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Saharawi, storia di una libertà negata due volte

E’ passato più di un mese e mezzo dal rapimento di Rossella Urru, rappresentante del Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli (CISP) e dei due cooperanti spagnoli, Ainhoa Fernández de Rincón dell’Associazione di amici del popolo Saharawi in Estremadura ed Enric Gonyalons dell’ONG Mundubat. Nella notte tra il 22 e il 23 ottobre, un gruppo di uomini armati faceva irruzione a Rabuni, centro amministrativo della autoproclamata Repubblica Araba Saharawi Democratica, nei campi rifugiati saharawi vicino a Tindouf, Algeria. La Farnesina diramava la notizia e informava di aver opportunamente attivato tutti i canali utili per garantire una serena e rapida soluzione della vicenda, raccomandando intanto di “sospendere tutti i viaggi non indispensabili nei campi saharawi” a causa della crescente e più generale “instabilità della regione saheliana confermata dagli episodi di sequestro”. Come da protocollo, dunque, salvo l’assordante silenzio che è venuto poi, interrotto qualche giorno fa dalla voce dei rapitori.

Cos’è accaduto a Rabuni in quel sabato d’ottobre? Le prime indiscrezioni sulla dinamica del rapimento rivelavano che un gruppo di uomini armati, giunto probabilmente dal vicino Mali ed allontanatosi nella stessa direzione, avrebbe fatto ingresso nel campo, eludendo i controlli del Fronte Polisario. Le ipotesi sui responsabili del rapimento convergevano sulla famigerata “Al Qaeda nel Maghreb islamico” e, ad una settimana dal sequestro, quattro persone legate al commando dei rapitori venivano arrestate dall’esercito algerino nell’ambito di una maxi-operazione di sicurezza condotta in diverse zone del Paese. Intanto, compariva la figura di un mediatore che avrebbe comunicato di essere in contatto con la cellula nordafricana di Al Qaeda e avrebbe riferito che i terroristi autori del sequestro “avevano dei complici sul posto, membri e simpatizzanti di AQMI, che hanno fornito loro le armi”, aggiungendo che “indossavano l’uniforme del Polisario”. La smentita del Polisario giungeva secca e repentina in un comunicato stampa che recita: “Non c’è alcuna presenza di AQMI nei campi rifugiati saharawi e i terroristi hanno attaccato aprendo il fuoco contro i cooperanti e le guardie del centro”. Fin da subito il Polisario ha messo in guardia dalla tendenza alla superficialità informativa e condannato aspramente “la manipolazione di informazioni da parte di autori visibili e non che si sforzano di diffondere falsità”. Dal silenzio dei rapitori, che era però calato su quanto accaduto, trapelava soltanto che i tre cooperanti erano vivi e stavano bene, ma che richieste specifiche sarebbero state avanzate più avanti.

Lo scorso sabato 10 dicembre il corrispondente di France Presse a Bamako comunica la notizia della rivendicazione del sequestro da parte di un gruppo dissidente della stessa “Al Qaeda nel Maghreb islamico”, che il giorno precedente aveva negato nuovamente ogni coinvolgimento. La responsabilità dell’operazione ricade ora su un gruppo di nuova formazione che si fa chiamare “Jamat Tawhid Wal Jihad Fi Garbi Afriqqiya” (Movimento Unito per la Jihad in Africa Occidentale). Lo stesso ha infatti recapitato ai governi italiano e spagnolo un breve video nel quale i tre ostaggi, che si presentano parlando ognuno la propria lingua, sembrerebbero stare bene. Nell’attesa di verificare l’attendibilità di quest’addensarsi di dichiarazioni e smentite, accade che vengano riaccese le luci sulla questione del rapimento perché si è di fronte a cellule terroristiche poco conosciute, attori inediti da un punto di vista mediatico che a loro volta sfruttano il rapimento quale evento a larga diffusione per farsi un nome, darsi una certa autonomia e guadagnare sostenitori alla causa della Jihad. Una logica mediatica alquanto distorta, però, trascura il più ampio e complesso quadro geopolitico al quale appartiene anche il popolo saharawi che vive negli stessi campi rifugiati teatro del rapimento, relegati in una sorta di dimenticatoio mediatico e di singhiozzante indifferenza internazionale ormai da anni.

Se è vero che nei giorni immediatamente successivi al rapimento, i canali d’informazione hanno riservato una qualche attenzione all’accaduto, è ancor più vero che, una volta rispolverati i propri archivi sul Sahara Occidentale, hanno prontamente riposto la questione nel cassetto. In questo novembre convulso e denso di avvenimenti, la questione saharawi – già da tempo poco appetibile mediaticamente – ha dovuto infatti lasciar spazio alla capitolazione di Gheddafi in Libia, all’euforica celebrazione di elezioni democratiche in Tunisia, al secondo atto della rivoluzione in Egitto. Tutti effetti collaterali della primavera araba che, ironia della sorte, Noam Chomsky vede iniziare proprio in Sahara Occidentale nel novembre 2010, quando i saharawi piantano un centinaio di tende a Gdeim Izik, nei pressi della capitale El Aaiun, diventando in breve i 20mila del cosiddetto “accampamento della dignità”. Ad ogni modo, in quel breve arco di tempo che vuole i media posizionati su uno stesso scenario per “stare sul pezzo”, sono state confezionate interessanti analisi politiche sulla storia di una libertà negata due volte, la prima ad un popolo che è ospite da trentasei anni nel deserto algerino dell’Hammada in attesa della libertà di riprendersi il proprio Stato, la seconda ai tre cooperanti europei che realizzano attività umanitarie al fianco di quello stesso popolo.

