[ Ripreso dal post originale di Matteo Miavaldi pubblicato su China-Files]
E’ passato alla storia come “l’amico dei Beatles”, ma in patria Ravi Shankar rappresentava l’apice della musica tradizionale indiana. Breve storia del Maestro prima di George Harrison: dalle tournée in Europa negli anni ’30 al rapporto col suo guru, passando per l’esperienza “odiata” di Woodstock.
Ravi Shankar, morto ieri a San Diego, California, all’età di 92 anni, era il simbolo dell’India nel mondo, il “padrino della world music”. Era nato nel 1920 in una famiglia bramina ortodossa al tempo del Raj, quando l’India era ancora il gioiello delle colonie britanniche.
Il suo vero cognome, Chowdhury, tradiva infatti origini castali bengalesi; il giovane Ravindra, raggiunti i vent’anni, decise di cambiare nome in Ravi Shankar, “per suonare più indiano”.
Il padre aveva lasciato la famiglia a Varanasi per lavorare come avvocato tra Calcutta e Londra, vedendo per la prima volta il figlio Ravindra all’età di 8 anni. Ravi Shankar, nella sua autobiografia, ha scritto che sommando tutti i momenti passati col padre in tutta la sua vita non si sarebbe fatto un mese.
Se la fama mondiale arrivò solo in seguito all’incontro con George Harrison, conosciuto ad un party a Londra nel ’66, Ravi Shankar in patria era già uno dei massimi interpreti di musica classica indiana.
Aveva imparato a suonare il sitar da Allauddin Khan, maestro polistrumentista e suonatore di sarod, seguendo i rigidissimi dettami del gurukul, il sistema d’apprendimento tra discepolo e guru tipico della tradizione vedica indiana che prevede l’asservimento completo dello studente alle volontà del maestro, compreso occuparsi delle faccende domestiche.
Ravi Shankar, che negli anni ’30 si esibiva in tutta Europa come ballerino nella compagnia di danza del fratello Uday, contrariamente alla norma iniziò lo studio del sitar – strumento a corde della famiglia dei liuti – decisamente tardi.
I bambini particolarmente portati, in India, iniziano a studiare musica dal proprio guru all’età di 5 o 6 anni; Ravi Shankar si trasferì a casa di Allauddin Khan – “il padre che non ho mai avuto” – quando aveva già compiuto 18 anni, rimanendoci fino al 1944.
La sua rivisitazione dei raga – le scale modali su cui si costruiscono le composizioni classiche indiane – finì per codificare una vera e propria scuola di interpretazione musicale particolarmente improntata alla ritmica, facendo di Ravi Shankar uno dei più grandi virtuosi del sitar nella storia della musica indiana.
Attratto dal movimento di massa giovanile degli anni ’60, lo shock culturale di Ravi Shankar davanti alle masse di Monterey e Woodstock fu traumatico.
Abituato all’ambiente concertistico indiano, dove il finale dell’interpretazione di un raga da 20 minuti viene accolto in religioso silenzio – magari rotto da qualche “sadhu, sadhu”, eccellente – l’euforia lisergica dei figli dei fiori americani, abituati a una fruizione della musica molto meno sacrale, lo impressionò profondamente.
In una celebre intervista alla Bbc, nel 2000, non si fece scrupoli e disse di aver “odiato” Woodstock.
Ma i megaconcerti rock catapultarono Ravi Shankar verso una notorietà planetaria, moltiplicando le collaborazioni internazionali con musicisti rock, jazz e fusion, senza però piegare la profonda indianità dell’artista.
In tutta la sua carriera non smise mai di suonare e comporre secondo le linee guida dei raga tradizionali, collaborando anche con registi del calibro di Satyajit Ray.
Delle decine di onorificenze raccolte in oltre 70 anni di attività, tra Grammy e lauree ad honorem, quello che più riempi d’orgoglio il Maestro fu il Bharat Ratna – “la gemma dell’India” – massimo riconoscimento civile dell’Unione indiana, conferitogli nel 1999.
Nel giorno della sua scomparsa, mentre il mondo ricordava “l’indiano amico dei Beatles”, l’India salutava “Pandit” Ravi Shankar – titolo riservato agli eruditi delle discipline tradizionali – come il più grande ambasciatore dell’India, e dell’indianità, nel mondo.