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Gradazioni di nero, alle radici dell’afrofobia in Sudafrica

[Traduzione a cura di Benedetta Monti, dall’articolo originale di Baba Amani Olubanjo Buntu pubblicato su Pambazuka]

Lindsay Mgbor/Department for International Development. Licenza CC.

Gli africani che si trovano fuori dal continente si stanno sicuramente chiedendo: “Cosa sta succedendo in Sudafrica?” Probabilmente hanno visto o sentito le notizie riguardo a scontri violenti, abitazioni incendiate e violenze contro persone innocenti, sudafricani neri che aggrediscono gli africani di altre nazioni. Le nostre famiglie e i nostri amici non sono stati direttamente colpiti da questa violenza, che si sta però sta verificando a pochi isolati di distanza dalle nostre case, e in alcune zone prosegue tutto l’anno con maggiore o minore intensità. I media non ci stanno facendo giustizia, decidendo quando mostrare (o non mostrare) questa “tendenza”, ma in realtà quest’incubo ci accompagna ogni giorno (in modi diversi) a volte intensificandosi come in questo momento. Questo è un periodo devastante, le cui cause si basano su una storia lunga e complicata.

Purtroppo non esistono scuse o motivazioni valide per quello che sta accadendo. Spesso questo tipo di violenze esplodono per una frustrazione giustificata, ad esempio perché i membri di una comunità reagiscono ai fallimenti dei servizi pubblici e alle ingiustizie che destabilizzano contesti già impoveriti. Ma l’attuale escalation ha molto a che fare con le questioni irrisolte del passato del Sudafrica, con le estreme diseguaglianze esistenti e con la rabbia che molti sudafricani covano dentro. Questo Paese è spesso ritratto a livello internazionale come una storia di successo i cui fantasmi del passato sono stati messi a tacere, e dove la maggior parte delle persone gode di un reddito stabile e di una democrazia abbastanza efficace. Questo è sbagliato.

Lo scenario realistico è quello che segue: per la maggior parte dei sudafricani la vita è una lotta continua contro le quotidiane necessità, avendo davvero poco per sostenere le esigenze di vita. E, dopo 25 anni di promesse che la situazione sarebbe cambiata, in realtà non è cambiato niente. Il popolo sfruttato è rimasto sottopagato e ridotto in schiavitù per un così lungo tempo che ormai questa è diventata una situazione “normale”. Il Governo ha promesso di migliorare la situazione in merito all’occupazione, agli alloggi e ai servizi pubblici, e sebbene siano stati fatti alcuni progressi, molte comunità sono ancora in una situazione di disperato bisogno. Le disparità tra le persone ricche e quelle povere sono immense. La mente di molti sudafricani è stata corrotta, e manca di una visione e di uno spirito imprenditoriale capaci di creare una “sub-economia” efficace basata sull’autodeterminazione. Nelle comunità vi è un alto livello di violenza – che fa parte della vita quotidiana.

Molte persone provenienti da altre nazioni africane si trasferiscono in questo Paese (attirate dalla convinzione che in Sudafrica chiunque possa guadagnarsi da vivere) e, principalmente le grandi città – Johannesburg, Pretoria, Città del Capo e Durban – sono considerati luoghi in cui poter trovare una fonte di reddito e inviare a casa i propri guadagni. A causa dell’eredità culturale dell’Apartheid, la maggior parte dei sudafricani provano uno scetticismo innato nei confronti degli altri “intrusi” di colore. Il regime dell’Apartheid separava le persone di colore secondo le diverse lingue e metteva un gruppo contro l’altro. Attraverso questa prassi, nell’arco delle varie generazioni, l’antipatia verso le “persone che non appartengono a questo posto” è stata interiorizzata, e tale sorta di scetticismo è vissuto anche in termini razziali, dato che l’odio viene raramente espresso contro le persone di origini europee o asiatiche.

Chi arriva da altri Paesi dell’Africa con pochi soldi riesce a trovare un posto in cui vivere solamente nelle comunità più impoverite. Dove la battaglia per la sopravvivenza è dura, perché questi soggetti non parlano una lingua del Sudafrica e, quando arrivano, tendono ad unirsi a gruppi che fanno parte della loro nazionalità/lingua diventando “stranieri” – cioè considerati come una minaccia e un pericolo.

