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Esponenti delle arti performative intorno alla rivoluzione

Giovani feriti, giovani che sfuggono alle percosse, giovani che denunciano soprusi, che lanciano insulti, che rispondono a insulti, giovani in corsa, giovani a terra, giovani che a braccia ne trasportano altri, feriti, lontano da quegli agenti di polizia camuffati da gente comune.
Sono riprese dei tumulti tunisini del gennaio scorso raccolte in un cortometraggio degli allievi del regista Nouri Bouzid dell’Ecole des arts et du cinéma di Tunisi e anticipato fuori programma alla tavola rotonda ‘Tunisia e le altre. Storie in parole e immagini dai Paesi del Mediterraneo in rivolta’, tenutasi giovedì 24 marzo allo Spazio Oberdan, Cineteca di Milano, nel quadro del Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina che si è concluso ieri. Altri cortometraggi inediti dei giovani allievi di Bouzid erano in programma sabato  al Teatro Rosetum, sempre nell’ambito della rassegna.

La tavola rotonda di giovedì, moderata da Mohamed Challouf, già direttore artistico dei Rencontres cinématographiques de Hergla (Tunisia) e storico collaboratore del Festival milanese, nonché autore del libro fotografico “I figli del Sud”, ha proposto una riflessione sui recenti avvenimenti che hanno sconvolto il Nord Africa, e la Tunisia in particolare, con una rapidità inedita. Ospite, fra gli altri, oltre allo stesso Nouri Bouzid (fra i componenti della giuria del festival), il regista e drammaturgo tunisino Fadhel Jaïbi.

L’hanno chiamata Rivoluzione della Gioventù, osserva Challouf, per le modalità e l’esposizione mediatica resa possibile da internet e dai social network, tuttavia – sottolinea – non mancano intellettuali e artisti che rivendicano il loro ruolo. ‘Cosa è accaduto’ è la domanda che pone a Jaïbi. Nella risposta il drammaturgo rivela tutta la consapevolezza di chi sa bene che nessuno da solo potrà mai dar conto compiutamente di una realtà tanto complessa: da artista, parla con la sua opera.

Fadhel Jaïbi, autore e regista internazionalmente consacrato, nel suo Paese ha conosciuto la censura [qui una nota rilanciata dall’attivista tunisino Sami Ben Gharbia, direttore di Global Voices Advocacy, iniziativa del circuito di Global Voices Online per una rete anticensura], ma la sua Yahia Yaïch, Amnésia, scritta a quattro mani con l’attrice Jalila Baccar e rappresentata l’anno scorso al Piccolo Teatro Studio di Milano, si rivela – si è detto – opera profetica. Narrando la vicenda di un uomo di potere caduto in disgrazia e posto agli arresti domiciliari, Jaïbi aveva svelato la spaventosa condizione depressiva in cui versava la società del suo Paese, una Tunisia grigia, privata di spazi vitali.

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Video ripreso dal sito della web radio Radio-théatre Tunis

Certo singolare è il contrasto con il cielo azzurro che la rappresentava agli occhi degli occidentali distratti. E intanto, fuori dalla finzione scenica, una vita prende se stessa, quella di Mohamed Bouazizi, giovane venditore ambulante senza licenza, il cui gesto risveglia le coscienze, a partire dai luoghi più remoti, fino a investire i centri cittadini.

Jaïbi esorta a rendere omaggio a tutti, ai disoccupati, ai blogger e anche ai liberi pensatori che non si sono piegati, a tutti coloro che a un certo punto hanno opposto un fiero no al potere di Ben Ali, anche a costo della vita.

Insieme a Jalila Baccar, Jaïbi è fondatore, negli anni Settanta, del Nouveau Théatre de Tunis, e con orgoglio ricorda che la sua è stata la prima compagnia teatrale indipendente in un Paese che oggi ne conta ben 250. L’11 gennaio era insieme ad altri artisti radunati davanti al teatro municipale di Tunisi e ha assistito agli atti di brutalità delle forze di polizia intervenute per reprimere i dimostranti. Spintonato lui stesso, è stato interpellato all’indomani della manifestazione dal Ministro della Cultura, con cui un tempo aveva condiviso percorsi, perché il Capo dello Stato voleva porgergli le sue scuse. ‘Le scuse il capo dello Stato le deve alla nazione. Ma è troppo tardi”, aveva commentato. ‘Non è tardi. Tutto cambierà’, la surreale promessa che lo aveva fatto temere per la rivoluzione e che sarebbe poi confluita nel discorso di Ben Ali il 13 gennaio. Ma il 14 gennaio, tutti, donne, uomini, giovani e meno giovani hanno fatto la loro parte.

