Il suo ultimo libro è “La rivoluzione tradita. La fine delle ideologie islamiche“ (ed. Poiesis), che segue a “Le voci di piazza Tahrir”, uscito per la stessa casa editrice. L’autore è Vincenzo Mattei, giornalista e blogger, che ha vissuto fino al 2014 al Cairo. Con lui parliamo della delicata situazione egiziana.
Nel sul libro “Egitto. La rivoluzione tradita e la fine delle ideologie islamiche” analizza il contesto egiziano dal 2012 ad oggi. Ci spiega perché parla di “fine delle ideologie islamiche“?
La fine delle ideologie islamiche si riferisce al fallimento dell’esperienza al governo dei Fratelli Musulmani in Egitto, la loro incapacità di riuscire ad adattarsi a una dialettica democratica-statale. È vero che hanno trovato una dura opposizione da parte di tutti quegli apparati appartenenti al vecchio regime, però è anche vero che hanno dimostrato una certa riluttanza al dialogo con le altre opposizioni parlamentari. I FM non sono stati in grado di proporre una politica economica coerente e in grado di mettere in moto una riforma dell’economia che combattesse la povertà e l’ingiustizia sociale molto presente nel Paese. Invece di creare il consenso i FM hanno creato scontento nella popolazione dimostrando incapacità a capire l’opinione pubblica popolare.
Alaa Abd El-Fattah, uno dei più noti attivisti e blogger egiziani, è stato condannato al Cairo a cinque anni di reclusione. Non più tardi di un mese fa – secondo quanto riportato da AsiaNews – il portavoce della Chiesa cattolica Rafic Greiche ha affermato che “In Egitto vi è larga libertà di espressione: i talk show televisivi, i giornali criticano in lungo e in largo il governo e nessuno è stato imbavagliato. Il problema sono quelle manifestazioni in cui sono presenti attivisti che scuotono la sicurezza della società e mandano a rotoli l’economia“. Ci racconta il suo punto di vista di giornalista e blogger, che dal 2006 fino a marzo del 2014 ha vissuto al Cairo?
Non mi trovo d’accordo con il portavoce della chiesa cattolica Rafic Greiche. La libertà di espressione non è rispettata, qualsiasi dissenso contro il regime viene automaticamente represso, la libertà d’espressione si è di nuovo spostata sul web, sui social network, come era prima della rivoluzione; purtroppo ora i servizi segreti egiziani controllano anche i social network per poi controllare i dissidenti nella vita reale. Se veramente ci fosse libertà d’espressione Alaa Abd El-Fattah non sarebbe mai andato in carcere e non sarebbe mai stato condannato. Il movimento liberale del 6 Aprile è stato dichiarato fuori legge come altri movimenti democratici, molti attivisti sono in carcere, le manifestazioni sono proibite pena incarcerazione … non mi sembrano proprio segnali di rispetto per le libertà d’espressione.
Le manifestazioni, e l'”occupazione” della piazza e quindi dei luoghi pubblici, sono i primi passi della riconquista delle libertà. Un Paese che si vuole definire democratico deve rispettare questi principi, altrimenti si cade nell’autoritarismo. L’inasprimento della crisi economica è stata una tattica degli appartenenti al vecchio regime (foloul in egiziano), perché sono loro, insieme ai militari, che gestivano e gestiscono il 90% dell’economia. Peggiorando la condizione economica, i foloul hanno portato la popolazione allo stremo per riconsiderare la rivoluzione non come portatrice di libertà, giustizia sociale e miglioramento delle condizioni economiche e non del Paese, ma come causa principale dello stallo e del peggioramento economico in cui questo ora si trova.
È tutto un insieme di fattori: i militari avevano tutte le capacità logistiche e pratiche per gestire l’economia molto meglio di come hanno fatto nel periodo transitorio prima della restaurazione (l’esercito gestisce quasi il 40% dell’economia nazionale, ved. “Le voci di Piazza Tahrir”, ed. Poiesis), solo che non hanno voluto.
Lei ha affermato: “la rivoluzione ha messo in atto un movimento per il rispetto dei diritti umani e più in generale una spinta sotterranea che attraverso la letteratura, il cinema, la fotografia, i graffiti, che continuerà a denunciare i potenti di turno“. Ne è convinto?
Il libro, “La rivoluzione tradita. La fine delle ideologie islamiche”, riprende quello precedente, che ripercorre tutto il movimento per il rispetto dei diritti umani ed artistico, gli stessi che hanno innescato il movimento rivoluzionario a partire dell’inizio del 2011. Il libro è stato terminato a marzo 2014 e già si poteva prefigurare che il nuovo regime egiziano sarebbe dirottato verso derive più autoritarie e repressive verso qualsiasi movimento contestatore, sia politico che artistico come poi si è rivelato.
Era ed è ancora un auspicio che la rivoluzione possa per certi versi continuare nel movimento artistico, sebbene la censura mostrerà nuovamente i muscoli come accadeva sotto Mubarak. Forse quando il contesto d’instabilità intorno all’Egitto, di cui parlo nel libro, migliorerà negli anni (o forse decenni), quello spirito della rivoluzione potrà essere rivalutato o rielaborato dagli stessi egiziani.
