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Ruanda, aperto a Parigi primo processo per genocidio

“Un processo storico”, così fonti di stampa africane definiscono la vicenda giudiziaria che vede un ex ufficiale dei servizi segreti del Ruanda rispondere di fronte a un tribunale francese dell’accusa di aver istigato e contribuito al genocidio del 1994, la cui commemorazione avverrà il 7 aprile prossimo.
Sulla questione, una traduzione a cura di Benedetta Monti dall’articolo originale di Andrew Wallis pubblicato su OpenDemocracy il 20 febbraio 2014. L’immagine di copertina è presa dal blog del disegnatore israeliano Michel Kichka.


'Pascal Simbikangwa', di Michel Kichka. "800.000 in 4 mesi con il machete...ho fatto del mio meglio con i mezzi a disposizione!"

La grande folla di reporter accorsi al Palais de Justice di Parigi il primo giorno del processo a un indagato per genocidio in Ruanda, costretto su una sedia a rotelle da anni, è risultata inattesa e dirompente, per quanto è riuscita a focalizzare l’attenzione dei media francesi: il prigioniero al banco degli imputati circondato da pannelli di vetro, il cinquantaquattrenne capitano Pascal Simbikangwa – ex direttore dei servizi segreti ruandesi – è riuscito ad apparire sulle prime pagine dei quotidiani più in vista delle difficoltà del governo di Francois Hollande, dei suoi travagli personali e anche delle Olimpiadi invernali di Sochi.

Si è compresa in seguito la portata dell’evento: vent’anni dopo il genocidio avvenuto in Ruanda che causò un milione di morti, alla fine il sistema legale francese stava riuscendo a mettere davanti a un giudice un sospettato accusato di complicità negli omicidi. La Francia non processava un sospettato di crimini contro l’umanità dal 1987 con Klaus Barbie (il nazista “macellaio di Lione”) o dal 1994 con l’altro nazista Paul Touvier, che apparvero sul banco degli imputati. E’ dunque molto importante il significato di questo procedimento, che dovrebbe durare sei settimane, e che sarà filmato per i posteri (si tratta soltanto della quinta volta che un procedimento penale viene filmato).

Specialmente per l’insegnante in pensione, occhialuto e con i capelli bianchi, di nome Alan Gauthier, il giorno di inizio del processo è un giorno trionfale – come si è notato dalla folla di cameramen e giornalisti che lo attorniavano. La moglie di Gauthier, Daphrose, di etnia Tutsi, ha perso molti familiari durante il genocidio, e Gauthier da allora ha trascorso tutta la sua vita a rintracciare i presunti genocidaires [coloro che hanno eseguito i massacri, NdT] che sono scappati in Francia. Gauthier ha intentato cause contro le persone che ha identificato, e per il suo lavoro è stato paragonato al cacciatore di nazisti Simon Wiesenthal. Insieme ad altri gruppi civili ha aiutato a promuovere un’azione legale contro Simbikangwa. Con voce tremante dall’emozione, Gauthier ha raccontato ai media che questo processo deve soprattutto portare quella giustizia da tempo sospirata per i sopravvissuti e le vittime.

Il processo a Pascal Simbikangwa solleva molte questioni al di là dell’innocenza o della colpevolezza di un uomo (che si trova in custodia della polizia dal 2008, quando venne arrestato nell’isola caraibica francese Mayotte dove – assumendo un’altra identità – era coinvolto in un’attività che riguardava la vendita di passaporti falsi). Questa situazione va al cuore dell’approccio politico e giuridico francese nei confronti del genocidio, da cui le istituzioni del Paese cercano di dissociarsi da tempo. Sotto la presidenza di Francois Mitterand (1981-1995), lo Stato francese era uno dei maggiori sostenitori – dal punto di vista finanziario, militare e politico – del regime del dittatore ruandese Juvénal Habyariamana nel periodo antecedente il genocidio. Quel sostegno si è protratto nonostante i resoconti sui massacri e sui terribili abusi dei diritti umani dall’interno del Paese.

Anche mentre, nell’estate del 1994, avveniva il genocidio dei Tutsi, Mitterand accoglieva ufficialmente due membri del regime all’Eliseo, continuando a fornire armi a quelle stesse forze ruandesi che da tempo addestrava e finanziava. Durante gli ultimi giorni del genocidio, gli estremisti di etnia Hutu, accusati di aver organizzato e perpetrato i massacri, scapparono nel sud del Paese sotto il controllo di un intervento “umanitario” francese chiamato Opèration Turquoise. I genocidaires, dopo la sconfitta del Fronte Patriottico Ruandese (RPF) di Paul Kagame, avevano fretta di scappare, mentre le forze francesi si rifiutavano di arrestare o disarmare questi individui, e a molti, in seguito, venne concessa la residenza francese.

