[ Antonella Sinopoli, coordinatrice editoriale di Voci Globali, risiede attualmente in Ghana, nella Regione del Volta, per una permanenza di alcuni mesi. Oltre che partecipare da lì alla vita della nostra redazione, contribuisce alla pagina con articoli e aggiornamenti sulla realtà del Paese in cui vive e sul continente africano.]
È facile ricordare il male, parlarne e scriverne affinché la memoria non si perda. Soprattutto quando si tratta di ricordare un genocidio, come quello rwandese, perpetrato con una ferocia bestiale, in un tempo brevissimo e sotto gli occhi (e le telecamere) del mondo intero. Ma anche quel genocidio così terribile ha avuto i suoi eroi, persone che sono riuscite a conservare lucidità e umanità mentre intorno il virus della violenza infettava con incredibile velocità.
“Kinyarwanda” è un film che non ha fatto cassetta, come il più noto “Hotel Rwanda” (quell’hotel des Mille Collines, dove solo i Tutsi con denaro a disposizione erano accolti). È un film che non si sofferma sugli errori, le sconfitte, i rimorsi della comunità internazionale e dei suoi rappresentanti come “Shake hands with the devil”.
Kinyarwanda è un film insolito, che parla di perdono, che parla di riconciliazione. E che parla di storie non dette. Uscito qualche anno fa rimane l’unica testimonianza del genocidio raccontato, prodotto, recitato da rwandesi, con apporti e professionalità internazionali. Basato sullo script di Ishmael Ntihabose, che nel 1994 aveva 14 anni, porta alla luce anche una storia che in pochi conoscono: l’impegno della comunità musulmana locale a salvare i Tutsi braccati dall’Interahamwe, la milizia armata di machete e bastoni chiodati pronti al massacro.
Al centro della vicenda del film c’è la relazione tra un prete tutsi cattolico tradito da un prete cattolico hutu e un imam che darà rifugio a lui e ad altri fedeli nella sua moschea. “Non confondo la parola di Dio con le azioni degli uomini – dice l’Imam – spesso sono molto differenti”. Furono almeno due le moschee attaccate dalla milizia perché vi avevano trovato rifugio tusti e hutu moderati cattolici e tutsi e hutu moderati musulmani: la principale moschea, Nyamirambo e quella a Cyangugu. E moltissimi furono coloro accolti a Khadafi, la moschea del Centro Culturale islamico a Kigali.
Dopo il genocidio vennero fuori storie di preti e suore che avevano “guidato” le milizie nelle chiese dove provavano a nascondersi in centinaia, storie di violenze senza fine, di follia assoluta. Vicende con cui i fedeli dovettero poi fare i conti negli anni successivi. Ma in quel mare magnum infernale ci fu anche la lettera del Mufti Cheikh Tembo, allora rappresentante dei musulmani rwandesi. Dopo un meeting con gli imam del Paese, Tembo scrisse quella che in realtà era una vera e propria fatwa, in cui vietava i musulmani di partecipare al massacro e li supplicava di aiutare i loro vicini. “I musulmani sono lo specchio di tutte le cose buone, come dice Dio. Quindi, fratelli e sorelle, chiedo a tutti voi di essere specchi e buoni esempi così come Dio vuole che sia”. Anche perché: “chi deve farlo se non noi?”.
“Kinyarwanda” (che è la lingua locale parlata da tutti, unico elemento di unione in divisione forzate) focalizza quei 100 giorni di inferno attraverso gli occhi e le vicende di alcuni personaggi chiave. Nessun attore bianco e i personaggi sono così veri che lo spettatore non può non provare affetto ed empatia. L’imam e il prete, ma anche una tenera, giovane coppia di hutu e tutsi innamorati come ce n’erano tante, i soldati di unità speciali inviati da Paesi confinanti, un bambino che rivela in modo ingenuo l’assurdità di quello che gli sta accadendo intorno, e poi i volti degli assassini… Sono quelli che parteciparono al genocidio, spesso giovanissimi, “costretti” a denunciare il proprio crimine in un atto che era insieme di redenzione, condanna, giudizio, perdono.
Il film infatti mostra anche come si svolgevano i cosiddetti Gacaca, i processi popolari del programma di Riconciliazione nazionale aperto nel 2004 e concluso ufficialmente il 4 maggio 2012. Nessuna pena prevista per il colpevole, tranne lavori da svolgere a beneficio della comunità. Quello che rimaneva essenziale in questi processi – dove i giudici erano membri della comunità – era l’ammissione di colpa, la denuncia di quello che si era fatto, spesso ai propri vicini, il pentimento e l’accettazione del pentimento da parte delle vittime. I volti in primo piano, le parole crude, spoglie, gli sguardi che attraversano lo schermo, sono le parti più vere e toccanti del film. E aiutano a interrogarsi su come debba essere convivere con il dolore, convivere con il rimorso.
In questi giorni si è parlato di una possibile “vendetta” e di un ritorno dei genocidari, si è parlato del processo e della condanna di una delle menti del massacro in quella Francia che aveva inviato migliaia di machete per aiutare “a svolgere il lavoro”. Violenza e ipocrisia, proprio come in quei maledetti giorni tra il 6 aprile e il luglio 1994.
Noi, a vent’anni dal genocidio, preferiamo ricordare e diffondere storie di umanità.
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