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Le donne africane meritano il Nobel per la Pace

Donna del villaggio di Gyetiase, Ashanti Region, Ghana – Foto © A. Sinopoli

Walking Africa. L’Africa che cammina. Che cammina con i piedi delle donne. Non si poteva trovare immagine più adeguata per descrivere la fatica, la determinazione, l’impegno di milioni di donne che ogni giorno silenziosamente vivono e costruiscono la “loro” Africa. Un’immagine usata per la campagna Noppaw, che propone l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace 2011 alle donne africane. Un premio collettivo, oltre che simbolico, perché le donne africane non vanno mai sole. Qualunque strada stiano percorrendo, quella che porta alla fonte d’acqua o quella che porta al riconoscimento dei propri diritti. Si va insieme, nelle battaglie quotidiane per la sopravvivenza, come in quelle sociali e politiche che ormai tante di loro stanno portando avanti.
Sono belle le donne africane. Sempre con qualcosa sulle spalle o sulla testa. Bambini, secchi d’acqua appena riempiti al ruscello, merce da vendere al mercato. Anche quelle che sono riuscite ad affrancarsi e a lasciare i villaggi. Anche quelle che hanno vissuto e studiato nelle metropoli. Anche loro portano il loro peso: l’urgenza di riuscire a migliorare le condizioni di vita di tutte le altre.

Le donne africane portano pesi sulla testa e sulle spalle.
Anche questo è un modo per costruire il proprio futuro. Foto © A. Sinopoli

Oggi, 25 maggio, l’Africa festeggia la liberazione dal potere coloniale, ma su una popolazione di un miliardo di persone i non liberi sono ancora tanti e la maggior parte sono donne. Non libere perché non possono studiare, non libere perché trascorrono 10-12-14 ore nei campi, non libere perché malate di AIDS. L’Africa è un continente vastissimo e le differenze di vita tra un Paese e l’altro e all’interno degli stessi Paesi sono abissali. Ma guardando ai dati quello che accomuna tutte le donne, dal Maghreb al Sud Africa, sono le condizioni di inferiorità e di sofferenza. I tassi più alti di analfabetismo, soprattutto nell’area sub sahariana, si riscontrano nella popolazione femminile. Il lavoro della terra per nutrire la famiglia e per garantire un minimo di esportazioni tocca per l’80% alle donne. E se leggiamo queste statistiche ci rendiamo conto che in tutti i Paesi dell’Africa sub sahariana la percentuale delle donne positive all’HIV è molto più alta, a volte quasi il doppio, di quella degli uomini. Com’è noto, dati e statistiche non vengono aggiornati frequentemente ma le voci, le immagini, le testimonianze che arrivano da quel continente danno la misura di quanto sia difficile ribaltare questi numeri.

Ormai da tempo è chiaro che gli Obiettivi del Millennio non saranno raggiunti. Certo, non entro il 2015. Eppure, le donne, anche quelle che di questi Obiettivi – ormai ideali – non hanno mai sentito parlare, di strada ogni giorno ne fanno tanta per ottenere quel minimo che per loro è già abbastanza. A loro soprattutto è dedicato lo sforzo dei promotori della Campagna Noppaw e le motivazioni che la reggono.

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Certo, il cammino più difficile e più importante che l’Africa al femminile sta facendo è proprio quello verso la pace. Ai più alti livelli dello Stato, come nei singoli villaggi. Esistono progetti che le grandi organizzazioni non governative mettono in campo con l’ausilio dell’Onu. Progetti che riguardano la lotta all’AIDS, alla povertà, alle violenze sessuali e legate a pratiche tradizionali o alla guerra. Che riguardano la sicurezza, il buon governo, il rispetto dei diritti umani. Condizione imprescindibile per l’attuazione di tutti questi principi è la pace. Il ripristino, consolidamento e sviluppo di una cultura della pace.

Nel 2000, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha adottato la Risoluzione 1325 con la quale si stabilisce la centralità delle donne nell’attuazione dei processi di pace. Da allora in tante sono state protagoniste in Paesi dove intere generazioni non avevano conosciuto che guerre. Come in Liberia dove Leymah Gbowee con il suo impegno ha contribuito alla fine di una sanguinosa guerra civile. Tutto cominciò con un gruppo di donne, che come forma di protesta agli scontri civili si riunivano in preghiera e canti al mercato del pesce. Nacque il Women of Liberia Mass Action for Peace. Un’azione civile che portò all’elezione di Ellen Johnson Sirleaf, una donna, la prima, come presidente della Liberia. E dal mese scorso una seconda donna è alla guida di uno Stato africano, Cissè Mariam Kaidama Sidibè, primo ministro del Mali.

Altre coraggiose e in Paesi difficili stanno facendo la propria parte, come la sudanese Fatima Abdel Mahmoud, prima donna a candidarsi alle presidenziali in Sudan. Di esempi di impegno civile e non violento delle donne africane ce ne sono tantissimi, come le donne dei Paesi del Nord Africa che hanno fatto la loro parte nelle recenti rivoluzioni (qui un post sulle attiviste egiziane) o come Aya Virginie Toure, che ha guidato proteste pacifiche di donne contro l’ex presidente della Costa d’Avorio, Laurent Gbagbo. Così come sono numerose oggi le organizzazioni umanitarie e internazionali costituite da donne, che operano in tutte le regioni dell’Africa per l’avanzamento e il rispetto dei diritti umani. Significativo, inoltre, è il coinvolgimento di donne di differenti fedi religiose che portano avanti un dialogo che mira alla conoscenza reciproca per il raggiungimento dell’obiettivo comune, la pace.

“Noi meritiamo questo premio” ci ha detto Hélène Yinda, considerata una delle maggiori teologhe africane, impegnata nello sviluppo dei diritti umani in Africa. Tra le promotrici della candidatura delle donne africane al Nobel per la Pace, Yinda dice: “Per noi questo premio ha un valore simbolico. Non è una questione di soldi, in Africa ne sono stati spesi a tonnellate, eppure viviamo nelle condizioni che tutti conoscono. Per noi i valori più importanti rimangono quelli immateriali e sono quelli che l’Africa porta nel mondo”.

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Sì, le donne africane meriterebbero il Nobel per la Pace, e lo meriterebbero quelle donne che dai loro villaggi – pacifici o in guerra – un premio Nobel non sanno neanche cosa sia. È proprio ad una di loro che andrebbe simbolicamente consegnato.

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