L’eredità che arriva da quegli anni è difficile. Il rapporto tra la Francia e il governo di Kagame, nei due decenni trascorsi dal 1994, è stato un mix tra una radicata ambiguità e una malcelata antipatia reciproca. Nel 2006 è avvenuta una rottura sulla pubblicazione del rapporto del giudice Bruguieré, con le sue accuse ampiamente contestate per l’incidente aereo in cui rimase ucciso Habyarimana, evento che ha innescato il genocidio. Nel 2008, il Ruanda ha pubblicato il suo rapporto della commissione Mucyo, riferendo in dettagli la presunta complicità del governo Mitterand nel genocidio. (vd “Rwanda: a step towards truth del 21 gennaio 2012).

Cause contro i sospettati di genocidio sono state intentate sin dal 1995, ma dopo diciannove anni devono ancora arrivare in tribunale. In ripetute occasioni è stato concesso agli indagati di rimanere liberi con residenza e cittadinanza francese. Ripetutamente i diplomatici francesi hanno negato che le considerazioni politiche stessero bloccando sia i processi in Francia (sotto la giurisdizione universale) sia l’estradizione dei sospettati in Ruanda. Lo Stato francese ha dimostrato una spiccata riluttanza a indagare o a prendere sul serio i crimini, così le pressioni per la giustizia sono state lasciate nelle mani di Alain Gauthier e di altri gruppi civili.

I tribunali francesi hanno fornito diverse ragioni per spiegare il motivo per cui dottori, esponenti del mondo accademico, preti e militari accusati di genocidio, sterminio, omicidi e stupri non poterono affrontare la giustizia comparendo in tribunale. Alcune sentenze delle Corti sono contro l’estradizione in Ruanda, sulla base che gli imputati non riceverebbero un giusto processo, oppure perché la legge ruandese sul genocidio è stata approvata nel 1996, e la mancanza di tale legge prima di allora significa che i sospettati non dovrebbero affrontare un processo in Ruanda per un crimine considerato inesistente all’epoca.

È vero che nel giugno del 1999 la Corte di Appello di Parigi decise che i presunti colpevoli di genocidio potevano essere processati in Francia. Tuttavia, nel 2004, la Corte Europea per i Diritti Umani – in risposta alle denunce dei superstiti – ha dovuto condannare la lentezza del sistema giudiziario francese nei confronti del prete cattolico Wenceslas Munyeshyaka. Oggi, diciannove anni dopo l’apertura dell’indagine giudiziaria contro di lui, Wenceslas Munyeshyaka è un uomo libero e opera in una parrocchia cattolica nella graziosa cittadina di Gisours in Normandia. Le “indagini” vanno avanti.

Un altro caso rilevante è quello di Agathe Habyarimana, sospettata di genocidio e vedova dell’ex presidente del Ruanda. Nel 2007, la sua richiesta di status di rifugiata è stata rifiutata con una serie di sentenze della Commissione per l’asilo politico francese (OFPRA) e dall’appello alla Corte Suprema. Nel verdetto, la Corte Suprema ha dichiarato che la donna si trovava “al centro del regime responsabile per l’organizzazione e per l’esecuzione del genocidio avvenuto in Ruanda durante il 1994.” Da allora, madame Habyarimana continua a vivere in un ricco sobborgo francese indisturbata dal procedimento giudiziario nei suoi confronti: tale situazione è stata giudicata da Gauthier “scandalosa”.

Due fattori hanno contribuito a un moderato sblocco della situazione. Il primo è rappresentato da una tenue distensione delle relazioni politiche, che sembra aver, limitatamente, sollevato la situazione dal punto morto giudiziario in cui si trovava. Poi, l’allora presidente Nicolas Sarkozy, nel febbraio 2010, ha visitato il Ruanda, la prima visita in due decenni di un capo di Stato francese, e poco dopo Agathe Habyariama è stata arrestata a Parigi, anche se poi è stata rilasciata quasi subito. Lo stesso anno, l’amministrazione Sarkozy ha annunciato – sedici anni dopo che i primi sospettati erano giunti in Francia – che sarebbe stata costituita una commissione d’indagine speciale per trattare i crimini contro l’umanità e il genocidio. Il ministro degli Esteri Bernard Kouchner ha dichiarato che la Francia “non sarebbe stata un rifugio per coloro che erano accusati di tali crimini”.

