Cinzia, in che modo i media raccontano le donne di mafia?
Le donne di mafia sono mal raccontate. L’immaginario televisivo ha appena cominciato a parlare di loro. Prima erano invisibili, donne nell’ombra, soggetti passivi, tuttalpiù usate inconsapevolmente da mariti, fratelli, padri per traffici illeciti di “natura minore”. Un immaginario non stereotipato e più moderno delle donne malamente le mafie ce l’hanno già da un pezzo. Ci siamo perciò dette che era arrivato il momento, nell’osservare i vari aspetti della criminalità organizzata – l’origine, la struttura, l’articolazione, lo sviluppo, la produzione economica, politica, sociale e culturale – di dare spazio alla sua questione di genere, considerandola un utile paradigma per la comprensione dei rapporti tra i generi nell’intera società.
Che significa oggi dare uno “sguardo di genere” al fenomeno delle donne che hanno a che fare con la criminalità organizzata?
Il rapporto donne e potere, la “femminilizzazione della società” sono due categorie attraverso cui leggere le contraddizioni implicate nel processo di emancipazione femminile. Una pagina che abbiamo voluto aprire ed approfondire nel secondo volume di Sdisonorate, pubblicazione in cui abbiamo scelto di raccontare alcune storie emblematiche collocandole in tre capitoli differenti: “Donne contro”, “Donne di mezzo”, “Donne di potere”. Suddivisione che non risponde a una specifica categoria di donne coinvolte nei processi mafiosi, quanto alla necessità di articolare le problematiche di cui le protagoniste sono espressione a partire dal loro posizionamento nell’ambiente mafioso e dalle scelte differenti che hanno sostenuto.
Abbiamo messo al centro le storie di vita delle donne per dimostrare quanto le loro singole biografie, sebbene non rimandino ad un discorso universale sul ruolo femminile nelle mafie, scivolino su questioni che si affacciano sul presente portandoci ad una traccia comune: il rapporto donne e potere, la tensione tra emancipazione e libertà femminile, la dinamica tra assimilazione ed estraneità che definisce la soggettività femminile, erede di una memoria storica di sudditanza, ma anche di una forza che rompe gli argini, scardina gerarchie di potere, riscrive i destini da vittime a soggetti pieni.
Quando hanno iniziato a mutare le relazioni di genere all’interno della compagine mafiosa?
Se la donna nelle organizzazioni criminali è ancora la garante della reputazione maschile, a partire dagli anni ’70 (grazie a un forte potere di adattamento delle intere strutture criminali), le donne si sono ritagliate (inizialmente per concessione maschile) ruoli nella gestione e nella leadership (a partire dal momento in cui le mafie hanno scoperto il business delle droghe), producendo un cambiamento delle caratteristiche tradizionali delle organizzazioni criminali. Femminilizzando mansioni che prima erano di appannaggio esclusivamente maschile, sono diventate intestatarie di società a fini di riciclaggio di denaro sporco gestendo attivamente patrimoni, dando ordini (e dandoli a molti uomini), partecipando attivamente ad agguati mortali (non limitandosi perciò a fungere da tramite dal carcere verso l’esterno).
Se in un primo momento si è pensato che il cambiamento fosse stato possibile perché le suddette mansioni non comportavano l’uso della violenza (per la quale si credeva che le donne non fossero tagliate) – e il sistema virile e maschilista della criminalità organizzata poteva rimanerne non compromesso, oggi sappiamo di poter rinunciare allo stereotipo della donna inconsapevole sempre e comunque. È agli studi della sociologia della devianza e della criminologia femminista che dobbiamo molto, avendoci essi dimostrato come da queste distorsioni, e all’atteggiamento comprensivo e giustificatorio del sistema giudiziario verso il genere femminile, le associazioni mafiose abbiano tratto un cospicuo beneficio, garantendo ampia impunità ai movimenti criminali operati da donne, impiegate dalle proprie famiglie tanto nei momenti di crisi (arresti, latitanze), quanto nei momenti di massima espansione. Sia per una questione di fiducia sia, appunto, per una scarsa propensione al controllo delle donne nel comparto mafioso da parte delle forze dell’ordine.
