno 44 importanti casi separati in cui il profitto personale di Trump può influenzare le azioni o le policy del Governo statunitense che è chiamato a presiedere.
Intanto il livello d’approvazione generale per Trump è sceso al 35%, come pure va calando l’appoggio dei cittadini repubblicani che pure lo hanno votato (intorno al 70%), e altri freschi sondaggi ne confermano le cifre più basse della storia Usa. Eppure può ancora contare sullo zoccolo duro iper-conservatore, su insoddisfatti e delusi dalle politiche progressiste e sulle solite piccole ma potenti cerchie elitarie. Comunque è sicuramente una minoranza quella che continua a preferire la promessa di rifare grande l’America, cioè riportarla indietro nel tempo. Ed è ovvio a tutti come il presidente spinga per un’ulteriore escalation della sua guerra contro le norme della democrazia liberale.
Tornando alla questione iniziale, riuscirà a restare in sella Donald Trump? E se sì, fino a quando? Impossibile immaginare come andrà a finire. In netto stridore con il tipico pragmatismo americano, il quadro rimane quello di un luna park o rollercoaster continuo, a cui poco sono abituati cittadini, media e istituzioni. Nonostante le falle e gli impicci di cui sopra, per ora la maggioranza repubblicana al Congresso sembra decisa a sostenere Trump fino in fondo, a differenza dell’era Nixon – anche a rischio di rottamare le normative e il sistema democratico. Conta di più il futuro del partito che i problemi e l’opposizione dei cittadini. E ancor meno importante sembra il galoppante isolamento globale del Paese, sotto la minaccia di dinamiche interne del tutto imprevedibili.