[Nota: l’articolo originale di Eleonora Ardemagni è pubblicato su Equilibri.net e coperto da copyright, ripreso dietro autorizzazione].
La cosiddetta Primavera araba sembra davvero essere marginale nel caso del Kuwait, ed è forse solo la coincidenza spazio-temporale ad aver fatto inserire l’emirato nella lista dei paesi contagiati dal fenomeno. D’altronde, povertà e disoccupazione, le cause che hanno scatenato le rivolte e reso non più sopportabile la presenza di regimi illiberali e corrotti, non rientrano tra le preoccupazioni kuwaitiane: secondo le stime, l’inflazione al 4% è assorbita da un PIL pro capite pari a 41.000 dollari annui, con un tasso di disoccupazione al 2% circa (dati Banca mondiale al 2010).
Infatti, se i proventi petroliferi, che costituiscono l’80% delle entrate, con una produzione di 2,3 milioni di barili al giorno (di cui circa 2,1 esportati) per un volume d’export che nel 2010 è stato di 61 milardi di dollari (dati OPEC), assicurano la stabilità sociale mediante robuste politiche di welfare, essi permettono anche la sussistenza del “contratto sociale” fra classe media commerciale e casa regnante. La middle-class kuwaitiana di oggi è ´l’evoluzione petrolifera` delle famiglie di mercanti (i tujjar) arricchitesi proprio con l’industria degli idrocarburi: il loro inurbamento, negli anni Sessanta, ha consentito lo sviluppo economico-finanziario del paese, grazie a una visione pragmatica che ha sempre sostenuto la compatibilità fra Islam e apertura al commercio internazionale.
Sono proprio i tujjar, nel 1938, a spingere l’Emiro alla concessione di un Consiglio Nazionale Legislativo, l’anticamera dell’attuale Assemblea Nazionale. Incalzati dalla crisi dell’asset strategico delle perle naturali, a causa della concorrenza delle coltivate giapponesi (comportante una riduzione dei prezzi), i commercianti individuano nel Consiglio l’organo deputato allo sviluppo economico e all’elaborazione delle riforme. Nonché lo spazio politico dove controbilanciare il potere degli Al-Sabah.
È la creazione di un luogo di negoziazione delle decisioni ancora elementare, ma destinato ad attraversare, con crescente rilievo politico, tutta la storia del Kuwait moderno, soprattutto dopo l’indipendenza dai britannici nel 1961. Oggi il Paese vive un continuo ´braccio di ferro controllato` fra Parlamento e Governo, ovvero fra classe media e famiglia reale. L’Assemblea Nazionale (Majlis al-Umma), è composta da 65 membri, 50 dei quali eletti ogni quattro anni su base circoscrizionale mentre i restanti 15 designati dall’Emiro, il governo, il cui Primo Ministro è nominato dal monarca, vede i ministeri-chiave affidati ad appartenenti alla numerosissima dinastia degli Al-Sabah. La difficile dialettica fra i due organi statali comporta, sempre più di frequente, una paralisi decisionale e pertanto una spiccata inefficacia politica, alimentando l’insoddisfazione e le proteste dei cittadini. Manifestazioni che coinvolgono molti giovani, i più sensibili a una qualche forma di accountability democratica, ma anche oppositori politico-tribali interni alla stessa élite al potere.
Le crisi politico-istituzionali più recenti sono del marzo e del dicembre 2011: la scorsa primavera l’esecutivo si è dimesso dopo che tre dei suoi membri, espressi dalla dinastia regnante, erano stati chiamati a riferire in Parlamento in merito al loro operato amministrativo; in seguito alla formazione di un altro governo, ben presto ritrovatosi ad affrontare i medesimi ostacoli del primo, l’Emiro ha sciolto il Parlamento e indetto le elezioni del prossimo 2 febbraio, le prime cui assisteranno osservatori arabi, su richiesta dello stesso esecutivo.
Parlamento e governo agiscono con intento di limitazione reciproca: da una parte, per esempio, i parlamentari utilizzano strumentalmente la facoltà di sindacato ispettivo per sottoporre a pressione, tramite interrogazioni, interpellanze e addirittura mozioni di sfiducia singole, l’operato dei ministri, specie quelli di casa reale; dall’altro lato l’Emiro, come accaduto nel 1981, riorganizza le circoscrizioni elettorali al fine di aumentare gli elettori e quindi gli eletti delle aree rurali a maggior penetrazione tribale, per contrastare il crescente potere parlamentare dei commercianti.
