[Eileen Quinn è stata per una settimana a bordo della Topaz Responder, la nave del Migrant Offshore Aid Station, ONG che si occupa del soccorso di migranti in mare. Di seguito il Reportage per la nostra testata delle ore più intense, legate alle operazioni di salvataggio di centinaia di persone.]
Assistere a un salvataggio di migranti in mare, in estrema sintesi, significa smettere di preoccuparsi della crisi migratoria in Europa. Di fatto, durante un salvataggio non c’è tempo per pensare. Tutte le tue energie sono impegnate nel cercare di impedire che le persone muoiano, che tu stesso muoia nel corso delle operazioni di salvataggio, e chiaramente anche nel gestire il peso emotivo di tutto questo.
Salvare qualcuno è un momento traumatico perché all’estrema felicità che lo accompagna seguono quasi sempre il vuoto e lo sconforto per quelli che non sei riuscito a tirare a bordo, o semplicemente per il dolore che hai visto patire. In quel momento di “euforica angoscia” ti rendi conto che qualunque dolore di quel tipo è, o meglio dovrebbe essere, evitato a tutti i costi.
L’equipaggio a bordo della Topaz Responder tutto questo lo sa bene. La nave è impegnata nel soccorso di migranti nel Mediterraneo centrale dal giugno 2016, noleggiata dalla ONG senza fini di lucro Moas, acronimo di Migrant Offshore Aid Station. L’ONG, registrata a Malta e fondata dai coniugi filantropi Christopher e Regina Catambrone nel 2014, opera nel soccorso di migranti nel Mar Egeo, nel Golfo del Bengala e nel Mediterraneo centrale.
A bordo della Topaz Responder sono tre i gruppi che collaborano a questo intento: soccorritori professionisti e il foto-giornalista della fondazione Moas, personale sanitario e mediatico della Croce Rossa, e infine il Capitano della nave e i tecnici della compagnia Topaz, quest’ultima proprietaria della Responder. Il sistema di salvataggio è complesso, basato soprattutto sull’altissima collaborazione tra questi tre gruppi, e sul fatto che tutti sanno esattamente cosa fare e, ancora più importante, cosa non fare.
“Ho contribuito al salvataggio di circa 10.000 migranti da quando ho iniziato a lavorare per Moas lo scorso luglio. Qui viaggiamo su corde estreme, da 0 a 100 in pochi secondi. Il minuto prima non c’è nulla da fare, quello dopo devi soccorrere più di 300 persone stipate in un barcone“, racconta Joseph Sammut, detto Joey, marinaio scelto sulla Topaz Responder dal luglio 2016. La sua non è una stima approssimativa. Insieme ai suoi colleghi Pierre, Hamilton, Antoine, Marcin, Paul, e Pedro – tutti esperti soccorritori del Moas – circa 10.000 vite sono state risparmiate a una morte orribile in pochi mesi.
L’ultimo salvataggio del 2016 della Topaz Responder è avvenuto nella notte tra il 21 e il 22 novembre, a 20 km dalle coste libiche, nella zona di mare di ricerca e soccorso (SAR).
Sono le 23:00 quando il primo barcone viene avvistato dai radar di bordo. “Preparatevi, tra pochi minuti inizieremo il soccorso“, dice John David Hamilton, coordinatore dell’equipaggio Moas a bordo, con un’esperienza di salvataggi in mare di oltre 20 anni. Quella è la prima di sei operazioni che l’equipaggio condurrà in undici ore, salvando un totale di circa 650 migranti. Provengono da Siria, Palestina, Libano, Sudan, Marocco, Gambia, Mali, Eritrea, Costa d’Avorio, Ghana e Togo.
La maggior parte di loro (dei sopravvissuti si intende) riporta bruciature estese sulla pelle, è in stato di shock, e non riesce più a camminare. “Sono gli effetti del petrolio che uscendo dal motore si accumula dentro l’imbarcazione ustionandoli e praticamente drogandoli, e di ore trascorse stipati come bestie“, spiega Paul Chamberlain, nuotatore professionista sulla Topaz Responder, mentre trasportiamo circa 400 migranti per lo più eritrei dal quarto barcone stracolmo alle imbarcazioni di salvataggio ad alta velocità guidate da Antoine e Marcin.
