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Islam: donne, democrazia e dittatura

[Traduzione di Davide Galati dell’articolo originale di Sami Zubaida per openDemocracy.net]

Il successo elettorale dei partiti islamici in Egitto, Tunisia e Marocco ha sollevato preoccupazioni sulla politica e la legislazione in materia di famiglia e di genere, nonostante le ripetute rassicurazioni da parte dei loro leader. Dopo il successo degli islamisti in Iraq si è assistito a un mix disordinato di politiche per la famiglia sotto la guida di diverse autorità religiose, il tutto accompagnato da molti vincoli e intimidazioni. Questo è un buon momento per tracciare un bilancio sull’operato di vari Paesi del Medio Oriente nel corso del XX e XXI secolo nonché sulle loro relazioni con i regimi politici.

Tra l’inizio e la metà del XX secolo sono sempre stati dittatori a impegnarsi in politiche e legislazioni di liberazione ed empowerment sia nella famiglia che nella società. Ataturk avviò il processo in Turchia, seguito dallo Scià Reza Pahlavi in Iran, un modello seguito meno coraggiosamente da alcuni leader arabi nei decenni successivi. Ed essi dovettero lottare contro una forte opposizione popolare, religiosa, conservatrice e patriarcale. È improbabile che tali riforme potessero essere introdotte attraverso processi elettorali ‘democratici’. Nelle società basate sui legami di comunità, di parentela o clientelari, la ‘democrazia’ non coincide mai con il liberalismo. Nelle attuali situazioni stiamo assistendo agli effetti di questo principio? L’agitazione / rivoluzione avviata dai movimenti per la libertà e la giustizia sociale in mano ai giovani delle città ha portato ad elezioni nelle quali, dati i vasti entroterra di popolazione a cui questi concetti sono estranei o secondari, il voto è andato alle forze patriarcali e conservatrici. Non si ripete mai troppo spesso che Piazza Tahrir non è l’Egitto.

Contro Mubarak, Flickr/Al Jazeera English su licenza CC.

Quali sono state le forme istituzionali delle riforme del XX secolo? Queste sono state perseguite in due ambiti: la famiglia e la società in generale. I quali ambiti non sempre vanno insieme: in Egitto, per esempio, a partire dalla metà del XX secolo, mentre le donne potevano partecipare a quasi tutti i livelli del mercato del lavoro, in politica e nella vita pubblica, hanno continuato a soffrire posizioni subordinate e svantaggiate all’interno delle famiglie, come previsto dalle leggi sulla persona. Sono stati questi ambiti del diritto ad essere oggetto di molte polemiche, avanzamenti ma anche passi indietro. Dovremmo tenere a mente che la politica e la legislazione sono anche stati vincolati da processi strutturali di ordine sociale e culturale connessi con la modernità: la trasformazione in senso sempre più individualistico di molte sfere del lavoro e dell’impiego; la mobilità sociale e geografica e l’urbanizzazione; lo sviluppo dell’istruzione, dell’alfabetizzazione, delle arti e dei media. Tutti questi fattori hanno agito da input nei confronti di condizioni oggettive o di soggetti nel senso di una spinta più o meno marcata verso la liberalizzazione. Il capitalismo e il consumo si sono aggiunti alle pressioni per la liberazione nelle nuove ‘economie del desiderio’. Allo stesso modo, hanno sollevato preoccupazioni negli strati conservatori e patriarcali rispetto alla perdita del controllo sulle donne e i giovani. E’ interessante notare come l’Arabia Saudita sia l’unico Paese che è riuscito a resistere a lungo a queste pressioni: non solo era il più socialmente e culturalmente arretrato, ma il filone d’oro rappresentato dalle entrate petrolifere ha consentito ai suoi governanti di rimanere esenti dalle pressioni per il cambiamento come accaduto nel resto della regione. L’’islamico’ Iran non ha potuto godere di un lusso del genere.