Hamdi Touali, giovane saharawi, nella zona vicina al Muro Marocchino. Foto scattata dallo staff Tindouf ExPRESS

Sul suo blog di stampo conservatore, ospitato dall’autorevole Washington Post, Jennifer Rubin ha scandagliato i motivi della presenza di Al Qaeda nella “polveriera che è diventato il Sahara Occidentale”, proponendo una lettura piuttosto provocatoria del rapimento che, a suo avviso, ha potuto contare su una “notevole copertura mediatica in Europa”. L’articolo lascia intendere che quanto accaduto sia sintomatico dell’incapacità del Polisario di mantenere un accettabile livello di sicurezza all’interno dei campi, gettando poi ombre sul futuro politico dell’intero Maghreb. Ancor più rigida è l’analisi di Joseph K. Grieboski che pure avverte di conoscere a fondo il tema perché da anni impegnato a “far luce sui pericoli che vivono i saharawi costretti nei campi rifugiati dal Polisario e dalle autorità algerine”. Tra questi, “la sparizione di aiuti umanitari ad opera di militanti del Polisario che ne trarrebbero profitto personale dalla vendita” e “il curioso legame tra questi e la rete di AQIM”, aspetti che le organizzazioni presenti fisicamente nei campi rifugiati non hanno mai sollevato perché mai se n’è presentato il caso.

A dar voce ai saharawi – esprimendo la sua personale opinione in merito e non quella del movimento di liberazione, pur riconosciuto unico rappresentante politico legittimo del popolo saharawi – è il Segretario dell’UPES (Unione dei Giornalisti e Scrittori Saharawi), Malainin Lakhal. La sua condanna del rapimento è tanto più veemente perché dietro l’azione terroristica vi scorge l’obiettivo malcelato di intimidire coloro che si impegnano nell’assistenza umanitaria (con il rischio ultimo di dettare il ritmo degli aiuti) e di mortificare il progetto nazionale del popolo saharawi, servendo in qualche modo gli interessi del Marocco che considera il Sahara Occidentale una regione soggetta alla propria amministrazione. Rispetto alle accuse diffamatorie scatenate dalla stampa marocchina, il giornalista saharawi – che recentemente aveva avvertito dei pericoli nella giungla dell’informazione – si limita a respingerle, invitando le autorità saharawi ad adottare se necessario misure di sicurezza ancor più ferree nei campi, per impedire che la propaganda marocchina riprenda quel vecchio adagio secondo cui il Sahara Occidentale sarebbe un territorio sicuro solo sotto il controllo del Marocco.

L’esperto di Nord Africa Carlos Ruiz Miguel, invece, legge in quanto accaduto il frutto di dinamiche più ampie e complesse, suggerendo ad esempio che l’interpretazione politica del rapimento dei tre cooperanti europei passi per la comprensione dei risvolti economici che esso può comportare. Sebbene l’autore solleciti interrogativi sensibili sul rapporto di forze nel quadro regionale, resta vero che il fattore geopolitico pesa sulle relazioni tra gli attori coinvolti direttamente e indirettamente nella questione.

Intanto, le autorità saharawi continuano a ricevere le visite programmate di delegazioni straniere nei campi rifugiati e sono disposte a ripensare misure di sicurezza più stringenti, ovvero un carico maggiore di responsabilità. Del resto, i dirigenti dei campi sono consapevoli di aver saputo organizzare uno Stato in esilio da trentasei anni, in attesa di esprimere il proprio diritto di voto sulle sorti del Sahara Occidentale e di diventare un popolo sovrano.

La vicenda del rapimento di Rossella e dei suoi colleghi esaspera una crisi politica che c’è, ma non si vede. Quali interessi vi si compongono dietro? Quanto conta un’informazione limpida e attendibile rispetto ad una questione internazionale spesso trascurata? E soprattutto, qual è la storia del popolo saharawi? Non si tratta di interrogativi inaccessibili, le risposte esistono nel quadro del diritto internazionale e dell’evoluzione storica della questione saharawi. Vanno semplicemente ricercate e pretese.

Articolo curato dallo staff di Tindouf ExPRESS di cui fa parte anche Chiara Orsini . Tindouf ExPRESS nasce dalla volontà e dall’esigenza di alcuni giovani cittadini italiani di fronteggiare il vuoto informativo presente nella società civile internazionale rispetto alla questione del popolo Saharawi. E’ un laboratorio nel quale analizzare e commentare notizie di attualità, documenti storico-giuridici, articoli accademici rilevanti, massimizzandone la diffusione in lingua italiana e inglese attraverso il web.

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