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Copti in Egitto, non solo pedine politiche per ISIS e al-Sisi

[Traduzione a cura di Luciana Buttini dall’articolo originale di Mariz Tadros pubblicato su openDemocracy]

All’interno della Chiesa copta della Santa Vergine Maria nel vecchio Cairo. Scattata il 29 novembre 2009. Immagine ripresa da Flickr/Askii. Alcuni diritti riservati.

Quando, lo scorso 9 aprile, l’ISIS ha rivendicato il doppio attentato alle due chiese copte in Egitto, indicando i nomi dei due attentatori suicidi coinvolti, ha anche lanciato un altro avvertimento ai “crociati”. “Il conto tra noi e loro è davvero alto e i miscredenti devono capire che pagheranno ancora con il sangue dei loro figli, che scorrerà a fiumi, se Allah vorrà” si leggeva nella nota di rivendicazione dello Stato Islamico.

Ma quale sarebbe questo “conto” tra l’ISIS e i Copti? Si tratta di una questione meditata e dibattuta sia in Egitto che fuori dal Paese.

Una spiegazione potrebbe legarsi alla crescente violenza dei gruppi islamisti con il declino dei Fratelli Musulmani e le scarse prospettive per un sistema di governo di stampo musulmano in Egitto. Ad esempio, Hassan Abu Haniyeh, esperto giordano dei movimenti jihadisti, recentemente ha affermato che, dal 2013, “sempre più gruppi e individui che non sarebbero ideologicamente favorevoli ai jihadisti credono che il cammino di pace sia ormai giunto al termine.”

Un’analoga visione attribuisce la resistenza dell’attivismo islamista nella penisola egiziana del Sinai alla repressione dell’espressione non violenta delle opinioni e della mobilitazione popolare.

Tuttavia, questa interpretazione va analizzata più in profondità e trasporta la questione degli attacchi contro i Copti all’interno di una storia più ampia di resistenza politica originatasi con la fine del Governo guidato dai Fratelli Musulmani, e l’instaurazione di un regime autoritario. Il fatto che la violenza sia un fenomeno di reazione è opinione diffusa: una risposta ai limiti imposti a forme più pacifiche di espressione politica. Ma a quanto pare la verità risulta essere più complessa.

Senza dubbio, la repressione può contribuire ad aumentare la probabilità che alcuni cittadini ricorrano alla violenza per essere ascoltati. Tuttavia la genealogia della violenza jihadista nel Sinai – luogo dove i militanti islamisti tra cui l’ISIS si sono insediati e sviluppati – non è di questa natura. Se così fosse, avremmo assistito al suo emergere dopo il 2013, anno in cui la libera espressione cominciò a subire restrizioni, anche attraverso l’entrata in vigore di una nuova legge volta a ridurre le proteste.

La meticolosa mappatura dei gruppi jihadisti fatta dallo studioso Ali Bakr indica che in realtà già alcuni anni prima, nel 2011, i jihadisti avevano allestito un campo nel Sinai in occasione dell’apertura di uno spazio politico in seguito alle rivolte arabe e alla caduta dell’ex dittatore Hosni Mubarak. In altre parole: sembra essere stato ideato e intrapreso un piano mirato a ottenere la creazione di un emirato islamico, sfruttando al meglio questo nuovo spazio politico – oltre che le falle di un sistema di sicurezza che permetteva ai jihadisti di entrare armati in Egitto passando dalla Libia.

Se fosse vera l’ipotesi secondo la quale l’attivismo sarebbe aumentato in risposta ai danni legati alla fine di un regime islamico eletto democraticamente, ci si potrebbe aspettare che l’attività dei militanti islamici fosse diminuita con l’ascesa di Mohamed Morsi nel 2012. Invece è avvenuto l’esatto contrario: come osserva Bakr, i movimenti jihadisti si sono sviluppati durante il Governo dei Fratelli Musulmani e Morsi ha chiuso un occhio sulle loro attività – compresi i diversi attacchi nei confronti dei civili copti.