Alcuni elementi delle storiche disposizioni della Shari’a in materia di diritto familiare sono rimasti nei sistemi riformati di tutti i Paesi del Medio Oriente con l’eccezione della Turchia. Ataturk ne abolì tutte le norme, trattando la difesa della Shari’a come un reato. All’altro estremo, l’Arabia Saudita ha continuato ad appoggiarsi completamente alla Shari’a nei codici familiari e di genere. La maggior parte degli altri Paesi ha istituito riforme giuridiche che hanno mantenuto alcuni elementi della Shari’a. Tra le questioni soggette a riforma, le restrizioni ai diritti degli uomini in materia di matrimoni multipli e di divorzio unilaterale, oltre all’assegnazione alle mogli di alcuni diritti per quanto riguarda il divorzio e l’affidamento dei figli. La libertà della donna di lavorare fuori casa e di viaggiare all’estero senza il permesso del marito o di un tutore di sesso maschile è rimasta una questione spinosa in molti Paesi. Le riforme giuridiche, sin dalle Tanzimat ottomane della metà del XIX secolo, hanno comportato la codificazione ed étatisation del diritto, sui modelli europei di civil law, con sistemi giudiziari e procedure moderni, ad eccezione del diritto di famiglia che ha continuato a essere affidato alle corti islamiche, dotate di personale religioso qualificato, seppure soggette alle leggi riformate dello Stato che sono cambiate nel corso del tempo. Fu nel 1950 che molti dei Paesi ‘tradizionali’ come l’Egitto, la Siria, l’Iraq e il Marocco abolirono i tribunali islamici e integrarono il diritto di famiglia nei tribunali civili ordinari, che giudicavano però in accordo con disposizioni della Shari’a riformate e cofidicate. Questo passaggio è stato messo in atto da dittatori militari, con il soffocato dispiacere degli ambienti religiosi e conservatori. Ciò è avvenuto con la maggiore evidenza in Iraq, sotto Qasim, salito al potere alla testa di un colpo di stato militare nel 1958, che promulgò alcune delle disposizioni di famiglia più liberali nel 1959. Queste riforme, che abolirono i tribunali della Shari’a e assegnarono alle donne maggiori diritti in tema di matrimonio, divorzio ed eredità, soddisfarono la forte corrente laicista-progressista del tempo, amareggiando i conservatori religiosi. Una rima beffarda che si sentiva cantare allora per le strade era: ‘tali al-shahar maku mahar, wul-qadi nthebba bil-nahar’, ‘arrivata la fine del mese non ci saranno più doti, e butteremo il qadi [magistrato islamico, NdT] nel fiume’.

Nel 1963, il sanguinoso colpo di stato baathista assistito dalla CIA pose fine alla dittatura relativamente benevola di Qasim, e introdusse il governo pan-arabista e settario sunnita dei retrogradi fratelli Arif. Per certo, una delegazione di venerabili religiosi, sunniti e sciiti, prevalsero su Arif per rovesciare tutte le riforme di Qasim. Il secondo golpe baathista del 1968 portò infine Saddam Hussein al potere nel corso degli anni ‘70, l’‘età dell’oro’ della prosperità e della rinascita culturale finanziata dalla moltiplicazione dei proventi del petrolio, che portò anche al rafforzamento dello Stato di sicurezza e della repressione sanguinosa. Questo regime perseguì la laicità molto seriamente al fine, in parte, di indebolire la fedeltà religiosa e patriarcale in favore del regime e del partito. Gli anni ‘70 e ’80 hanno visto grandi avanzamenti in termini di empowerment delle donne nella famiglia e nella società, e il contenimento dell’autorità religiosa nel diritto di famiglia, sia pure entro i limiti del regime di sicurezza totalitario che integrò tutte le organizzazioni femminili all’interno del partito Baath e dello Stato.

Tutto questo finì nei successivi decenni di guerre distruttive, contro l’Iran negli anni ’80, quindi nel 1990 l’invasione del Kuwait e la conseguente polverizzazione dell’economia irachena e delle infrastrutture a causa dei bombardamenti americani e alleati, seguiti da disastrose sanzioni delle Nazioni Unite. Un regime sempre più indebolito fece ricorso al tribalismo e alla religione per sostenere i controlli sociali, schivando con scioltezza le proprie riforme per tornare al patriarcato e ‘onorare’ la violenza e tutti i tipi di imposizioni sulle donne. A quel punto la classe di persone che avrebbero ‘gettato il qadi nel fiume’ era stata eliminata quasi del tutto. La repressione violenta di ogni autonomia politica e civile aveva riscosso un notevole successo nell’uccidere, imprigionare ed esiliare le classi medie dei ‘cittadini’; lo stesso partito Baath era stato trasformato da soggetto di campagna ideologica a veicolo passivo di fedeltà alla dinastia dominante. Più importante di tutto, gli individui erano stati spinti dalla violenza e dal crollo dell’economia a cercare sicurezza e mezzi di sostentamento entro la famiglia, il clan, i padrini e le reti religiose. Come unica opposizione politica al regime rimasero i partiti sciiti legati all’Iran. La frammentata ‘democrazia’ elettorale imposta dagli Americani dopo l’invasione inaugurò un insieme caotico di pratiche legali e religiose nel diritto di famiglia, ripristinando in gran parte il potere delle autorità religiose e patriarcali sulle famiglie e sulle donne. I dittatori avevano liberato le donne nei giorni migliori, ma si erano ritirati sotto le nuove pressioni, con i populisti reintrodotti dalla ‘democrazia’ a opprimerle ancora una volta.