“Donne contro”, “Donne di mezzo”, “Donne di potere”. Come avete strutturato il dossier?
Il rapporto donne e potere, la tensione tra emancipazione e libertà femminile, la dinamica tra assimilazione ed estraneità che definisce la soggettività femminile, erede di una memoria storica di sudditanza, ma anche di una forza che rompe gli argini, scardina gerarchie di potere, riscrive i destini da vittime a soggetti pieni. È ciò che accomuna le donne che hanno sfidato la mafia, raccontate nel primo capitolo, curato da me. “Donne contro” che nella maggior parte dei casi, in seguito all’uccisione violenta dei propri congiunti per fatti di mafia, hanno trasformato il dolore privato del lutto in una scelta civica di protesta e ribellione. “Donne contro” sono le donne che si stanno impegnando nella lotta alla mafia per motivi diversi, alcuni dei quali non necessariamente collegati ad elementi biografici. Protagoniste di un medesimo gesto di rottura sono le “Donne di mezzo” trattate nel secondo capitolo curato da Angela Ammirati.
Le “Donne di mezzo” sono quelle donne che provengono da contesti mafiosi nei quali sono nate e cresciute o con cui sono venute successivamente in contatto. Sono donne di confine tra un “dentro”, di cui hanno fatto parte anche assumendo ruoli attivi nell’attività criminale, e un “fuori” che, in seguito alla scelta di collaborare, è tutto da riempire e reinventare attraverso nuovi valori di riferimento. Il viaggio interiore che devono attraversare nelle loro esistenze segnate da condizionamenti culturali maschilisti e mafiosi, prevaricate da storie di violenza di genere, diviene una sfida da reinventare senza modelli di riferimento cui ispirarsi o da imitare (Renate Siebert, Le donne, la mafia, 1994).
Un altro spaccato è proposto dalle donne che assumono un ruolo di comando nelle organizzazioni mafiose. Raccontate nel terzo capitolo curato da Laura Triumbari, offrono un quadro interessante entro cui analizzare il protagonismo femminile nell’attività criminale, il dilemma tutto da indagare dell’emancipazione femminile, che molte studiose hanno definito “ambigua”, espressione che permette di fotografare le “donne al potere” considerando i limiti di questo fenomeno, analizzando le contraddizioni prodotte dai cambiamenti sociali, così come i condizionamenti che hanno portato le donne a compiere simili scelte. All’interno di ogni capitolo abbiamo ospitato gli interventi di scrittrici, giornalisti/e studiosi/e esperti/e dei sistemi mafiosi che hanno arricchito il saggio di contributi preziosi, consapevoli che le mafie racchiudono un sistema complesso su cui più sguardi interdisciplinari possono aiutare a mettere a fuoco un problema di per sé sfuggente e difficile da definire. Abbiamo privilegiato lo sguardo di chi ha indagato e pensato le mafie in maniera più profonda e orientata al genere.
Che differenza c’è fra ndrangheta, Cosa Nostra e mafia nell’accesso ai ruoli verticistici?
Le trasformazioni avvenute negli ultimi anni nelle funzioni criminali sono ancora una volta subìte dalle donne oppure hanno fornito loro un fattivo potere decisionale? Perché accanto ai loro nuovi incarichi, le donne mantengono tuttavia il ruolo di chi alimenta il silenzio, il silenzio che serve alle cosche per andare avanti nei propri affari e questa cura del silenzio permette agli uomini di “lavorare”. Il rischio è comunque quello di sostituire il vecchio stereotipo della donna tradizionale, incapace di scegliere in autonomia, con quello della manager spietata. Il confine è molto labile e, letta sul lungo periodo, la trasformazione del ruolo delle donne è il risultato di un processo falsato: le donne sembrano aver raggiunto un’eguaglianza sul piano criminale, ma non nella sfera individuale, dove appaiono ancora legate a vincoli tradizionali propri di un sistema di genere patriarcale. Le donne, fra l’altro, non hanno ottenuto veri vantaggi rispetto alle nuove “opportunità lavorative”, perché non vi è mai una rottura della dipendenza psicologica ed economica dai propri mariti o compagni, se non nei casi di collaborazione con la giustizia.