Chi arriva con l’intenzione di rimanerci per pochi anni (con lo scopo di guadagnare) ha una motivazione e uno spirito imprenditoriale completamente diversi dai sudafricani che da generazioni si trovano nella parte inferiore della società. Così, quando i sudafricani poveri vedono gli “stranieri” diventare ricchi, in grado di acquistare case, possedere automobili e gestire aziende, iniziano a considerarli più di una minaccia.

Oltre a questo, ci sono anche gli elementi criminali. Come sappiamo, il crimine prospera nelle comunità più povere e “senza legge”. Sappiamo anche che il crimine è un grosso affare ed è orchestrato da individui che occupano i livelli più alti della società, i quali utilizzano persone che invece si trovano ai livelli più bassi, in modo da non essere mai catturate. Chi sta in alto è ovviamente interessato a reperire propri “soldati di strada” coraggiosi, intrepidi e innovativi riguardo le modalità per massimizzare i profitti derivanti dal traffico di droga, dalla prostituzione e da altre attività criminali. E quando il crimine paga bene sappiamo che molte persone ne sono attratte, perché offre realmente molto denaro – dando accesso a stili di vita migliori (sebbene mai vicino alle ricchezze che ne ricavano chi agisce dietro le quinte). Alcune delle persone che provengono da fuori (insieme a qualche sudafricano) affrontano i rischi e intraprendono una carriera criminale.

Anche senza conoscere la storia più ampia, recandosi in alcuni quartieri della città si possono vedere molti “nigeriani” o “zimbawani” (e persone di altre nazionalità) coinvolti nel traffico di stupefacenti e nella prostituzione. Naturalmente i nigeriani assumono altri nigeriani, come gli zimbawani altri zimbawani. Questo fa pensare che il problema sia solo nigeriano, o che gli zimbawani siano i peggiori criminali, quando in realtà sono pochi gli elementi di queste comunità coinvolte nei traffici, e invece tutte le nazionalità sono coinvolte nelle attività criminali.

Dato che molti dei non sudafricani si sentono in pericolo (a causa degli attacchi violenti contro gli “stranieri”), finiscono per aprire negozi vicino alle persone che hanno la loro stessa nazionalità, stando vicini gli uni agli altri e gestendo reti di supporto. Questo è alla base del motivo per cui i sudafricani affermano che “questi stranieri ci stanno portando via il lavoro” ecc. Naturalmente questa non è la verità. Piuttosto, questi africani che provengono da altre nazioni hanno ampliato l’economia (sia formale che informale) in modi innovativi e offrono un lavoro anche a molti sudafricani. E anche l’accusa che “tutti questi stranieri sono qui illegalmente” va vista in modo diverso. In primo luogo, l’affermazione che “milioni di persone stanno invadendo la nazione” è una bugia esagerata (ma perfetta per creare paura e ansia). In secondo luogo, ottenere i documenti in Sudafrica costituisce un vero incubo. Il sistema è incredibilmente lento e le persone restano in attesa per anni, dato che le norme vengono spesso modificate e i centri per i servizi sono un disastro. Ciò significa che molti non sono in possesso dei documenti a causa della lentezza del sistema e non perché vogliono essere residenti “illegali”.

Torniamo sulla questione che per alcuni non sudafricani l’unica opzione rimanga quella di entrare a far parte della criminalità. Molti “sudafricani regolari”, che non prendono in considerazione ciò che ho illustrato, devono affrontare situazioni in cui (oltre a combattere per le abitazioni, per l’acqua e per i servizi igienici, ecc.) ora vedono i propri figli o i propri giovani attratti da stili di vita criminali che sembrano essere gestiti da “stranieri”. Ricordatevi cosa ho detto riguardo alla mente dei sudafricani segnata da un passato di estrema violenza. Mettendo assieme questi scenari si inizia a comprendere la collera causata della sensazione di impotenza, e spesso, quando le persone si sentono impotenti, diventa necessario un capo espiatorio e un modo per potersi sfogare. Arrabbiarsi con il Governo non funziona (sebbene ci siano molte iniziative di protesta contro i servizi del Governo che, semplicemente, non esistono), mentre arrabbiarsi con altre persone che sono ugualmente impotenti sembra funzionare. In questo modo si sviluppa una reazione isterica e ciò che è iniziato come una preoccupazione legittima diventa una devastante sete di sangue. La ragione viene esclusa e le manifestazioni assumono la forma di vandalismo. I protagonisti provocano agitazioni ed esplode la pazzia in cui le grida come “uccidiamoli” e “buttiamoli fuori” diventano slogan.