Attacchi non provocati

Al culmine del periodo in cui il potere era nelle mani dei Fratelli Musulmani, gli islamisti hanno attaccato i Copti nel Sinai. Tali attacchi sono stati poco numerosi rispetto al totale degli analoghi casi di violenza settaria registrati mentre Morsi era al potere. Tuttavia, significativamente, tali offensive sono avvenute in un clima politico nel quale il presidente stava concedendo il perdono presidenziale a diversi noti terroristi islamici.

Nel settembre del 2012, sette funzionari pubblici copti con le loro rispettive famiglie sono stati trasferiti da Rafah a el Arish – due città nel Nord del Sinai – dopo che i gruppi jihadisti avevano organizzato una campagna intimidatoria e rivolto loro minacce di morte.

Nell’ottobre 2012, i Copti di Rafah si sono trovati divisi tra il dissenso di un governatore che non voleva che i cittadini lasciassero in massa il Paese – per evitare forse di ricevere pesanti critiche da parte della stampa – e una maggiore vulnerabilità agli attacchi jihadisti. Sui volantini firmati apertamente da un gruppo militante chiamato “Esercito Islamico Badeya”e distribuiti nella città si leggeva: “no ai Nazareni sulla terra di Allah”.

L’attacco ai Copti si è poi diffuso da una città all’altra del Sinai settentrionale. L’8 gennaio 2013 (giorno in cui si festeggia il Natale copto), c’è stato inoltre un fallito tentativo di bombardamento alla chiesa copta ortodossa di Rafah, avvenuto forse per opera degli islamisti. Ma circa sei mesi dopo, il 14 agosto 2013, alcuni sostenitori di Morsi vi diedero fuoco.

In realtà, al netto delle rappresaglie effettuate contro l’ex regime di Morsi, la violenza nei confronti dei Copti era almeno in parte ideologicamente motivata. Questi sono stati, infatti, attacchi non provocati, volti a liberare la terra da qualsiasi presenza cristiana. Tuttavia, in seguito alla caduta di Morsi, gli attacchi contro i Copti sono senza alcun dubbio aumentati.

Lo stesso regime di Morsi aveva, poi, lanciato un avvertimento generale alla popolazione in cui li avvisava di non prendere parte alle sommosse, ma tale messaggio rivolgeva in modo particolare ai Cristiani l’avvertimento di non partecipare alla rivolta popolare prevista per il 30 giugno 2013. I Copti si sono in realtà poi uniti ai milioni di egiziani scesi in piazza per chiedere le dimissioni del presidente e la convocazione di elezioni presidenziali anticipate. (Successivamente queste ultime furono contrastate da proteste più piccole e geograficamente più vicine ai sostenitori pro-Morsi).

La notte in cui Abdul Fattah al-Sisi – l’allora ministro della Difesa, e attuale presidente – ha annunciato la fine del regno di Mubarak, le fazioni pro-Morsi hanno percorso le strade principali di Minya, nell’Alto Egitto, sparando colpi in aria e ripetendo in coro:  “Oh quanto è patetico, oh quanto è vergognoso, i Copti sono diventati rivoluzionari.

Per i sostenitori di Morsi, la partecipazione dei Copti alle insurrezioni popolari avrebbe rappresentato un’offesa su diversi fronti. La loro presenza ha indicato la mancanza di conoscenza del loro territorio da parte dei non-musulmani, ovvero la sottomissione ai musulmani; inoltre, l’alleanza tra musulmani e non-musulmani, i cosiddetti infedeli; infine che era in corso una guerra degli infedeli contro l’Islam.

A questo hanno fatto seguito una serie di attacchi nei confronti dei cristiani in tutto il Paese, attacchi che hanno colpito anche il Sinai. Tuttavia, così come ha sottolineato Bakr, questo periodo ha anche visto una crescente sincronizzazione tra le cellule attiviste, i cui membri si sono poi uniti a organizzazioni quali l’ISIS e Al Qaeda.

“Partire o morire”

Il 6 luglio 2013, un sacerdote copto è stato assassinato ad al-Arish, nel Nord del Sinai. Tre anni dopo, nel luglio 2016, anche un altro parroco è stato ucciso nella stessa città.

La successione di attacchi è culminata nell’esodo, tra la metà di febbraio e la metà di marzo di quest’anno, di oltre 300 famiglie – ovvero circa 1200 persone – a seguito dell’assassinio di quattro copti, e della minaccia da parte dell’ISIS di dover partire o morire.

