La capitale della Repubblica Centrafricana è dominata, come le tante capitali non solo africane, dall’inquinamento, dai taxi che suonano il clacson per caricare clienti, dai ragazzi e dalle donne che vendono schede telefoniche, banane e farina di manioca, e poi soprattutto dalla povertà.
Per respirare l’atmosfera di questa città basta andare al mercato centrale, dove si vendono prodotti sfusi di ogni genere, alimentari e non, ma ancor più al mercato principale, al “km. 5” dell’Avenue Boganda, in ricordo del “padre fondatore”. Qui la malavita è molto presente: un bianco che entra non accompagnato da persone locali, rischia molto, ma il presidio di soldati e poliziotti per evitare danni a chi ci si avventura è sempre presente e spesso, per evitare guai peggiori, si ricorre al coprifuoco in tutta la zona.
Due centrali idroelettriche cinesi, una terza è in costruzione, producono elettricità prendendo l’acqua dal fiume con un paio di dighe a monte della città: la sua distribuzione avviene a turni nei vari quartieri, escluso quello delle ambasciate e della residenza presidenziale che hanno la corrente elettrica quasi sempre.
La prima meraviglia è il fiume Oubangui: per il mio occhio europeo è veramente enorme. Larghissimo, con una portata d’acqua impressionante, sembra fermo, e le piroghe lo solcano velocemente. Al di là del fiume il Congo Democratico. Andando fuori città il paesaggio è lussureggiante, verdissimo, equatoriale, con alberi altissimi e foresta verso Sud o savana verso Nord. Spesso si viaggia sotto un soffitto verde di rami, come in una luminosa galleria. I villaggi sono sparsi e fatti di case di mattoni di fango e paglia essiccati al sole, con tetti di bambù, di lamiera o d’erba. Lungo le strade, al loro attraversamento, si vedono le tovaglie stese per terra o i banchetti con i prodotti in vendita: farina di manioca, erbe, qualche frutto, papaya o ananas o bananine. Sulla strada si incontrano decine di carretti spinti a mano e carichi di legna, assi lunghi anche quattro metri o pezzi piccoli da ardere: la deforestazione avanza, anche se le leggi per limitarne i danni sono molto severe, anche se per ogni albero tagliato se ne dovrebbe piantare uno della stessa famiglia, anche se i controlli dell’ECOFAC, Commissione internazionale di controllo sulle foreste sono tanti. Il condizionale è obbligatorio perché anche qui la corruzione è a tutti i livelli, come in qualsiasi altra parte del mondo.
In un intervallo dei corsi di informatica che tengo quotidianamente con Elvira Simoncini, collega di “Informatici Senza Frontiere”, (tre gruppi di sei ragazzi, per due ore al giorno e per circa un mese), parlo con il vescovo di M’baiki, mons. Rino Perin, comboniano, in Centrafrica da oltre trentacinque anni, che parla correntemente il sango, lingua ufficiale dell’RCA, e che ha organizzato, tramite la Caritas diocesana, questo progetto di formazione.
Monsignor Rino, come è chiamato qui anche dalle autorità civili, mi spiega la situazione etnica, religiosa e umana del popolo e delle varie etnie centrafricane. Ci sono una ventina di etnie, di cui solo quattro o cinque sono numericamente consistenti. La maggiore (dopo i Banda, 29%) è quella Baja (25%), di cui fa parte il presidente Francois Bozize, salito al potere circa sette anni fa, riconfermato già due volte in carica attraverso elezioni riconosciute dagli altri Paesi. Prima si erano alternate altre etnie con Bokassa prima e Dako poi. Il popolo centrafricano pratica diverse religioni: per la metà sono animisti, circa il 20% cattolici, altrettanti protestanti di varie chiese e sette e circa un 10%, in aumento, sono i musulmani. L’RCA fa parte, economicamente e monetariamente, del CEMAC, unità monetaria ed economica dei sei Paesi dell’ex Africa Centrale Francese (Ciad, RCA, Congo Brazzaville, Camerun, Guinea Equatoriale e Gabon).
Quello che in realtà contraddistingue questo Paese è la povertà: non ci sono stabilimenti, a parte qualche segheria, non ci sono commerci rilevanti, salvo quelli dei cinesi che portano i loro prodotti a basso costo e bassissimo valore e fanno omaggio di strade, dighe, ospedali, stadi in cambio di terreni vastissimi su cui coltivano prodotti per l’energia che consumano poi in Cina; ci sono poche attività commerciali, legate alla vita quotidiana, e pochissimi uffici. A M’baiki, seconda città per importanza, c’è un ospedale che offre servizi scarsi, le scuole fino alle superiori, quelle professionali, e una sezione staccata della facoltà di agraria dell’università di Bangui. Ci sono anche due distributori di carburanti, oltre ad un mercato relativamente modesto.
Non c’è, in realtà, il problema della fame, ma quelli cronici di quasi tutta l’Africa: la malnutrizione, la scarsissima cultura sanitario-sociale, e l’assenza di incentivi a cambiare stile di vita; muoiono di inedia piuttosto che di stress.