[Traduzione a cura di Manuela Beccati dall’articolo originale di Jonah Lipton, pubblicato su Think Africa Press.]
A mezzanotte vado giro a bordo di un taxi nell’East End di Freetown, la capitale della Sierra Leone, l’autista è un giovane che si fa chiamare Diritto Umano. È da un anno che Diritto Umano mi accompagna regolarmente nei tragitti urbani in cui faccio salire passeggeri che diventano parte del mio dottorato di ricerca in Antropologia. Di solito la notte nell’East End è movimentata, ogni incrocio è zeppo di gente che mangia e beve nei locali che vendono cibo da asporto, il cosiddetto street food, o che bighellona. Oggi invece c’è solo una manciata di persone a cui dare un passaggio. “Le strade sono a secco“, osserva Diritto Umano.
L’affievolirsi della stagione delle piogge di solito coincide con l’intensificarsi della gente per strada, il che porta più lavoro a molti, autisti inclusi, ma il mese scorso il Governo della Sierra Leone ha imposto numerose restrizioni per far fronte all’esplosione dell’ebola. I mototaxi possono fare solo un certo numero di corse durante le ore diurne. I posti affollati come cinema, bar oppure scuole sono chiusi in tutto lo Stato. Gli spostamenti da e verso gli epicentri dell’epidemia, ad est della nazione, sono severamente vietati. Molta gente è senza meta, né soldi da spendere.
Diritto Umano dice che l’élite del Paese non risente dell’epidemia di Ebola come succede invece alla gente comune. E non è l’unico a pensare che alcuni hanno perfino un ritorno personale grazie alle donazioni fatte dalla comunità internazionale e dalle grosse aziende locali. L’élite ha anche meno rischi di contagio rispetto a chi lavora per strada.
Ci avviciniamo a un posto di blocco della polizia mentre stiamo andando verso il centro. Gli agenti fanno cenno di accostare e iniziano a elencare tutto quello che non è in regola nell’auto, minacciando di condurci alla vicina stazione. Come al solito, Diritto Umano mette mano al portafogli e si priva di una parte del suo guadagno giornaliero così possiamo proseguire. Con meno tassisti in giro, la polizia stradale, che guadagna con le multe e le mazzette, sta inasprendo le pene. Diritto Umano però è sicuro che la crisi finirà presto; il clima secco ucciderà il virus, il quale si propaga, lui crede, con l’umidità.
Alcuni sono meno ottimisti. Abdul Johnson è un poliziotto, mio vicino di casa e persona in cui ripongo molta fiducia. Pochi mesi fa, giravano voci su “Ebola” che rendevano i confini tra cospirazione e realtà per me e tanti altri, molto labili. Abdul era scettico. Sosteneva che l’ebola fosse una manipolazione del Governo per spillare gli aiuti stranieri, o si trattasse di un complotto di terroristi per trasferire risorse nazionali. Ora però, come tanti altri, Adbul critica il Governo per non aver agito più rapidamente quando è scoppiata l’epidemia nella vicina Guinea, permettendo al virus di propagarsi e diffondersi. I sospetti sul Governo non sono rari o necessariamente infondati. Sono il frutto dell’esperienza della gente che ha toccato con mano corruzione e discriminazione.
In più, la gente qui facilmente va in corto circuito perché, da un lato, vive la propria esperienza personale e, dall’altro, gli fa eco quello che riportano i media internazionali che li mettono al centro della crisi mondiale. Le persone che avvicino mi assicurano che non conoscono nessuno ammalato di ebola; i focolai d’infezione sono nelle aree orientali della nazione, a molte ore di strada da Freetown. Mi dicono che la Sierra Leone ha sempre avuto problemi e sofferto per questo, ma raramente è balzato agli onori delle cronache estere e ha ricevuto la mole di soccorsi destinati alla situazione attuale.
Abdul paragona questo corto circuito a quello che gli abitanti di Freetown hanno sperimentato durante la guerra civile del 1991-2002. Per molti anni, la guerra, che iniziò quando i ribelli attraversarono il confine liberiano, nemmeno “sfiorò” Freetown. La maggior parte delle battaglie si svolgevano nelle province – le stesse zone infettate di oggi.
A migliaia si trasferivano nella capitale, ma per lunghi periodi fu difficile viaggiare perché, come succede adesso, le strade pullulavano di poliziotti o erano bloccate. Ma la vita a Freetown scorreva come sempre, sebbene continuasse con un senso sempre maggiore di incertezza rispetto alla normalità, fino a quando la città fu invasa nel gennaio del 1999 con conseguenze disastrose.
Un simile senso di incertezza per il futuro si respira nella Freetown di adesso. Non si tratta solo dell’interruzione o la limitazione di scuola e lavoro, ma di tutti gli eventi più importanti della vita. Abdul aspetta la fine delle restrizioni sui raduni – e anche una maggiore disponibilità economica – per permettersi di festeggiare con una degna cerimonia il figlio appena nato. La maggior parte della gente che conosco sta aspettando il ritorno alla normalità e trasparenza, non tanto un disastro.
Una di queste è Hawa Bangura, proprietaria di un piccolo negozio di alimentari appena fuori casa di sua madre, nel mio quartiere a Congo Town. Lo gestisce insieme al suo fidanzato, Arthur, che lavora come receptionist in un bed&breakfast e ristorante frequentato da emigrati. Hawa è a metà degli studi universitari, un corso di quattro anni in Servizi finanziari, ma non sa se il semestre inizierà normalmente il mese prossimo.
Arthur nel frattempo è stato messo “a disposizione” fino a nuovo ordine; molti dei potenziali clienti hanno lasciato il Paese e molte linee aeree non volano più verso la Sierra Leone. Tutto ciò ha messo molto in ansia i due ragazzi che, come il resto della famiglia, possono contare solamente sul negozio. Allo stesso tempo i prezzi degli articoli all’ingrosso sono aumentati. Molti beni venduti in Sierra Leone vengono importati dalla Guinea, ma con la frontiera attualmente chiusa, sono contrabbandati a prezzi salati, o ci si rifornisce altrove. Alcuni prodotti tipici della Sierra Leone, come il carbone e l’olio di palma, sono introvabili, ora che è stato vietato il luma, il mercato settimanale.
La situazione sta evolvendo ogni giorno, ma la stragrande maggioranza dei residenti di Freetown deve ancora avere a che fare con un solo caso di ebola. Eppure tutto sembra contaminato. Come argomento principe nelle conversazioni, “Ebola” può agire contemporaneamente come tramite per umorismo e assurdità, come quando due persone stanno per stringersi la mano e all’ultimo si schivano per non toccarsi; una fonte di rabbia e tristezza; e un mezzo per critiche e sospetti. Sapere cosa credere e di chi fidarsi non è facile, e molti non si considerano a rischio di contrarre il virus. Ma dalle ricadute economiche della crisi non si scappa.