[Nota: traduzione a cura di Manuela Beccati dall’articolo originale di Trevor Evans su openDemocracy.
La zona euro è stata istituita in base a una politica monetaria comune, ma senza una comune politica fiscale, salariale o industriale. La proposta di Oskar Lafontaine di ritirarsi dall’euro per tornare alle valute nazionali è imperniata sul fatto che dall’introduzione della moneta europea si è assistito a uno sbilanciamento nello sviluppo dei salari.
Il nodo cruciale sono i costi salariali per unità di prodotto, da cui dipendono la crescita dei salari e la crescita della produttività del lavoro. La Banca centrale europea ha un obiettivo di inflazione del 2 per cento annuo. Per essere compatibile con questo limite, i costi salariali unitari dovrebbero salire di circa il 2 per cento l’anno. Tuttavia, tra l’introduzione dell’euro avvenuta nel 1999 e l’inizio della crisi finanziaria internazionale, alla fine del 2007, si aperta una marcata disparità nella crescita dei costi salariali unitari nei diversi Paesi della zona euro:
– in Francia i costi salariali unitari sono saliti all’incirca del 2 per cento annuo;
– in Germania, in seguito ad una politica salariale contenitiva, i costi unitari dei salari non hanno subito variazioni, e per certi versi sono leggermente diminuiti; questa politica di “dumping salariale” ha contribuito a far aumentare il surplus negli scambi commerciali, compensando così l’assenza di crescita della domanda interna del Paese;
– in Europa meridionale, i costi salariali unitari sono andati oltre il 2 per cento l’anno (ma a causa della maggiore inflazione i salari reali non sono aumentati allo stesso modo), accompagnati da un aumento del deficit commerciale, finanziato perlopiù da prestiti bancari di Germania e Francia. L’inversione di questi flussi di capitale dall’inizio della crisi della zona euro nel 2010 ha costretto questi Paesi alla mercé delle politiche di austerità imposte dall’Unione Europea.
Ma la moneta comune europea offre la possibilità di ottenere un maggiore controllo democratico sulla politica economica rispetto a un insieme di monete nazionali. Riduce la capacità degli investitori nei mercati finanziari privati di speculare contro le valute e imporre cambiamenti macroscopici in materia di politica economica, come accadde negli Stati Uniti nel 1979, in Francia nel 1982 e nel Sistema monetario europeo (Sme) nel 1992. Un ritorno alle monete nazionali con cambi fissi come nello Sme, sistema in vigore dal 1979 al 1999, non è ripetibile. Sarebbe necessario reintrodurre i controlli sui capitali tra i Paesi (come fa notare lo stesso Lafontaine). Ma rispetto al 1999 le economie della zona euro sono molto più integrate e senza una massiccia inversione in tal senso sarà molto difficile imporre controlli efficaci sui capitali.
L’alternativa è premere per un’integrazione della politica economica ancora più avanzata:
politica salariale coordinata – il cambiamento nella distribuzione del reddito, dai salari ai profitti, che si è verificato in quasi tutti i Paesi, andrebbe invertito; dovrebbe finire la politica tedesca del “dumping salariale”. L’aumento dei salari in Germania (e nel processo produttivo dei beni tedeschi nell’Europa dell’Est) rafforzerà la domanda per le esportazioni di altri Paesi europei.
– politica fiscale coordinata – i Paesi con elevati surplus commerciali della zona euro devono contribuire a trasferimenti finanziari verso gli Stati che presentano dei deficit. Il budget dell’1 per cento del Pil dell’area euro (che sarà leggermente tagliato nel periodo 2014-2020) è del tutto inadeguato e dovrebbe essere aumentato in modo da poter assicurare il pieno impiego a livello regionale, statale ed europeo.
politica industriale coordinata – è urgente incentivare posti di lavoro ben remunerati e qualificati, in particolare nella zona periferica dell’euro, in modo da invertire il processo di deindustrializzazione di cui soffre l’Europa meridionale da quando è stata introdotta la moneta unica. Più in generale, dobbiamo sforzarci di trovare il modo di stabilire un controllo democratico sui colossi corporativi che dominano l’attività economica europea e che eludono i controlli a livello nazionale costringendo i Paesi a mettersi uno contro l’altro.
Il rischio che la zona euro vada in frantumi esiste. Ma gli interessi delle grandi aziende e degli Stati capofila sono stretti a doppio nodo con l’euro e faranno tutto il possibile per evitarne la caduta. Proporre di lasciare l’euro non è dunque un operazione che possa avere successo. Ma soprattutto, non è auspicabile. Lanciando questa soluzione, si va verso l’altamente indesiderabile allineamento con le forze nazionaliste della destra politica che sono motivate da obiettivi del tutto diversi.
Le maggiori corporation industriali e finanziarie sono organizzate a livello internazionale. Però, a livello europeo c’è la possibilità di creare un maggior controllo democratico sulle loro attività: un passo indietro verso gli Stati nazionali sarebbe un passo nella direzione sbagliata.