La Tunisia è generalmente riconosciuta come la nazione più liberale tra gli Stati arabi per quanto riguarda il diritto di famiglia e i diritti delle donne. È, ad esempio, l’unico Paese arabo che proibisce tout court la poligamia, mentre la maggior parte degli altri hanno introdotto semplici restrizioni al diritto degli uomini ad avere più mogli. Queste misure hanno fatto parte del progetto di modernizzazione di un altro dittatore, Bourguiba. C’è da aggiungere, tuttavia, che la Tunisia è il Paese arabo con la società civile e la vita associativa più dinamiche, che ha partecipato alle riforme di Bourguiba. Gli islamisti del movimento Nahdha, arrivati al potere con le elezioni, hanno promesso di non correggere queste riforme, ma resisteranno alle voci dal basso che chiedono a gran voce un progetto più vigorosamente islamico?

In Egitto le riforme più significative del XX secolo furono introdotte dal presidente Sadat nel 1979, attraverso la cosiddetta ‘legge Jihan’, dal nome della sua seconda moglie che si ritiene esserne stata l’ispiratrice. Tale testo fu promulgato con decreto presidenziale in base alla legge d’emergenza, scavalcando il Parlamento. Ciò fu anche causa del suo annullamento nel 1985. Questa legge aveva concesso ulteriori diritti alle donne in ambito familiare, imponendo condizioni sulla poligamia, richiedendo procedimenti giudiziari per l’ottenimento del divorzio, assegnando maggiori diritti alle mogli in tema di divorzio e custodia dei figli, concedendo alle donne sposate di lavorare e viaggiare. Sadat istituì un comitato di ulema che avallarono le riforme, ma alcuni di loro in seguito le rinnegarono, dopo la morte di Sadat. Tali riforme erano in contrasto con l’attitudine generale di Sadat di riconciliazione con gli islamisti e i suoi emendamenti alla costituzione al fine di dichiarare i principi della Shari’a come fonte per tutta la legislazione. Queste contraddizioni diedero luogo a molte polemiche e controversie legali dopo l’assassinio di Sadat (da parte dei jihadisti) nel 1981. Gli avvocati islamici fecero ricorso alla Corte Suprema costituzionale, che stabilì nel 1985 come la legge Jihan fosse anticostituzionale, non perché non fosse conforme alla Shari’a, come chiesto dai firmatari del ricorso, ma in quanto approvata con decreto presidenziale. Molte di queste disposizioni, tuttavia, sono state ri-emanate dal Parlamento poco dopo, tra le polemiche e la resistenza dagli islamisti. Nel 2000, ulteriori controversie accompagnarono un altro decreto che dava alle mogli la possibilità di avviare il divorzio nel caso in cui rinunciassero a qualunque diritto sul reddito o sulla proprietà. Questa norma era basata su un’oscura e discussa disposizione contenuta nel canone islamico chiamata khul. Resta da vedere oggi che cosa il nuovo Parlamento e la Costituzione, dominati dalla Fratellanza Musulmana con l’appoggio salafita, abbiano in serbo per il diritto di famiglia. Molte delle persone e delle forze che in passato si sono opposte alle riforme stanno ora in Parlamento, ma con gli elementi più rispettabili che cercano di essere concilianti e liberali.

Iran V, foto Flickr di Hamed Saber su licenza CC.

E che ne è delle ‘femministe musulmane’ che sono state così influenti sul panorama ideologico, soprattutto in Occidente? La loro lettura revisionista del canone religioso e la difesa dei diritti delle donne hanno condotto a risultati politici o legislativi? Non in modo tangibile, con una sola eccezione. Probabilmente, e paradossalmente, il loro principale successo, per quanto modesto, è stato l’Iran islamico durante il suo interregno ‘liberal’ tra la morte di Khomeini nel 1989 e l’ascesa di Ahmadinejad nel 2005. In quegli anni sono state emanate molte misure di liberalizzazione politica e legislativa sotto la pressione di elementi, comprese le donne, interni al frammentato establishment islamico, come pure dalle relativamente libere fonti dell’opposizione. Queste misure sembrano essere giunte al termine sotto l’esercizio sempre più repressivo e arbitrario dei poteri esecutivo e giudiziario strettamente correlati. Il sistema giudiziario iraniano sembra essere davvero indipendente: dalla legge!

Le donne sono spesso state in prima linea nelle recenti emozionanti sollevazioni che si sono succedute nel mondo arabo. Sono una componente essenziale della generazione di ‘cittadini’ che hanno proclamato i valori universali della libertà e della giustizia. Dove sono riuscite a innescare le riforme democratiche, tuttavia, le elezioni hanno portato al potere elementi che sono a dir poco ambigui rispetto a questi valori. I dittatori, superstiti e aspiranti tali, sembrano ora giudicare più saggio soddisfare i sentimenti retrogradi piuttosto che impegnarsi nella spinta alla modernizzazione come i loro predecessori del XX secolo.

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