Voci Globali

Le utopie riciclate (quelle cyber soprattutto) danneggiano l’attivismo sociale

Un lungo (e dotto) intervento sul settimanale The New Yorker illustra una tesi poco popolare, soprattutto tra la folta schiera dei digerati. Il cyber-attivismo servirà a poco o nulla per facilitare il cambiamento sociale — almeno finché non si integri con una struttura già attiva o messa in piedi all’uopo “nel mondo reale”. I social media non possono né potranno attivare trasformazioni concrete nella società: the revolution will not be tweeted.

A sostegno di tale tesi Malcolm Gladwell cita in dettaglio svariati casi del movimento dei diritti civili USA dei primi anni ’60, evidenziando la necessaria fisicità dell’organizzazione e delle azioni intraprese come unica strada che portò al successo. «Se Martin Luther King, Jr., avesse provato a fare un wiki-boicottaggio a Montgomery, sarebbe stato letteralmente schiacciato dalla macchina del potere dei bianchi.»

Al confronto, le bravate raccontate da Clay Shirky sull’attivismo digitale o sul potere del web collettivo appaiono poco più che puerili – e a ragione, perché simili incursioni non fanno altro che auto-replicarsi in maniera orizzontale, difettando dell’ovvia penetrazione verticale che sola può colpire al cuore l’ordine costituito. In sintesi: nel facilitare l’espressione degli attivisti, i social media allontanano la possibilità che tale espressione abbia effetti concreti.

Ne consegue una caratteristica decisamente conservatrice dei social media, cosa che molti continuano però a ignorare, o fingono di farlo: «Non sono un nemico naturale dello status quo». E d’altronde analisi più attente su quella che molti media hanno frettolosamente definito “Twitter Revolution” lo scorso anno in Iran o anche in Moldavia hanno poi rivelato come l’attivismo fosse in realtà ben radicato nelle piazze e nelle menti della gente, non certo online; e lo stesso dicasi per altri esempi in Corea del Sud ribaditi da Shirky nella sua ultima fatica, “Cognitive Surplus”. Pur se usare il Professore della New York University a mo’ di capro espiratorio o definire i suoi testi la bibbia del movimento dei social media diventa controproducente.

Come si evidenzia meglio nella trascrizione del chat pubblico successivo alla pubblicazione dell’articolo, Malcolm Gladwell non vede però tutto nero. L’elezione di Barack Obama è stato un ottimo esempio in cui la «combinazione tra l’attivismo di base e i social media si rivela assai utile». Mentre Twitter e Facebook sono importanti per introdurre certi temi a una vasta fetta di persone e per tenere le fila della conversazione, pur se la loro stessa natura previene approfondimenti o sviluppi davvero significativi. O per firmare petizioni e proclami, guadagnare supporter a certe cause — ma senza dover scendere in strada a manifestare, né esporsi concretamente in prima persona.

È vero: la tecnologia può fare miracoli ma «non può modificare le dinamiche alla base dei “problemi umani”: non rende più facile amare o motivare o sognare o convincere», insiste Gladwell. Che si sia d’accordo o meno, è fuori di dubbio che le odierne “cyber-utopie” ricalcano fin troppo i primi anni della Rete per come la conosciamo, metà anni ’90, quando troppi addetti ai lavori pensavano potesse davvero trasformare il mondo e unificare i digerati oltre confini e leggi nazionali. Un esempio per tutti, la Dichiarazione d’indipendenza del cyberspazio, datata febbraio 1996, in cui John Perry Barlow delineava in 16 brevi paragrafi, lo specifico “contratto sociale” che dava forma a Internet e in base al quale i suoi utenti erano immuni dalle normative giuridiche o dai problemi concreti dei comuni mortali.

Peccato che, appunto, si trattasse di utopie fuori luogo — come hanno rivelato da allora Pechino, Teheran e Il Cairo, con manovre e interventi ripetutamente repressivi, ma anche Parigi e Roma, con le odierne leggi o proposte censorie. Alla faccia di un’impossibile Internet senza frontiere.

Riproporre oggi analoghi sensi unici in stile dead-end — pensare cioè che social network e blogosfera possano davvero scardinare lo status quo, come vorrebbero farci credere l’elite digitale e i colossi del cyber-business, o che iniziative pur stimolanti come Global Voices Online e il relativo progetto Lingua riescano a “far parlare tra loro chi vive in Corea con gli abitanti del Camerun…su idee e temi condivisi”, come suggerisce Ethan Zuckerman — è decisamente troppo. Almeno per i miei gusti 😉

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