Il secondo fattore che ha contribuito al processo nel Palace de Justice è stata una sentenza della Corte Europea per i Diritti Umani secondo cui i sospettati avrebbero ricevuto un giusto processo in Ruanda, seguendo i cambiamenti applicati al sistema giudiziario ruandese. Di conseguenza gli Stati Uniti, il Canada e i Paesi nordici hanno rispedito i sospettati in Ruanda, mentre il Belgio, la Finlandia, la Norvegia, la Svizzera e l’Olanda li hanno processati. La Germania ha condannato i primi sospettati di genocidio dopo un processo che si è tenuto a Francoforte. Queste azioni hanno aumentato la pressione politica sulla Francia: aver raggiunto il ventesimo anniversario del genocidio senza aver messo nemmeno un sospettato sul banco degli imputati, avrebbe comportato il rischio di una condanna e di accuse nei confronti della Francia di proteggere gli imputati e di inosservanza degli obblighi secondo la Convenzione sui genocidi del 1948.

Così, gli sforzi lenti ma percepibili del governo francese di trattare la questione politica di questi procedimenti penali hanno iniziato a fare qualche progresso. Tuttavia, esiste ancora una certa resistenza tra la “vecchia guardia” militare e politica francese – perfino nell’accettare che sia avvenuto veramente un genocidio, figuriamoci il fatto che la Francia abbia domande a cui rispondere o obblighi legali.

Il Colonnello Michel Robardey, consigliere della gendarmeria ruandese dal 1990 al 1993, è uno dei pochi testimoni chiamati in difesa di Simbikangwa. Nella sua testimonianza, il colonnello respinge l’idea che siano avvenuti “massacri” prima del genocidio e considera ciò “disinformazione”, in posizione opposta a rapporti dettagliati delle Nazioni Unite e di alcuni gruppi internazionali per i diritti umani che li dimostrano. Il colonnello ha descritto il genocidio come una reazione “spontanea” da parte della popolazione Hutu alla morte del proprio presidente. Secondo il colonnello, non c’è stata nessuna organizzazione o pianificazione, e ha nuovamente menzionato l’accusa di “doppio genocidio”, secondo cui ognuna delle parti è responsabile di aver massacrato l’altra.

Questa affermazione è stata utilizzata da molti personaggi politici e militari francesi – incluso l’ex Primo Ministro Dominique de Villepin e lo stesso Mitterand – ed è diventata uno strumento essenziale nel “riclassificare” e minimizzare il sostegno francese al governo di Habyarimana e ai governi ad interim. Alcuni nazionalisti serbi hanno preso in prestito questa affermazione per “spiegare” Srebrenica, nonché alcuni nazisti per l’Olocausto. Nel momento in cui Robardey ha lasciato il banco dei testimoni, la Corte sapeva meno sull’innocenza o la colpevolezza di Simbikagwa che sulla mentalità di alcuni ufficiali militari francesi che hanno servito nell’esercito ruandese nei primi anni del ’90, quando combatteva contro il RPF (Fronte Patriottico Ruandese).

Tali atteggiamenti non rassicurano il governo ruandese né il pubblico che – svanito l’interesse dei media sulla commemorazione del genocidio – la Francia andrà avanti con i processi e la giustizia. I superstiti hanno timore che questo procedimento legale potrebbe essere solamente un espediente di pubbliche relazioni. Il titolo di un giornale ruandese – “Kigali rimane indifferente al processo a Simbikangwa dato che molti sospettati vagano liberamente in Francia” – rispecchia lo scetticismo diffuso nel Paese in cui sono avvenuti i crimini.

La commemorazione in Ruanda avverrà il 7 aprile prossimo. Non è ancora chiaro se, oltre all’ambasciatore francese a Kigali, ci saranno altri dignitari in rappresentanza della Francia. L’allora ministro degli Esteri, Alain Juppè, si è assicurato di evitare Paul Kagame quando il presidente ruandese ha visitato Parigi nel settembre del 2011, come altri dirigenti del governo, per esempio il presidente del Senato e il portavoce dell’Assemblea Nazionale. La sfiducia e l’avversione reciproca sono ancora molto evidenti.

Questi rapporti sono risultati ulteriormente tesi nei mesi recenti a causa di un evento che i Ruandesi considerano una “provocazione” da parte della Francia verso la commemorazione del genocidio: il 20 dicembre 2013, il canale televisivo Canal+ ha trasmesso un programma di intrattenimento che proponeva scenette interpretate ridicolizzando il genocidio e le sue vittime (in una scena gli attori cantavano in forma di parodia una famosa filastrocca francese, con le parole “mamma è di sopra, fatta a pezzi, papà è al piano di sotto senza un braccio”, con l’evidente divertimento del pubblico). L’indignazione da parte dei gruppi di sopravvissuti in Francia e una petizione online hanno portato i direttori della televisione a fare un richiamo al canale.