La situazione economica in Egitto è sempre più critica, con oltre il 26% degli egiziani che vive al di sotto della soglia di povertà e il 40% che sopravvive con 2 dollari al giorno. Come si cerca di resistere oggi alla crisi?
Non vivo al Cairo da marzo 2014. La situazione non credo che sia cambiata molto. Purtroppo le politiche economiche neo-capitaliste (messe in pratica da Alaa Mubarak già a inizio millennio) non prevedono un’equa distribuzione delle risorse, la forbice tra ricchi e poveri è destinata a aumentare. Non viene generato o importato il know-how, le politiche assistenzialiste non aiutano, ma non per questo devono essere smantellate brutalmente senza sostituirle con altre più efficienti, perché genererà molto probabilmente altre tensioni sociali dentro la società egiziana.
Contro i terroristi in Libia Al Sisi ha chiesto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu un intervento costituito anche da truppe di terra. Che ne pensa?
La Libia è uno stato vastissimo, difficilmente controllabile, non credo che un intervento delle truppe di terra possa veramente cambiare la situazione nel territorio libico. I contingenti di un solo Paese non sarebbero sufficienti, né quelli di un’Alleanza esterna più estesa se non viene implementato un piano d’azione coerente congiunto con l’azione locale di personalità di rilievo libiche (che al momento non si intravedono). Inoltre c’è da capire se tutti i capi dell’ipotizzata coalizione si coagulino intorno ad una sola personalità, Il Cairo appoggia il governo di Tobruk, mentre Washington sembra appoggiare quello di Tripoli dei FM che tanto piace al Qatar e alla Turchia. Ipotizzando per assurdo un intervento esterno, da dove arriverebbero le truppe internazionali? Dalla Tunisia, dal mare e dall’Egitto? Se fosse così i jahadisti dell’Isis potrebbero sempre ritirarsi verso il deserto e verso i Paesi confinanti al Sud, per poi reindirizzare la loro forza terroristica in altri Paesi (se non fossero già presenti) o attendere fino a quando le truppe internazionali non siano andate via (vedi esperienza in Iraq) e ripresentarsi in Libia di nuovo.
Sembra utopistico, ma l’Isis si dovrebbe combattere con le idee. Chi sono i combattenti “europei” che vanno in Iraq o in Libia a lottare sotto il vessillo delle bandiere nere dello Stato Islamico? Disillusi dalla politica, dalla mancanza di lavoro, da promesse mai mantenute, dalla convinzione di essere ritenuti di una classe inferiore (spesso sono figli di immigrati di seconda o terza generazione), dallo svilimento dei valori e dei principi sui quali si fonda la società occidentale-europea. Se quest’ultima tende più verso l’esclusione e la spersonalizzazione dell’individuo ridotto a mero consumatore che all’inclusione dell’individuo-cittadino, allora il flusso “umano” di nuovi adepti dell’Isis dall’Europa non si fermerà molto facilmente. Le leggi per il rientro dei foreign fighters costituiscono solo un palliativo, uno specchietto per le allodole per l’opinione pubblica.
Dopo aver incontrato Putin al Cairo il capo di Stato egiziano Abdel Fattah al Sisi ha dichiarato in conferenza stampa che i due Paesi sono intenzionati a continuare la loro “cooperazione militare”. Quali ricadute potrebbe avere questa rinnovata partnership?
Il governo de Il Cairo sta intenzionalmente giocando su due sponde. Al Sisi ha bisogno che la sua leadership sia confermata dalle altre nazioni. L’ex generale è cosciente che molti Paesi, soprattutto europei, hanno accettato il nuovo regime con molta reticenza dopo il colpo di stato soft del luglio 2013. Per ottenere questo riconoscimento deve forzare la mano anche irritando i suoi alleati-partner come gli Stati Uniti; ciò significa anche incontrare e stipulare accordi economici con la Russia di Putin che in questo momento non ha buone relazioni con gli Usa per via della situazione in Ucraina. Non credo in uno spostamento nell’immediato delle alleanze dell’Egitto, la sua partnership con gli Usa non è solamente militare, questi ultimi sono il primo Paese per volume di scambi economici dell’Egitto. Lo scopo di Al Sisi sembrerebbe proprio quello di ricordare alla potenza al di là dell’Atlantico di non dimenticarsi del fidato alleato della terra del Nilo. Al Sisi si è spesso lamentato di non riuscire a fare fronte da solo della situazione esplosiva in Sinai, dove l’organizzazione terroristica Ansar Bait al Maqdis, affiliata ad Al Qaeda e all’Isis, crea scompiglio e disordine nella regione. Al Sisi cerca disperatamente aiuti militari dall’America, forse anche un aumento dell’ “assegno” annuale di $ 1,3 mld che riceve dagli Usa dal 1978, mentre allora costituivano una somma ingente, oggi costituiscono a malapena meno dell’1% dell’economia egiziana.