Nel 2009 le ultime elezioni parlamentari hanno mostrato una tendenza alla ri-tribalizzazione, in un paese dove i partiti politici sono vietati ( il gruppo islamista Ummah ne ha chiesto la legalizzazione) perché, è la versione ufficiale, costituirebbero un elemento divisivo fra confessioni e tribù differenti; esistono tuttavia blocchi parlamentari che agiscono come attori partitici. Metà dei 50 seggi da assegnare, nelle prime consultazioni che hanno visto l’elezione di quattro donne, è andata a gruppi sunniti affiliati a tribù vicine all’establishment dell’Emiro, mentre la minoranza sciita ha ottenuto 9 seggi; 7 scranni sono andati a movimenti d’ispirazione liberale e solo 3 seggi ai salafiti (gli altri 9 sono stati assegnati a candidati presentatisi come indipendenti).
Questi dati sembrano rispecchiare in modo fin troppo preciso la composizione etnico-confessionale del Kuwait, paese guidato da una monarchia sunnita: dentro all’85% di musulmani residenti nell’emirato, il rapporto di forza sunniti-sciiti è infatti di 70 a 30; la minoranza sciita, molto istruita e operativa nei settori-chiave della finanza e del commercio è costituita, oltre che da un 4% di iraniani, anche da numerosi iracheni. E il ridotto numero di sunniti d’orientamento salafita eletti evidenzia la presa per ora marginale dei messaggi fondamentalisti sui kuwaitiani. La lettura degli scorsi risultati parlamentari suggerisce perciò il perdurare di un ´voto per appartenenza tribale`, in particolare tra i sunniti: non a caso esistono ancora, nonostante siano stati banditi (ufficialmente) dagli Al-Sabah, meccanismi informali di selezione dei candidati come le diwaniyyat, ossia le primarie dei circoli tribali che si svolgono prima delle consultazioni nazionali. Così, la persistente pervasività del tribalismo mette in luce la natura ibrida della sovranità dell’emirato, poichè i modelli e le pratiche della tradizione tribale sopravvivono all’interno di un formato di ´stato all’occidentale` introdotto mediante l’esperienza coloniale.
La questione della cittadinanza e il caso dei bidun
Il Kuwait è storicamente un Paese d’immigrazione, tendenza accentuatasi a seguito dell’ espansione del settore petrolifero negli anni Sessanta: oggi, solo il 45% dei residenti nel Paese è di cittadinanza kuwaitiana e vi è una presenza consistente di altre popolazioni arabe (iracheni e palestinesi soprattutto) pari al 35%; significativa è anche la componente asiatica (9%) all’interno della quale spicca la comunità pakistana.
Alcuni movimenti politici come la Fratellanza musulmana, cui si ispira l’Islamic Constitutional Movement, hanno raggiunto l’emirato proprio mediante i fenomeni migratori. L’eccezionalità di un Paese in cui i cittadini sono meno della metà della popolazione non ha tuttavia mai comportato gravi tensioni o minacce allo status quo, ma la questione demografica viene da sempre percepita e affrontata in termini di sicurezza nazionale. E le rivendicazioni dei bidun, gli arabi apolidi, rientrano in questa categoria.
Nel corso del 2011, parallelamente alle manifestazioni anti-governative, Kuwait City e le sue periferie sono state scosse dalle proteste dei senza Stato residenti nell’emirato, che domandano diritti e la possibilità di diventare cittadini, in particolare nei mesi di febbraio, marzo e in queste settimane d’inizio 2012. Le dimostrazioni, che hanno visto sfilare in modo pacifico, secondo alcune fonti, centinaia di bidun, sono state represse dalla polizia con l’utilizzo di manganelli e di gas lacrimogeni; il governo ha arrestato numerosi manifestanti, fra i quali tre cittadini iracheni, che sarebbero tra gli organizzatori delle agitazioni, sempre secondo la versione dell’esecutivo.
In più occasioni l’ONU ha invitato l’emirato a interrompere le espulsioni degli apolidi e a concedere loro la cittadinanza. Infatti e a dispetto delle apparenze, la storia degli stateless in Kuwait è parte del tessuto sociale del Paese: la denominazione impiegata viene dall’arabo bidun jinsiyya, letteralmente “senza nazionalità-cittadinanza” e si può trovare scritta anche nella forma inglesizzata “bedoon”.