In seguito, nell’elenco delle persone onorevoli del 2014 è entrato il giornalista e scrittore Pierre Pèan, che ha ricevuto la Legione d’Onore, l’onoreficenza più alta attribuita dalla Repubblica Francese. Tra le sue opere, il libro Noires Fureurs, Blancs Menteurs: Rwanda 1990-1994 (2006) in cui incolpa il Fronte Patriottico Ruandese e i Tutsi di aver raggirato la comunità internazionale quando, secondo Péan, erano loro ad essere responsabili dei “massacri” (che nega siano stati pari ad un genocidio). Molti gruppi per i diritti umani e molte vittime hanno visto questo premio dato a un intellettuale orientato alla negazione del genocidio come un ultimo tentativo premeditato da parte di alcuni dirigenti francesi di non riconoscere l’imminente commemorazione.

Tornado al Palais de Justice, i difensori di Pascal Simbikangwa stanno cercando di superare le difficoltà. La loro dubbia strategia ha incluso un’accusa verso un ricercatore per i diritti umani, che ha pubblicato un rapporto dettagliato sui massacri del 1991-92, di essersi recato in Ruanda soltanto perché gli piacevano le donne Tutsi. La reazione inorridita del giudice, della giuria e del pubblico avrebbe dovuto indicare che questa non era una tattica affidabile. La difesa è rimasta delusa anche quando uno dei testimoni chiave, lo studioso belga Filip Reytenjes, ha verificato l’esistenza degli squadroni della morte e degli akazu, o gruppi politici mafiosi, attorno alle persone appartenenti al regime.

Lo stesso Simbikangwa, sebbene abbia dato prova di essere un imputato carismatico, è rimasto sbigottito davanti alle 7.000 pagine di documenti impilati dietro ai tre giudici e ai sei membri della giuria popolare. Il verdetto si baserà sulla possibilità da parte dei pubblici ministeri di provare che Simbikangwa ha assistito nell’organizzazione e nella fornitura di armi alle milizie che hanno effettuato omicidi di massa in due blocchi stradali. La squadra della sua difesa ha già cercato di bloccare il processo affermando che il loro cliente non potrà avere un giusto processo. La pressione politica, affermano, starebbe producendo una corsa frettolosa per portare a termine almeno un caso prima del ventesimo anniversario.

Mentre questo processo sta facendo scrivere titoloni dalla stampa francese, è stata data meno attenzione agli sviluppi di un processo collegato al Tribunale Penale Internazionale Ruandese (ICTR) di Arusha, Tanzania. Tre militari ruandesi, tra cui un generale, erano stati accusati di genocidio, ma durante l’appello all’ICTR, l’11 febbraio scorso, le accuse di due dei tre imputati sono state invalidate, mentre il terzo ha ottenuto una riduzione di pena da venti a quindici anni. Il giudice che presiedeva era l’ottantatreenne Theodor Meron. Questa rappresenta l’ultima di una serie di decisioni da parte di un giudice americano che hanno rovesciato condanne simili sia a Arusha che al Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY) dell’Aja in Olanda. La sentenza ha fatto poca notizia al di fuori del Ruanda, dove la “giustizia internazionale” è diventata sinonimo di impunità.

L’esplosione dei conflitti violenti in Siria, Libia, Mali, Sudan del Sud, Repubblica Centrafricana e le accuse di crimini di guerra, pulizia etnica o genocidio che li circonda, evidenziano l’importanza della ricerca di giustizia per i fatti avvenuti in Ruanda. Questi conflitti significano anche che l’occidente per molto tempo dovrà affrontare il problema di processare i presunti colpevoli quando questi sono fuggiti in Europa o negli Stati Uniti.

Questi conflitti implicano anche, come Alain Gauthier e altre persone affermano, che il processo di Pascal Simbikangwa dovrebbe essere la regola e non l’eccezione. Se la giustizia occidentale ha bisogno di vent’anni, per considerazioni politiche più che etiche o legali, questo non può che incoraggiare l’impunità di chi commette omicidi di massa, anche a lasciare la propria terra. Le complesse questioni relative alla giustizia internazionale si complicano ulteriormente – come nel caso del Ruanda – quando l’occidente si trova immischiato nella situazione; ogni successivo procedimento penale potrebbe portare ad esporre il ruolo di uno Stato occidentale oltre alla colpevolezza o innocenza di un imputato. Per molti sopravvissuti, Simbikangwa non è il solo ad essere alla sbarra.

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