[Nota: traduzione a cura di Benedetta Monti dall’articolo originale di Rhiannon Smith su openDemocracy]
Per descrivere la situazione libica occorre segnalare che dall’inizio dell’estate il governo è stato impegnato in un braccio di ferro con i manifestanti che hanno bloccato i terminal per il petrolio nell’Est del Paese chiedendo salari migliori, opportunità di lavoro e in generale una maggiore autonomia regionale. Recentemente le proteste si sono estese anche ad Ovest e la produzione di petrolio libico è scesa a 200.000 barili al giorno da una capacità potenziale di 1,6 milioni di barili. Tutto ciò ha causato preoccupazioni sullo stato dell’economia del Paese che dipende soprattutto dagli idrocarburi. Sebbene il governo sia stato capace di trovare una soluzione agli scioperi nell’area occidentale del Paese attraverso negoziazioni, la situazione ad Est non è migliorata. L’ultimo incidente causato dal prolungarsi di questa situazione ha coinvolto il leader delle manifestazioni, Ibrahim Jathran, che ha accusato un membro del Congresso generale nazionale (GNC) di tentata corruzione – con 2,5 milioni di dollari in assegni – per porre fine al blocco. Il membro del Congresso in questione è attualmente sotto indagine da parte della magistratura.
Un’altra lotta di potere in corso è quella tra il gruppo armato Zintani, che attualmente trattiene Saif al-Islam Gheddafi, figlio di Muammar Gheddafi – e un tempo suo legittimo erede – e le autorità centrali che hanno avviato un procedimento legale contro di lui e altre persone appartenenti all’ex regime. Per ora Zintani si rifiuta di consegnare il figlio di Gheddafi a Tripoli affermando che il governo del Primo ministro Alì Zeidan è un governo debole, corrotto e pieno di lealisti, quindi ritenuto inaffidabile per celebrare il processo. A questa situazione si aggiunge tensione per il fatto che la Corte Penale Internazionale continua a richiedere che Saif si presenti alla Corte fino a quando non si sia presa una decisione sull’appello della Libia di processarlo nel Paese. Tuttavia, notizie più positive riguardano la decisione della Corte dell’11 ottobre scorso, secondo cui la Libia è “disposta e in grado” di processare l’ex capo dei servizi segreti di Gheddafi, Abdullah Senussi, per crimini contro l’umanità.
Inoltre, sembra che nel Paese siano aumentati i rapimenti, le violenze e gli omicidi, specialmente a Bengasi e nell’area circostante e moltissimi resoconti delle autorità insinuano la presenza di un crescente gruppo di islamisti. All’inizio dei processi a personaggi chiave del Paese, la magistratura è stata presa di mira. Nonostante il generale funzionamento dei tribunali, questioni di sicurezza stanno ostacolando la capacità del sistema giudiziario di assicurare la giusitizia attraverso processi liberi ed equi. Nelle ultime settimane alcuni giudici sono stati assassinati e membri della magistratura affermano di essere sempre più soggetti a minacce e intimidazioni da parte dei gruppi armati ma anche dalle famiglie delle vittime e degli accusati.
In questo contesto, le richieste di dimissioni del Primo ministro stanno acquisendo sempre più forza all’interno dei blocchi islamici del GNC che esigono un voto di sfiducia (sebbene fino ad ora non abbiano raggiunto i voti necessari), mentre il Primo ministro Zeidan afferma con fermezza di non sentirsi intimorito e di non avere intenzione di dimettersi. Zeidan sottolinea inoltre che quanto sta facendo per la Libia in questo difficile momento è il meglio che si possa fare. Le divisioni politiche tra la base del GNC e il governo sono diventate ancora più profonde e ampie con il crescere dell’incertezza sulla sicurezza, e la situazione del vicino Egitto ha causato un ulteriore divario e una sorta di onda d’urto che ha provocato una frattura ancora più evidente. Infatti la polarizzazione politica in Libia è stata drammaticamente evidenziata le settimane scorse quando i leader libici si sono trovati ad affrontare due serie minacce alla loro autorità, sovranità e legittimità.
