[[Nota: Traduzione a cura di Emanuela Ciaramella dall’articolo originale di Kirsty Hughes, direttore esecutivo di Index on Censorship, pubblicato su openDemocracy]
Sono tante le sfide da affrontare dunque: da forme di censura che includono i firewall e l’imposizione di filtri – anche su ampia scala e non solo all’interno del singolo Paese, al crescente numero di richieste da parte di Governi, aziende e anche privati di entrare in possesso di dati personali; da un incremento nel controllo delle comunicazioni elettroniche alla criminalizzazione dell’uso della libertà di espressione sui social media.
La rapida crescita delle minacce alla nostra libertà digitale, sia in Stati democratici che in regimi autoritari, rappresenta un punto di svolta per stabilire se nei prossimi anni la Rete rimarrà uno spazio libero oppure no. Difendere la nostra libertà online significa agire immediatamente – a cominciare dal comprendere la natura di queste minacce e cosa c’è dietro.
Dai Governi segnali contrastanti
In democrazie come Stati Uniti, Regno Unito, Svezia, India e Brasile, Governi ed esponenti politici inviano spesso appelli forti per la difesa della libertà digitale, sottolineando che i diritti fondamentali alla libertà di espressione e la privacy devono applicarsi, appunto, anche online. Ma di fronte a tentazioni come la crescente facilità proprio attraverso la tecnologia – dai telefoni cellulari ad Internet, dalle ricerche web e alle chat sui social media – di poter monitorare in modo consistente la popolazione, molti Governi democratici stanno iniziando a prendere in considerazione questa tipologia di raccolta dei dati di comunicazione di massa. Cosa che in precedenza solo regimi autoritari avrebbero fatto.
Questo porta a strane contraddizioni all’interno delle posizioni politiche dei Governi. Nel Regno Unito, il Governo ha temporaneamente ritirato la sua proposta – definita “Carta degli spioni” – (la Legge sul trattamento dei dati nelle comunicazioni) a fronte delle drastiche critiche provenienti da un comitato di controllo parlamentare e dalla più ampia società civile. Tale normativa, nei termini in cui era stata proposta, avrebbe rappresentato (se approvata) la più ampia sorveglianza di massa sulle attività in Rete della popolazione. Un atto mai verificatosi prima nelle democrazie.
Ma al tempo stesso, il Regno Unito insieme agli Stati Uniti, la Germania e molti altri Paesi europei hanno resistito ai tentativi della Cina e della Russia, con un certo sostegno da parte di altri Paesi, dall’introdurre un controllo globale e dall’alto verso il basso, di Internet. Infatti, il Governo del Regno Unito, insieme a molte democrazie (sebbene non tutte), hanno sostenuto l’attuale modello “multi-stakeholder“, secondo il quale nessun organo, Paese o gruppo può controllare la Rete. La posizione del Governo indiano è stata oscillante su questo punto, prima di rifiutare le posizioni di Cina e Russia al vertice internazionale delle telecomunicazioni a Dubai lo scorso dicembre.
La Cina e l’Iran sono, com’è noto, tra i Paesi che più di altri operano per la realizzazione di firewall, blocchi per siti web, oltre a metodi di controllo e monitoraggio della popolazione nell’uso e nell’accesso ad Internet. Tuttavia, il numero di Paesi che limitano l’uso di Internet in qualche modo è cresciuto notevolmente negli ultimi anni. Alcuni dei limiti introdotti possono sembrare poco importanti, come ad esempio il blocco di Rete in tutto il Paese imposto dal Governo danese per i giochi online prodotti da altri Stati (ciò è avvenuto non per motivi di censura, ma per preservare il monopolio danese su questo redditizio business). Ma il principio è che, più Internet è filtrata a livello sia locale che internazionale, meno sarà libera.
Ci saranno sempre giustificazioni per cui un particolare filtro sarà necessario – per combattere la pornografia infantile, per proteggere i bambini e gli adulti giovani dalla pornografia legale, per combattere la criminalità e il terrorismo, per bloccare violazioni. Il filtraggio e il blocco dei siti implicano sempre, in ogni caso, il rischio di un blocco eccessivo della Rete, di mascherare piuttosto che di affrontare il problema, e di essere utilizzati per motivi che esulano da quelli dichiarati.