L’esodo di Rafah. Scattata il 7 gennaio 2009. Immagine ripresa da Flickr/RafahKid kid su licenza CC.

Nel momento in cui molte persone hanno deciso di lasciare il Sinai, la situazione nel territorio era diventata impossibile: i militanti islamici stavano terrorizzando le comunità e avvertendo i musulmani delle inevitabili conseguenze nel caso in cui avessero aiutato i Copti.

Le crescenti restrizioni alla libertà di stampa in Egitto si sono aggiunte al carico della crisi rendendo difficile ai giornalisti l’accesso a queste comunità. Esistono, infatti, forti ostacoli alla presenza di reporter nel Paese e ciò vale a maggior ragione per chi fa reportage sulla questione dei diritti dei Copti. Il governo ha anche dato un giro di vite ai movimenti sociali chiudendo quasi del tutto lo spazio creatosi in seguito alla rivoluzione egiziana del 2011.

All’indomani del doppio attacco alle chiese copte avvenuto lo scorso aprile, sono trapelate informazioni circa l’identità dei due kamikaze. Finora, ciò che è emerso conferma che, se la violenza settaria affonda le sue radici nella Storia egiziana, gli attacchi contro i Copti sono entrati in una nuova fase.

Infatti, mentre i gruppi di militanti jihadisti provenienti dal Sinai avevano concentrato le proprie attività in quella zona, ora stanno costituendo cellule in tutto il Paese. Gli attentatori suicidi dello scorso aprile operavano in modo molto decentrato attraverso Asiut e Qena, due governatorati dell’Alto Egitto.

In Egitto, le persone che potrebbero essere reclutate dall’ISIS altrove – quelle istruite e raffinate – tendono a credere che l’ISIS sia stato creato dagli Stati Uniti al fine di destabilizzare la regione. E ciò dimostra quanto siano stati inutili i video-messaggi dei terroristi: agli occhi di molti egiziani, l’ISIS rappresenta l’America e non l’Islam“, si legge nel periodico The New Yorker, in un articolo pubblicato pochi mesi fa.

I kamikaze coinvolti nell’ultimo attacco avevano tuttavia anche giurato fedeltà allo Stato Islamico e questo rappresenta forse la punta dell’iceberg in termini di capacità attrattiva in Egitto del gruppo terroristico. Questo indebolisce le ipotesi secondo cui gli esecutori degli attacchi alle due chiese copte sarebbero jihadisti dell’ISIS in ritirata da Iraq e Siria.

Molto più che pedine politiche

Il motivo per cui l’ISIS piace alle popolazioni locali in Egitto è una questione estremamente complessa. I Copti rappresentano un facile bersaglio, perfette pedine politiche contro cui gli attivisti possono scagliarsi. Ma è chiaramente inutile semplificare troppo il problema e giustificare tali sviluppi soltanto come una risposta alla repressione del Governo.

Il controllo del conflitto settario, sotto i regimi autoritari, ha inasprito le tensioni e in alcuni casi è stato complice del suo rapido sviluppo. Ha inoltre compromesso la corretta applicazione della legge. Le restrizioni alle libertà come quella di espressione e di associazione hanno limitato ulteriormente la capacità dei cittadini di chiedere conto al Governo del suo operato.

Dopo gli attacchi dello scorso 9 aprile si è diffuso un sentimento di preoccupazione rispetto all’idea che il Governo di al-Sisi stia utilizzando i Copti – e la loro vulnerabilità agli attacchi – come pedine politiche nel tentativo di stringere il livello di sicurezza del Paese. Molti sono preoccupati per le azioni volte a limitare le libertà civili – anche attraverso la recente introduzione di nuove leggi speciali.

Le richieste dei cittadini affinché gli Stati autoritari rendano conto del proprio operato è un fine importante di per sé, ma l’impegno per costruire comunità inclusive richiede molto di più.

In conclusione, è riduttivo spiegare l’identificazione dei Copti come bersaglio in termini di risposta armata all’autoritarismo di Stato. Spiegare l’attuale crisi in questo modo significa trascurare completamente le altre motivazioni ideologiche e politiche di chi ha mosso guerra contro i Copti e così facendo si contribuisce involontariamente a una politica di negazione.

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