Antoine Camilleri, di origini maltesi, spiega che le due imbarcazioni ad alta velocità sono state ribattezzate con i nomi Alan e Galip Kurdi, in memoria dei due bambini siriani morti nel settembre 2015 in seguito al rovesciamento dell’imbarcazione sulla quale viaggiavano dalla Turchia, come molti altri siriani in fuga dal conflitto.
Per tutti i migranti soccorsi dalla Topaz Responder il 21 novembre l’ultima tappa prima del viaggio in mare è stata la Libia, nelle mani di trafficanti che in Africa gestiscono un mercato di contrabbando umano che vale milioni di euro e di morti. Sono i tanto dibattuti richiedenti asilo che, in fuga dai Paesi di origine, attraversano la rotta del Mediterraneo centrale in cerca di un’alternativa in Europa.
I trafficanti libici, in collaborazione con quelli del Niger, dell’Eritrea e del Sudan, trattengono spesso i migranti in case descritte come vere e proprie prigioni al fine di riscuotere il pagamento per il viaggio che si aggira tra i 1000 e i 3000 dinari libici (circa € 700/2000). Alcuni migranti vengono trattenuti anche per vari mesi e chi sopravvive racconta di avere subìto abusi fisici e psicologici così estremi da rendere il viaggio via mare, per troppi morte certa, una liberazione.
“Mi hanno fatto cose orribili, non riesco a dire come mi hanno torturato. Sono vivo?“, chiede Mohamed, migrante della Costa d’Avorio, subito dopo che Pedro, altro nuotatore professionista a bordo, lo aiuta a salire sulla Topaz Responder dal barcone sul quale viaggiava insieme ad altri 31 migranti. Con gli occhi sgranati e lo sguardo vuoto di chi è appena sopravvissuto, si accascia sul ponte. Accanto a lui, un altro migrante si inginocchia iniziando a pregare, come aveva pregato Joey, il giovane marinaio scelto, poco prima di soccorrerli.
I due salvataggi più difficili arrivano però la mattina del 22 novembre. L’equipaggio è stremato dopo avere soccorso quattro barconi per un totale di oltre 500 migranti durante la notte, di cui 400 trasferiti sulla nave di soccorso di Save The Children, la Vos Hestia. Adesso i radar hanno avvistato due gommoni, quasi interamente coperti dall’acqua. Sono 133 le persone recuperate, ma dalle testimonianze raccolte dai migranti si teme che almeno in 50 siano annegati durante il viaggio.
Abdel, della Croce Rossa, parla con una bambina di dodici anni che insieme alle sue sorelle ha perso la madre in quel viaggio. Come lei, anche Abdel, di origini eritree, aveva lasciato l’Africa a bordo di un barcone nel 2011 per poi essere soccorso e portato in Italia. Oggi Abdel coordina la Croce Rossa a bordo della Topaz Responder.
Con 237 persone salvate sul ponte, due i morti, la nave soccorso è pronta a fare ritorno al porto di Vibo Valentia in Calabria. I migranti sembrano stare meglio adesso, grazie a vestiti asciutti, coperte e le cure mediche fornitegli a bordo. I ragazzi dell’equipaggio sono allegri, per quanto sfiniti, perché centinaia di persone sono state salvate.
“Vedi quella porta che separa il ponte della nave dall’interno? Per me quella porta di legno è il simbolo di questa crisi migratoria. Da un lato ci siamo noi, con tutti i comfort, pronti a tornare a casa. Dall’altro ci sono loro, che da casa sono scappati e non hanno idea di dove finiranno. Ci penso tutte le volte che la attraverso“, dice Paul, sorseggiando un caffè a poche ore dall’ultimo salvataggio.
La mattina dell’arrivo a Vibo Valentia i migranti sono tutti in piedi sul ponte, lo sguardo fisso sulla terra davanti a loro. Con la Libia alle spalle, e l’Europa davanti, mettono piede a terra in fila uno dopo l’altro. Chiedono tutti se questa è l’Italia.
[Le foto del Reportage sono di Eileen Quinn]