Ed è qui che, tra i tanti motivi di discussione, nasce il dibattito più acceso. Quello che riguarda il citizen journalism. Valore o impostura? Contributo all’informazione o dilettantismo allo sbaraglio? Gli appuntamenti, gli eventi, i forum su questo argomento in questo periodo sono così tanti che si rischia di perderne il conto. Ma quello che sembra un po’ emergere da tutti quei fili intrecciati che il dibattito in corso cerca di dipanare è, purtroppo, un certo accento sul journalism a discapito del citizen. Eppure l’altra faccia della rivoluzione sta proprio in quello, nell’uso dei media e della Rete come strumento sociale. Come mezzo per riprendersi la parola e farla circolare. Certo è chiaro che in un contenitore aperto come Internet ci sta di tutto, il bello e il brutto, il pulito e lo sporco. Perché tutti possono riempirlo. Ma davanti a una cosa potenzialmente infinita come Internet la consapevolezza del cittadino e della sua funzione diventa un grande strumento per migliorare tale sistema di comunicazione. E usarlo per “fini sociali”.
È un po’ quello che sta accadendo in questi mesi, a partire dalla Tunisia, e poi l’Egitto, la Siria, il Bahrein, lo Yemen, la Libia… E come era accaduto prima in Iran. In tutti questi luoghi il filo conduttore è la parola, breve, del cittadino. È l’immagine, magari “sporca” e sfocata delle foto o delle riprese fatte con i telefonini. È, insomma, il tentativo di comunicare. Senza filtri e senza aspettare che una troupe televisiva venga a filmare il sangue o che un giornalista dall’altra parte del tuo mondo venga a descrivere come si vive lì. Questa “intrusione” nel lavoro del giornalista mainstream ha forse un po’ destabilizzato ma, nello stesso tempo, ha dato la misura di quanto il mondo sia più grande di quello segnalato e raccontato nel format di un giornale o nel breve spazio di un TG. In questi mesi si è scoperto quanto i mainstream riescano ad essere in ritardo e abbiano difficoltà qualche volta a “stare sulla notizia”. Un lettore attento e preparato potrebbe fare un semplice esercizio: controllare ad esempio, i post apparsi su Global Voices Online, piattaforma di oltre 300 blogger sparsi in tutto il mondo, e verificare in che misura e numero i post relativi alle proteste in Siria, Bahrein e Yemen, corrispondano ad articoli giornalistici apparsi sui nostri maggiori quotidiani. Il più delle volte i mainstream hanno trattato le vicende con brevi trafiletti o non seguendole giorno per giorno o, infine, quando il numero dei morti era diventato troppo alto. Con questo non si vuole screditare le testate mainstream, semplicemente fare una riflessione: oggi non bastano più. L’informazione non passa più solo dalle testate tradizionali.
Ma, l’aspetto è anche un altro. L’utilizzo dei social media non consente più di nascondere o minimizzare. E il loro uso ha, in un certo qual modo, “costretto” i mainstream a fissare l’attenzione in maniera diversa. O, anche li ha relegati qualche volta a informatori secondari. Non più fonte principale. La questione non è tanto se su Twitter si faccia la rivoluzione e se i social media possano essere un veicolo per alzare i toni della protesta. La questione è come le persone decidono di usare la Rete. Abbiamo molti esempi di un utilizzo intelligente e condiviso della Rete e delle informazioni. Per restare agli ultimi eventi, c’è chi ha pensato di realizzare una mappatura delle proteste dello scorso anno e dell’anno in corso utilizzando le notizie selezionate e vagliate dai maggiori mainstream. C’è chi invece usando i mezzi offerti da Google, ha creato una mappatura degli accadimenti in Libia, quasi giorno per giorno, a partire dal 5 marzo. Solo un paio di esempi che mostrano che nel caos della Rete si può fare ordine e che chi sa utilizzarla in modo intelligente e creativo può fornire un servizio magari utile per ricerche d’archivio e memorie.
Per tornare al dibattito che va tanto di moda in questo periodo: quanto sono “rivoluzionari” i social media? Per non dilungarci troppo prendiamo due punti di vista. Da una parte c’è chi smantella il sogno dell’attivismo on line e che ritiene che i social media siano un altro strumento per i governi di controllare i cittadini, entrare nei loro profili e perseguirarli se contestatori. Parliamo di Evgeny Morozov che ha appena scritto un libro dal titolo The Net delusion: how not to liberate the world e che ritiene che Internet addirittura stia abolendo la libertà. Qui un’intervista recentemente apparsa su un settimanale nazionale.
Dall’altra c’è chi invece, come Clay Shirky al ruolo dei social media come motore di cambiamento sociale ci crede eccome.
[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=c_iN_QubRs0[/youtube]
Ma per tornare al punto di partenza, il ruolo dei cittadini e la loro voglia di “protagonismo attivo”, segnaliamo quest’analisi riguardante l’uso di Facebook nei Paesi del Nord Africa e Medio Oriente protagonisti delle proteste degli ultimi mesi. Le percentuali sono così basse (Egitto 5.49%, Libia 3.48%, Yemen 0.74) che la domanda ovvia è: come potevano milioni di cittadini decidere una rivoluzione on line se non sanno nemeno che cos’è Facebook, o comunque non hanno accesso alla Rete? Poi, per approfondire andrebbero analizzate queste statistiche riguardanti la penetrazione di Internet nei Paesi africani. Anche in questo caso, molto bassa. In realtà, quindi, chi ha fatto circolare le notizie sui social media e le ha amplificate sono stati i blogger, citizen journalist, netizen, attivisti della Rete – come li vogliamo chiamare – che dall’altro lato del mondo l’hanno usata in modo creativo e democratico. Hanno fatto ordine, hanno fatto delle analisi, hanno fatto delle riflessioni.
Ma delle rivoluzioni, delle proteste e dei moti di scontento, tutto ciò che da qui noi raccontiamo, sono protagoniste le persone che sono scese nelle piazze. Con le loro videocamere, se le avevano, e i loro telefonini, per cercare di essere cittadini attivi. Per cercare di riprendersi la parola e farla arrivare, in qualche modo, al resto del mondo.