Ecco perché alcuni negozi degli “stranieri” vengono incendiati (alcuni possono essere sì stati usati per le attività criminali, ma in questi raid vengono danneggiate anche persone innocenti). Oltre ai residenti furiosi delle comunità sudafricane, si uniscono alle manifestazioni anche criminali e altri “elementi” che fanno aumentare i livelli di scontento e rabbia fino alla vera e propria pazzia. Tali dimostrazioni finiscono con il raggiungere una violenza incredibile e priva di senso. È una situazione veramente inquietante.

Chiamo questa violenza “afrofobia”, non xenofobia. La xenofobia è la paura di chi è realmente “estraneo”, ma gli africani non possono essere considerati tra loro né estranei né “stranieri”. Quello che accade qui è la forma estrema di un elemento che possiamo rintracciare nelle le società nere in tutto il mondo: variazioni dell’odio verso di sé espresso come rabbia contro noi stessi. Si tratta della stessa violenza neri-contro-neri che possiamo vedere in molti luoghi del mondo africano. La supremazia bianca ha privato gli africani del proprio potere a tal punto che l’unica reazione è diventata la violenza. E invece di dirigere tale violenza contro chi rappresenta realmente un nemico (specialmente in Sudafrica “avrebbe senso” se tale rabbia fosse espressa contro i bianchi che possiedono la maggior parte della terra, dell’economia e della produzione), viene inflitta verso chi rappresenta l'”altro nero”.

Si tratta di una psicologia contorta e oscura che si esprime in molti modi malati. Nel caso specifico è legata a generazioni di dolore, silenzio, negazione, oppressione, saccheggi e disumanizzazione che molti sudafricani neri hanno accumulato e mai risolto. Ripeto, non si tratta di trovare una scusa o una spiegazione che giustifichi quello che sta succedendo, ma solo un modo per fornire una base logica. Se non risolviamo questi problemi, questi scenari – o perfino scenari peggiori – continueranno a riproporsi.

Oltre a quanto ho menzionato in precedenza, ritengo che siano intervenute anche istigazioni dall’esterno, gli interessi dei bianchi che operano nell’ombra e la corruzione degli organismi statali. L’unico conforto è che questa non è la mentalità della maggioranza dei sudafricani, che sono contrari alla violenza (sebbene alcuni sudafricani esprimano fermamente il proprio disgusto). La cosa peggiore è che non si sta facendo abbastanza per prevenire e fermare tali scoppi di violenza da parte degli organismi statali e di Governo. Questo porta alla paralisi della società. E le istituzioni che potrebbero fermare tale violenza sembrano in parte disorientate, in parte inconsapevoli, a volte invece come se volessero che la violenza si verificasse. È davvero una situazione devastante.

Ci sono gruppi per i diritti umani e altre organizzazioni nelle comunità che sono coinvolte nella creazione di un dialogo, per alleviare le tensioni e cercare di risolvere i conflitti, ma i problemi di questa natura necessitano innanzitutto un coinvolgimento forte degli organismi statali in forma di interventi chiari e decisi per fermare del tutto queste violenze assurde. In seconda istanza, deve essere affrontata la questione della povertà, perché alle radici di questo fenomeno si trovano le questioni della diseguaglianza e condizioni di vita disumane. Terzo, quando la povertà sarà affrontata, il dialogo e lo scambio, o la collaborazione imprenditoriale, devono essere introdotti in tutte le comunità. Non deve trattarsi soltanto di parole ma di un’esperienza di co-esistenza. La nostra organizzazione [eBukhosini Solutions, NdR] ha introdotto diversi modelli in alcune comunità proprio con riferimento a questi problemi, ma restiamo purtroppo indifesi quando le fiamme della violenza ci sovrastano.

L’impegno deve continuare.

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