Merita un’analisi distinta il caso napoletano, dove il ruolo delle donne appare più evidente e più paritari sembrano i rapporti fra maschi e femmine dei clan. Ciò è dovuto, innanzitutto, alle specifiche caratteristiche degli strati popolari della città, eredi di una cultura urbana con una scarsissima segregazione fra i mondi maschili e femminili che si ripercuote anche nella cultura e nelle pratiche delle organizzazioni criminali, che vedono la partecipazione attiva delle donne. A differenza di mafia e ‘ndrangheta i clan camorristi non prevedono un reclutamento esclusivamente maschile e non hanno rituali di affiliazione, dunque dal punto di vista formale nulla impedisce alle donne di arrivare ad occupare posizioni di leadership se ne mostrano le capacità.
Tutto ciò lascia maggiore spazio alle figure femminili, che possono assurgere a veri e propri ruoli di comando. Se si analizza la struttura interna dei clan, si può notare, tuttavia, come alle donne siano soprattutto demandati i controlli di alcuni settori: l’usura, il contrabbando, l’occultamento e la preparazione della droga, il lotto clandestino. Ciò confermerebbe una tipica divisione dei ruoli: gli uomini gestirebbero la violenza (gli omicidi, le punizioni, le estorsioni…) e le donne si occuperebbero del settore dei “commerci” e degli scambi. Ma, se proviamo ad analizzare più in profondità alcuni casi, possiamo scoprire a questo proposito una realtà più complessa e una maggiore sovrapposizione di codici e pratiche criminali.
Che caratteristiche ha l’antimafia al femminile?
L’estraneità, l’esclusione storica delle donne dalla sfera pubblica e dal potere sono sicuramente la cornice in cui inquadrare la sordità con cui viene recepita l’antimafia al femminile. Dalle battaglie di giustizia condotte dalle contadine nei fasci siciliani, alle raccoglitrici di olive nella piana di Gioia Tauro, al rifiuto di Franca Viola a sposare il mafioso che l’aveva rapita, fino all’Associazione donne siciliane contro la mafia che nel 1980 raccolse oltre 30.000 firme per ottenere che venissero discussi i disegni di legge Rognoni e La Torre. La storia delle lotte alle mafie è costellata di testimonianze storiche, fotografie resistenti, processi simbolici e piccoli atti di resistenza quotidiana.
Quasi sempre sono donne le interpreti più o meno consapevoli di questi passaggi d’epoca. La ribellione femminile matura spesso attraverso il racconto e la narrazione pubblica. Tantissime sono oggi come ieri le donne che hanno sovvertito i modelli culturali introiettati. Intraprendendo percorsi di collaborazione con la giustizia, spezzando legami familiari e allevando figli contro: Lea Garofalo come Felicia Bartolotta Impastato. Felicia che ha trasformato un fatto privato, il lutto per il suo Peppino, in una pratica politica. Lea che ha voluto una vita altra per sé e per sua figlia. È forse nell’anelito di libertà, nella ricerca di una nuovo sé, che dobbiamo rintracciare la cifra del loro agire “contro”. In questo senso le parole della giovane Denise Cosco, figlia di Lea Garofalo, ci aiutano a rintracciare il filo: “Io voglio vivere libera di studiare, finire il liceo e laurearmi. Voglio vivere, amare e voglio avere la libertà di essere felice anche per mia mamma“.