A meno che i Governi non continuino a difendere la libertà di parola, possono emergere segmenti di pubblica opinione che richiedono di limitare tale libertà, minando così la libertà di espressione come diritto fondamentale. Un esempio chiave di quanto la questione sia aperta è la crescente sensibilità di molte persone alle violazioni in tal senso. Eppure non esiste alcuna “offesa” personale che non possa essere ricondotta a un argomento o espressione di arte creativa. Nel Regno Unito e in India ci sono stati di recente arresti e procedimenti giudiziari per commenti o foto o altro materiale pubblicato sui social media e ritenuti offensivi (nel caso di questi due Paesi si è fatto riferimento a una legge comune del 1930 che condanna le “telefonate volgari” e, per analogia, altre forme di comunicazione). C’è quindi una crescente preoccupazione e un dibattito in corso sulla criminalizzazione dei commenti, perlopiù inoffensivi, che circolano sui social media. Nel Regno Unito, Keir Starmer, direttore dei procedimenti legali, ha pubblicato le linee guida provvisorie nel tentativo di frenare il crescente numero di procedimenti giudiziari in materia.
Società come ulteriore censura
Un altro aspetto allarmante delle crescenti minacce alla nostra libertà sul web è il ruolo svolto dalle aziende. Molte società di web hosting e fornitori di servizi Internet confermano il loro sostegno ai diritti fondamentali, compresa la libertà di espressione, pur insistendo sul fatto che anche loro devono rispettare le leggi dei Paesi in cui si trovano. Google e Twitter hanno aperto la strada a un sistema di trasparenza editoriale fatto di documentazioni che, per esempio, mostrano il numero di richieste di eliminazione e di informazioni dei dati degli utenti ricevuti da parte di vari Governi.
Ma le aziende possono diventare complici nella censura se eliminano i contenuti troppo facilmente a seguito delle richieste provenienti da Governi o altri soggetti pubblici, per mettersi al sicuro e evitare il rischio di procedimenti giudiziari o di cause per diffamazione. Aziende come Facebook o Twitter hanno anche impostato i loro termini di servizio per definire ciò che è e non è accettabile nell’utilizzo delle loro piattaforme e nel comportamento da tenere. Perfettamente normale forse – proprio come club che fissano le regole di comportamento dei loro membri.
Ma quando il club, nel caso di Facebook, è costituito da un miliardo di persone, e i suoi termini di servizio determinano quali tipi di immagini e di linguaggio siano accettabili o meno, definendo inoltre l’anonimato un divieto, questi sono dei vincoli alla libertà di espressione che solitamente solo i Governi hanno la prerogativa di definire. Governi che (nelle democrazie) possono essere giudicati dai loro cittadini e contestati dalla società civile, nei tribunali e attraverso le elezioni.
Il trattamento e l’uso commerciale della quantità crescente di dati personali derivanti dalle attività su Internet ha anche suscitato un ampio e fondamentale dibattito sulla privacy. Il concetto di privacy online è spesso strettamente connesso alla libertà di espressione online: se qualcuno sta controllando cosa facciamo o diciamo, o raccogliendo e sfruttando i nostri dati per farne un uso commerciale può, ad esempio, essere un grosso freno alla libertà di parola.
Se e in che misura dovrebbe esistere un “diritto ad essere dimenticati” è un altro aspetto di questo dibattito. Data la natura pervasiva del web, l’eliminazione dei dati individuali è sempre più difficile. Allo stesso tempo, però, le richieste di cancellazione dei dati individuali da notizie di varia natura è una sorta di censura della documentazione storica accumulata che non dovrebbe essere auspicabile.
La fine delle libertà digitali
Ci sono una serie ampia e crescente di minacce alle nostre libertà digitali. Ma ci sono anche tendenze positive. La rapida, intensa e riuscita reazione contro varie forme di imposizione di controllo del copyright (ACTA, PIPA, SOPA e altri) dimostra che la strada che si sta percorrendo non è a senso unico.
Anche in regimi come l’Iran e la Cina, molti cittadini hanno trovato il modo di eludere la censura per ampliare la loro capacità di comunicare e accedere alle informazioni. I Governi possono essere sfidati – almeno nelle democrazie – quando viene imboccata la strada della sorveglianza e della criminalizzazione dei commenti sui social media. Difendere la nostra libertà digitale significa diventare attivi, impegnandosi in tali questioni, portando avanti la causa: decisioni e leggi negative possono essere fermate, limitate o abrogate. Si tratta di un dibattito nazionale ed internazionale – e il dibattito è tuttora in corso.