“Le reti sociali digitali non sono l’unico mezzo per far circolare i desideri dei cittadini, ragione per cui la proibizione attuale di accedere a Facebook o a Twitter non protegge il regime”. Con queste parole, Mazen Yaghi, giornalista e analista siriano, descriveva gli albori della protesta in Siria a inizio di febbraio in un articolo sul quotidiano spagnolo El Mundo.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso di un Paese colmo di 48 anni di Stato d’emergenza è apparsa qualche settimana dopo. A metà marzo, la notizia dell’arresto di un gruppo di minorenni per aver scritto su un muro di Daraa, nel sud del Paese, “il popolo vuole che il regime cada”, si é diffusa velocemente via Web e telefoni cellulari. La gente si è radunata per le strade di Daraa, dando vita alle prime manifestazioni. Grazie alla grande quantità di informazioni fornite dai cittadini siriani via Internet, la durissima repressione dell’esercito è arrivata sulle pagine della stampa internazionale. All’alba della protesta, cadeva la censura su Facebook. Ma come nel caso dell’abrogazione dello stato di emergenza, l’apertura del regime di Bashar al Asad è stata tutt’altro che reale, come Mazen, che fa da portavoce all’estero della ribellione siriana, ha potuto raccontarci in prima persona.
Daraa, 23 marzo 2011
Una vita sotto regime
Mazen ha passato tutta la vita nella Siria dello stato d’emergenza. Ricorda di quando, a sei anni, era obbligato a recitare un inno in favore del leader con i suoi compagni di classe: “ogni mattina, prima di entrare a lezione, uno di noi gridava ‘il nostro leader per sempre’ e gli altri rispondevano in coro ‘è nostro padre Hafez Al Asad [il padre dell’attuale presidente]’. In ogni scuola c’era un’organizzazione del partito Baath, unico gruppo politico del Paese, e più un cittadino vi si implicava più vantaggi poteva ricavarne”. Come in ogni regime, il governo cercò a lungo di prendere il controllo di tutte le fonti di informazione. Fino a 10 anni fa, quando il giornalista lasciò il suo Paese natale, nel quale non gli è permesso tornare, esistevano solo tre periodici: “due controllati dallo Stato e uno in mano ad Al Baath. Non c’era libertà di stampa o di espressione e tantomeno il diritto di manifestare”. Grazie allo stato d’emergenza vigente, i governatori di provincia avevano il potere di detenere un cittadino qualunque per sei mesi, senza bisogno di prove. E poi, i temuti servizi segreti: “il pericolo maggiore erano e continuano ad essere i servizi segreti. I suoi agenti non possono, per legge, essere giudicati. Gli unici che possono condannarli sono i loro responsabili delle forze armate, ragion per cui nessuno di loro è mai stato portato in tribunale”. Le forze speciali fanno da pilastro di sicurezza del regime di Asad, in coppia con la ristretta cerchia di familiari e di simpatizzanti del dittatore che hanno in mano tutte le imprese del Paese.
Cellulari e Internet, una finestra sul mondo
Con l’arrivo di Internet, dei collegamenti via satellite e dei cellulari di ultima generazione, i siriani hanno avuto la possibilità di aprirsi al mondo e di vedere cosa significava vivere in libertà. Come ricorda Mazen, “il governo cercò di censurare anche i nuovi mezzi di comunicazione, ma per quanto dittatoriale sia un regime, non si puó mettere un tetto al cielo. Cosí la gente inizió a collocare i satelliti nelle propri case”.
Ma il regime non si è fatto intimidire, e ha continuato la sua lotta contro la libera informazione: “dall’inizio della rivoluzione, quando i serivizi segreti notano movimenti delle reti sociali in determinate zone, bloccano la comunicazione e si perde totalmente l’accesso a Internet e ai telefoni cellulari”. E dato che arrivano spesso a tagliare la rete elettrica, “si vedono per le strade di Daraa molte persone che ricaricano il cellulare con la batteria della macchina. E c’è gente che sta comprando cellulari in Giordania o in Turchia per avere la copertura garantita grazie agli operatori telefonici stranieri.”
Oltre agli ostacoli posti dalla censura, che fanno sí che ci vogliano ore per inviare una foto o un video, i siriani devono vedersela anche con le tariffe Internet più alte del mondo arabo: “si moltiplicano per cinque rispetto alla media del resto delle zona”, spiega Mazen, “dato che le compagnie telefoniche appartengono ai familiari del presidente Asad. E la maggior parte della popolazione non ha i mezzi economici per permettersi queste tecnologie.” Secondo cifre ufficiali, sono quasi quattro milioni gli utenti che accedono alla rete in Siria (su una popolazione di 22 milioni) e la maggior parte lo fa dagli internet point. Tra questi, meno del 10% dispone di ADSL, servizio offerto dal monopolio della compagnia statale STE.
Jassem, sud della Siria, 29 aprile 2011
Scenari di ribellione
Ora Facebook e Twitter sono utilizzati soprattutto per far vedere al mondo gli effetti della repressione del regime. Sham News Network (SNN) è una rete di informazione siria, la cui versione in inglese si appoggia a WordPress per evitare la censura governativa. E’ da questa pagina che sono arrivati i video dei carriarmati che entrano a Daraa pubblicati dalle televisioni di mezzo mondo. Vanta già 93 mila seguaci sulla sua pagina di Facebook, che si è convertita nella piattaforma più attiva sull’argomento. Altri hanno semplicemente iniziato ad informare dalle strade delle proprie città, come l’utente di Twitter @daraanow, che aggiorna costantemente i suoi 1822 follower (tra di loro giornalisti della CNN, di El País e di altri grandi media internazionali) sugli avvenimenti della città in cui tutto ha avuto inizio.
Nonostante questo, lamenta Mazen, la comunità internazionale si sta comportando esattamente come ha fatto con la rivolta tunisina: “invece di sentirsi responsabile per aver garantito larga vita a una generazione di dittatori, ha preferito sostenere Bashar nonostante fosse chiaro che non manteneva le sue promesse di apertura”. Ma proprio sull’esempio delle popolazioni di Tunisia ed Egitto, “i siriani, senza colori né capi politici, hanno deciso di rompere la barriera della paura e di scendere in strada. E hanno lanciato un chiaro messaggio ai governi occidentali: prima di discutere per evitare una guerra, si puó decidere di non appoggiare una dittatura”.