Il 5 ottobre le forze speciali americane Delta hanno catturato un cittadino libico fuori dalla sua casa a Tripoli dove pare vivesse da due anni con la famiglia e lo hanno sbattuto fuori dal Paese affermando che si trattava di un “bersaglio legale e appropriato”. L’uomo in questione è considerato essere il presunto leader di Al Qaida Nazi Abdul Hamed al-Ruqai, conosciuto con il soprannome di Abu Anas al-Liby, ricercato per gli attacchi, nel 1998, alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania, che provocarono più di 220 vittime. Il governo libico ha chiesto una spiegazione per il sequestro dichiarando di non esserne stato informato in anticipo, sebbene esistano dei resoconti in cui si suggerisce che le autorità libiche abbiano collaborato con gli americani. Il raid sul suolo libico ha provocato diverse reazioni nell’opinione pubblica. C’è chi è stato soddisfatto per l’allontanamento di al-Liby, considerandolo come un duro colpo agli estremisti islamici che cercano di trovare un punto d’appoggio in Libia. Altri invece hanno reagito accusando gli americani di agire scavalcando l’autorità libica. Per molti, con il sequestro del presunto leader di Al-Qaida l’America ha mostrato il suo vero volto calpestando l’autorità libica e traendo vantaggio dalla situazione caotica per portare avanti i propri interessi. Sebbene ci sia qualche supporto in Libia ai movimenti di Al-Qaeda, al-Liby è un cittadino libico che è stato rapito da forze armate straniere invece di ricorrere a un regolare processo, ed è questo che ha provocato reazioni decise all’interno della nazione.
A seguito di questo accaduto, qualche giorno dopo, il 10 ottobre, il Primo ministro Ali Zeidan è stato prelevato dalla sua stanza di albergo nella capitale da uomini armati appartenenti all’Unità di Combattimento del Crimine e del Nucleo Operativo dei Rivoluzionari, che affermavano di avere un mandato di arresto contro il Primo ministro per corruzione e cattiva amministrazione di fondi pubblici (azione che in seguito si è rivelata illegale). Zeidan è stato rilasciato qualche ora dopo, ma quello che è accaduto ha causato ondate di incredulità e frustrazione all’interno della nazione e ha messo in luce la fragilità dello Stato e la mancanza di sicurezza. Molti credono che il rapimento di Zeidan sia collegato direttamente ai sospetti che il governo libico abbia aiutato gli americani nella cattura di al-Liby e che si sia trattato di una mossa degli oppositori di Zeidan per allontanarlo dal potere. Se si sia trattato di questo oppure no, Zeidan ha cercato sicuramente di trarre vantaggio dal suo rapimento. Ha affermato che il suo “arresto” non è stato un tentato rapimento ma un colpo di Stato e ha cercato di incolpare i suoi rivali islamisti del GNC, sebbene questi abbiano negato qualsiasi coinvolgimento.
Fino ad ora la reazione della popolazione libica è stata abbastanza pacata e ci sono state alcune manifestazioni sia di supporto che di rabbia nelle strade delle città. Tuttavia, è probabile che gli avvenimenti delle ultime settimane abbiano segnato un punto di svolta. Senza negare che la situazione attuale in Libia sia lontana dall’essere ideale, ciò non significa che si tratti di una causa persa. Ci sono molte questioni che sarebbero già difficili da affrontare in circostanze migliori, quella più urgente riguarda il potere e l’influenza crescente di un gran numero di gruppi armati. Comunque la situazione è stata resa più difficile di quanto sia in realtà dall’effetto corrosivo della polarizzazione politica e delle lotte interne che hanno indebolito lo Stato rendendolo incapace di prendere decisioni. L’estensione di queste fratture è ormai messa a nudo e se i leader libici continueranno a combattersi a vicenda invece di affrontare i veri problemi del Paese, queste divergenze potrebbero inghiottire l’intera nazione. Ma se i recenti avvenimenti verranno considerati come il calcio di inizio necessario per mettere da parte le rivalità e ricostruire il Paese sulla base di una politica che include il consenso, allora la Libia potrebbe ancora essere in grado di superare alcune divisioni e prevenire una spirale degradante verso il caos e la distruzione.