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Sodoma e Gomorra, la discarica nera dell’Occidente

 

Sono stata a Sodoma e Gomorra. Per vedere come si vive tra macerie di prodotti tecnologici ed elettrodomestici da riconvertire in pochi spiccioli. Per vedere come avidità, profitto, consumo sfrenato, generano caos e miseria. Per respirare quell’aria putrida, pestifera, mortale. Aria di cui Sodoma e Gomorra vive. Qui si cucina, si mangia, si vende, Ci si vende. Circola droga, si fanno affari. Affari miseri, di quelli che ti consentono di arrivare al giorno dopo. Nello stesso inferno, con la stessa febbrile e malata frenesia.

Se chiedi in giro di indicarti dove si trova Agbogbloshie pochi sanno risponderti, ma se chiedi dov’è Sodoma e Gomorra allora sì che lo sanno tutti. Lo chiamano così questo luogo, perché qui i racconti e le favole bibliche sono realtà. Agbogbloshie si è ingrandita al ritmo del progresso dell’elettronica e dell’hi-tech, la proporzione è semplice: più cellulari, frigoriferi, computer di nuova generazione si acquistano nei Paesi occidentali più ne arrivano quaggiù di quelli dismessi.

Agbogbloshie negli anni è raddoppiata, triplicata, quadruplicata nelle dimensioni e anche la sua notorietà è cresciuta; tanto da scalare le classifiche di quegli studi e ricerche che ogni tanto ci ricordano che tipo di mondo abbiamo creato. L’ultima è quella di Green Cross e Blacksmith Institute che ha presentato l’elenco dei “dieci luoghi maledetti”. I luoghi più inquinati della terra.

Il primo di questi è Agbogbloshie, ovvero: Sodoma e Gomorra. La più grande discarica di materiale elettronico esistente al mondo. Materiale scaricato illegalmente.

Ci si arriva attraversando la solita Accra affollata e indaffarata, ma non c’è un “ingresso” che separa la vita degli altri e quella di chi “lavora” qui. L’inferno è aperto a tutti, giusto a pochi passi da chi espone cassava, chi cucina banku sul fornello e chi va a scuola. Un inferno a porte aperte, ma dove i bianchi non sono benvenuti. E quando tiri fuori la macchina fotografica diventi bersaglio di minacce esplicite e sguardi e gesti cattivi. Qui molti pensano che tutti i loro mali abbiano radice nel passato coloniale e che gli occidentali siano degli sfruttatori. Ma cosa pensano dell’oggi? Di questo nuovo sfruttamento, di questa nuova schiavitù.

Stanno qui, piegati tutto il giorno, smontando pezzi che trasudano materiale chimico e minerali dannosi. Come quel coltan tanto fondamentale alla nostra società. Ci si costruiscono i telefonini e gli smartphone. Fontamentale, sì. Gli schiavi di Sodoma e Gomorra lavorano a mani nude e coi piedi nei liquami. Anche i bambini. Impossibile dire quante persone vivono e transitano qui ogni giorno. 40.000, 50.000, probabilmente di più. La maggior parte proviene dal nord del Ghana dove le opportunità lavorative sono ancora più scarse che nel resto del Paese. E la povertà è a livelli estremi.

La merce arriva da ogni angolo del mondo: Gran Bretagna, Germania, Giappone, Olanda, Stati Uniti… Spedita come materiale di seconda mano o anche donazioni. Il modo più facile ed economico per liberarsene. Grandi compagnie, società, multinazionali e anche ONG hanno contribuito, a partire dagli anni Novanta e con le famose campagne per ridurre il digital divide a “sviluppare” questo posto, ad alimentarne il degrado e la miseria.

Inutili successive campagne di sensibilizzazione sul degrado ambientale, parole al vento quelle del Governo ghanese di riconvertire l’area in un progetto ecologico, per il quale sono arrivati anche investimenti esteri (ma dove finirebbe tutta questa gente?). E inutili leggi specifiche che non hanno né risolto né ridotto il problema. Come la Basel Convention che vieta la spedizione di materiale pericoloso dai Developed Countries ai Developing Countries. Convenzione che alcuni Paesi, tra cui gli Stati Uniti, non hanno mai ratificato.

Anche a livello locale sono state recentemente prese alcune misure per arginare il problema dell’inquinamento legato allo smantellamento di materiale elettrico.

Dal gennaio 2013 in Ghana è in vigore una legge che vieta l’ingresso e il riuso nel Paese di frigoriferi di seconda mano che rilasciano nell’atmosfera sostanze tossiche. Eppure, poche settimane fa sono stati intercettati 57 container di frigo e freezer usati importati in Ghana dalla compagnia britannica di gestione dei rifiuti EnviroCom. I container erano stati spediti prima dell’entrata in vigore del bando – si è difesa la compagnia inglese – non è colpa nostra se sono stati fermati nei porti ghanesi con lungaggini burocratiche.

Comunque sia niente sembra fermare l’arrivo a Sodoma e Gomorra di telefonini, stampanti, laptop, frigo, freezer, televisori, frullatori, lavatrici…

Qui tutto viene considerato come possibile guadagno. Si bruciano le parti inutili, si martella per aprire gli oggetti e si recuperano tutto quello che può essere rivenduto, alluminio e rame soprattutto. Il valore si calcola in sacchi, il guadagno è di 10, 12 ghana cedi (circa 4-6 euro) al giorno. Per morire un po’ di più ogni giorno. Di inquinamento e di indifferenza. Perché di queste persone in realtà non importa niente a nessuno. Perché queste persone non esistono. Carne che brucia come i pezzi scollegati di quei gadget o oggetti di benessere che un giorno erano tra le nostre mani, sulle nostre scrivanie, nelle nostre belle case. E che oggi sono qui, cumuli di spreco da riconvertire in pochi spiccioli.

Tutto alla luce del sole. Il sole che riscalda il veleno di cui questa gente si nutre ogni giorno.

[Le foto sono dell’autrice del reportage]

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