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Crowdsourcing per la fame e la povertà

Raccogliere informazioni attraverso i social media, il crowdsourcing e grazie al sistema degli open data per aiutare i Paesi in via di sviluppo.
Aiutarli a raggiungere i risultati del tanto sbandierato programma del Millennium goals, chiedendo alla gente che in questi Pasi vive ad esprimere i loro reali bisogni, necessità, richieste. L’idea sembra banale ed è presentata da Jamie Drummond – co-fondatore di ONE insieme a Bono – come “la chiave” per risolvere problemi ancora insoluti. Aprire alla società civile, ma a quella società civile che problemi come la fame, la povertà, le malattie li vive ogni giorno sulla propria pelle. Approfittare del social networking è un modo, secondo Drummond, di coinvolgere le persone dal basso, con lo scopo di animare la discussione su determinati topics e far arrivare, sempre dal basso, le soluzioni. Non solo G20, Onu, o grandi ONG e organizzazioni umanitarie, suggerisce Drummond, ma dati e idee raccolte sul territorio utilizzando mezzi ormai d’uso comune.
Davvero d’uso comune? E davvero si può usare il crowdsourcing per migliorare il mondo? E quanto impegno può scaturire da luoghi dove si lotta ogni giorno con problemi di sopravvivenza? E non si rischia di far parlare e avvantaggiare solo quell’élite che ha accesso alla Rete?

Dai molti commenti rilasciati all’intervento di Drummond (vedi video in basso) su Ted ne segnaliamo due che escono dal coro di entusiasti.

Questa è un’idea decisamente fuori luogo. La fame e la pace nel mondo, la giustizia universale non sono problemi che verranno eliminati o possono essere affrontati facendo dei sondaggi o sollecitando scambi di idee per poi riversarle in un data base e farle analizzare. […]
Lincoln, Ghandi, Martin Luther King jr, o altri giganti dello stesso calibro, hanno forse usato il crowdsourcing, nella loro lotta per il ​​cambiamento sociale? No, erano veri leader, con qualità e intelletto al di sopra e al di là delle norme. In realtà quello che si propone con questa idea sconsiderata non farebbe che deviare l’energia per trovare soluzioni reali. Il concetto proposto è dannoso e dimostra che stiamo sviluppando una fede troppo grande nel “miracolo” dei social media. Essi possono essere assai utili, ma sono anche in grado di diffondere false informazioni e distrarre l’attenzione dalle soluzioni reali. […]
Come possiamo raggiungere la pace mondiale e l’uguaglianza economica? Risposta: basta chiedere a tutti, poi scegliere quali sono le risposte cool, le più – diciamo così, interessanti -. Poi chiedere alle persone di votarle con un like, fino a che non si avranno 7 miliardi di seguaci sul nostro Twitter. Infine, possiamo raggruppare le risposte migliori e fare una scheda per ogni Paese che ha le risposte più cool. Davvero impressionante. – Carl Nilssen

Mi piace l’idea, ma cosa succederebbe se la gente interpellata rispondesse: “vogliamo ridurre questa fastidiosa e crudele foresta pluviale per costruire al suo posto strade e dighe idroelettriche”? Oppure, “vogliamo fertilizzanti e colture geneticamente modificate perché siamo stanchi di romperci la schiena con l’agricoltura biologica”. O anche: “vogliamo abolire il capitalismo, perché è la radice della maggior parte dei problemi che si sta cercando di risolvere.” Sono sicuro che la loro voce verrebbe soppressa.
Non credo che la proposta sia praticabile. E poi, non sempre la folla dice le cose giuste. Il crowdsourcing applicato a questioni estremamente complesse […] non è un compito facile.
Infine, non mi piace molto questo approccio di lavorare attorno a topics. Io preferisco un approccio che in primo luogo si concentra sul “sistema” che causa i problemi. Ma questo è diventato quasi un approccio “illegale”. In realtà troppo fastidioso e dirompente. […]
Forse prima di parlare di crowdsourcing o altro per cambiare il mondo, bisognerebbe leggere il lavoro di Badiou sul valore e il significato degli attuali sistemi democratici. – Laurence Rademakers

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