A seguire, il confronto con il disagio del mondo giovanile, prima quello dei graffitari e della cultura hip hop di Alessandria d’Egitto, che il giovane talento egiziano Ahmad Abdalla ha rappresentato nel suo Microphone, e poi quello del rapper tunisino MC Madou, impegnato venerdì sera in concerto per ‘Canti della Rivoluzione Tunisina’, trasmesso in diretta da Patchanka (Radio Popolare). L’egiziano Abdalla, interpellato su quanto fosse cosciente, al momento della produzione, del radicale cambiamento in atto nel suo Paese, risponde che non si aspettava nulla del genere e tuttavia ritiene che sia stata la cultura giovanile a rendere possibile la rivoluzione. Il nuovo clima – dice – si è poi respirato nel grande desiderio di votare espresso dalla gente di tutte le età [code senza precedenti il 19 marzo in occasione del referendum costituzionale che si è tenuto in Egitto]. Il giovanissimo Madouc, che invece in Tunisia ha conosciuto l’arresto per le parole di un suo album contro il sistema, si è dichiarato ancora traumatizzato per la rapidità con cui è cambiato lo scenario, e tuttora non si capacita di essere a Milano a raccontarsi.

Paesi vicini, generazioni contigue in Paesi diversi, generazioni diverse nello stesso Paese. Tutti chiamati a riflettere intorno a un’idea che si è fatta realtà, la rivoluzione, che insieme esalta e spaventa.

Ed è qualcosa che somiglia allo spavento  a emergere invece nelle impressioni registrate dall’algerino Mounès Khammar (in gara con il suo primo corto, Le Dernier Passage, 2010). Non scende nel merito del film, ma riporta quello che sente parlando con la gente comune del suo Paese. La storia algerina ha peculiarità che non si possono ignorare. Anche l’Algeria ha avuto i suoi moti popolari nel 1984, seguiti da un periodo di  libertà di espressione e poi da dieci lunghi anni di terrorismo. Non una guerra civile. Vero terrorismo armato contro la società civile, che ha visto il Paese isolato, tanto sul fronte occidentale, quanto su quello arabo. Molti di coloro che tentano oggi di analizzare il caso dell’Algeria – osserva – giustificano l’assenza di sollevazione popolare con la massiccia presenza di forze di polizia. Ma azioni del genere, come hanno dimostrato altri Paesi, secondo Khammar non possono essere soffocate sul nascere. Per gran parte degli algerini, invece, è come se il passato fosse ancora presente, ed è questo a renderli poco sentimentali, non la presenza della polizia. Una nota amara, in conclusione, per dire che anche l’Algeria è insorta a suo tempo, ma all’epoca non c’era ancora Facebook. Il connazionale Abdenour Zahzah (vincitore, con il suo cortometraggio Garagouz, del premio SIGNIS, assegnato da The World Catholic Association for Communication) accosta invece la lettura di un’Algeria dominata ancora dalla generazione rivoluzionaria degli anni Cinquanta. Venerata per aver sconfitto il colonialismo, si sarebbe mangiata ben due generazioni.

Chiude il cerchio degli artisti Nouri Bouzid (qui intervistato qualche tempo fa da Jeune Afrique, quando la rivolta non era ancora a tutto campo). La rivoluzione è riuscita – dice – solo perché non si è immischiata l’opposizione politica. Ed è forse un richiamo ai fermenti non esplosi in Algeria, dove sono stati i partiti d’opposizione, insieme ai sindacati e alle associazioni, a diffondere appelli ai giovani perché scendessero in strada. La rivoluzione è riuscita, aggiunge, perché hanno preso la parola gli emarginati. La descrive quindi come un sogno, accompagnato dalla paura che qualcuno venga a riprenderselo. E Bouzid dichiara di temere soprattutto i politici e quel loro manipolare il senso delle cose ignorando i valori estetici.

Spunti utili, magari, per leggere anche la crisi di rappresentanza che affligge più di un Paese nell’evoluto Occidente?

Gli fa eco Fadhel Jaïbi, in conclusione, che nota come la sfiducia nei confronti dei partiti può essere suscitata, sì, dal timor panico di ricalcare il modello dell’Algeria. Ma non sembra scoraggiato. C’è molto lavoro da fare – dice – e si è senz’altro lontani dalla perfezione dell’idea rivoluzionaria, ma un aspetto di grande intensità lo ha colpito in questo passaggio storico. Il ruolo dei corpi. Il modo in cui si esprimono, la postura, lo scontro cui danno vita e, allora, confessa la voglia di raccogliere intorno a sé gente comune, non soltanto gli attori, per interrogare il corpo nello spazio.

Buon lavoro.

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