Questi arabi apolidi discendono da nomadi beduini (ma non tutti i beduini sono bidun) originari della zona desertica fra l’attuale Kuwait e l’Arabia Saudita, ma che la natura non stanziale ha portato, nel corso del tempo, a frequentare un’area ancora più vasta comprendente zone dell’Iraq, della Siria e della Giordania. Prima dell’invasione irachena del Paese nel 1990, questo gruppo era stimato intorno alle 220 mila persone mentre oggi sarebbero circa 100 mila, di cui solo 35 mila, secondo i calcoli del governo di Kuwait City, avrebbero i requisiti per l’ottenimento della nazionalità.
L’equivoco storico è legato al 1948, in pieno protettorato britannico, quando l’emiro emanò il primo decreto di cittadinanza e gli antenati dei bidun che protestano oggi non fecero domanda: fino a quel momento, la fedeltà aveva costituito il criterio informale de facto per l’appartenenza nazionale. Dopo l’indipendenza del 1961, le ´maglie` della cittadinanza kuwaitiana si sono fatte più strette, e si è concesso lo status solo a coloro che risiedevano già nell’emirato prima del 1920 (o ai loro discendenti). In più, secondo il codice tribale patrilineare, chi nasce da madre cittadina del Kuwait e padre straniero non ha accesso alla cittadinanza. Così, gli arabi apolidi dell’emirato non possono usufruire del generoso welfare degli Al-Sabah e le loro condizioni socio-economiche sono di parecchio inferiori alla media dei cittadini del Paese.
Occorre poi sottolineare che, fino agli anni Ottanta, il governo aveva attuato politiche d’inclusione sociale verso i bidun, permettendo loro l’impiego nel settore pubblico, in primo luogo nella polizia e nelle Forze Armate e calcolandoli addirittura nel numero statistico dei cittadini. Ma nel 1990, a seguito dell’invasione irachena del Kuwait, l’atteggiamento dell’emirato verso gli apolidi muta e fornisce un limpido esempio di come un fatto di politica estera possa essere utilizzato per il ´gioco interno`: il regime di Saddam obbliga -pena la morte- l’arruolamento di tutti i non-kuwaitiani nella Popular Army sotto comando iracheno. Così, a occupazione terminata, la retorica del tradimento viene politicamente adoperata per discriminare ancora di più il gruppo dalla società, rinviando di volta in volta ogni ipotesi di naturalizzazione.
Conclusioni
La chiamata alle urne del prossimo 2 febbraio evidenzia l’esiguità dell’elettorato attivo del Kuwait: nel 2006, su 2,5 milioni di abitanti, di cui 1,3 milioni di kuwaitiani, solo 340 mila cittadini si sono registrati nelle liste elettorali e hanno dunque potuto esprimere il loro voto; è naturale perciò domandarsi quale rappresentatività politica abbiano i parlamentari eletti, al di là della spinosa questione della cittadinanza. Nel medio periodo l’assetto politico-istituzionale del Kuwait pare stabile, anche grazie alla presenza delle seste riserve accertate al mondo di petrolio: la redistribuzione della rendita petrolifera, sotto forma di politiche di welfare e di misure straordinarie (aumento dei salari e dei sussidi ai carburanti) come avvenuto nel giugno 2011, consente per ora la tenuta del tessuto sociale del Paese.
Il rischio maggiore per il futuro, anche economico, dell’emirato è rappresentato invece dalla litigiosità quasi endemica fra Parlamento e governo, che si traduce in interventi inefficaci, perché orientati al compromesso, oppure allo stallo decisionale. A soffrirne potrebbe essere in particolare il progetto di privatizzare alcuni comparti statali strategici: in mancanza di adeguate politiche di liberalizzazione che accompagnino le cessioni, il risultato più probabile è il passaggio dal monopolio all’oligopolio, privilegiando gruppi di potere non ostili all’Emiro. E l’economia finanziaria, per un rentier-state come il Kuwait, rappresenta il principale strumento di politica estera, che si concretizza sotto forma di aiuti internazionali e di investimenti dei fondi sovrani. Dal punto di vista delle alleanze regionali, anche in chiave anti-Iran, l’ombrello protettivo del CCG (e l’Arabia Saudita in primis) fornisce all’emirato i dividendi dell’integrazione economica, nonché la protezione militare mediante la Peninsula Shield Force. Senza dimenticare la presenza di 15 mila soldati statunitensi nel Paese, scalo logistico per le missioni in Afghanistan e Iraq; l’incognita geopolitica riguarda un’eventuale ´disgregazione` su base settaria dell’Iraq, dato che gli sciiti si concentrano nel sud del Paese, proprio al confine con il piccolo Kuwait a guida sunnita.