Migrazioni, Stati africani fanno resistenza ai rimpatri dall’UE

[Traduzione a cura di Giulia Coladangelo dell’articolo originale di Franzisca Zanker pubblicato su The Conversation]

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Espulsioni, foto di Amir Appel da Flickr con licenza CC

Il rimpatrio forzato dei migranti dall’Unione Europea nei Paesi di origine continua a generare forti tensioni nei Paesi africani e negli Stati membri dell’Unione. Così l’UE – e i singoli Stati membri – hanno tentato a fatica di individuare strade per migliorare la cooperazione in materia di migrazione.

Gli Stati dell’UE vogliono che i Paesi di origine riaccolgano i migranti che non possono vivere legalmente in Europa. Tuttavia, i tassi di rimpatrio in Africa dall’UE sono i più bassi rispetto ad altre regioni del mondo e nell’ultimo decennio sono persino diminuiti: per esempio, tra il 2015 e il 2019 solo il 9% dei senegalesi con ordine di rimpatrio dall’UE è tornato nel proprio Paese. In altre parole, dei 30.650 migranti senegalesi che hanno ricevuto l’ordine di lasciare un Paese europeo tra il 2015 e il 2019, soltanto 2.805 lo hanno fatto.

Il rimpatrio forzato necessita della cooperazione dei Paesi di origine, per esempio attraverso il rilascio di documenti di viaggio o l’autorizzazione per l’atterraggio dei voli.

Sulla base di un mio recente lavoro e di un progetto di ricerca più ampio, ritengo che i rimpatri siano così bassi in parte perché i decisori politici europei ignorano i problemi e gli interessi contrastanti che le parti africane in causa devono affrontare.

Nel mio studio illustro inoltre come gli Stati dell’Africa occidentale oppongano resistenza alla cooperazione sui rimpatri. Le loro strategie vanno dall’ottemperanza riluttante delle espulsioni dei loro cittadini all’inosservanza proattiva.

Le conclusioni da me ottenute consentono di spiegare perché gli attuali partenariati per la migrazione continuino ad avere un impatto limitato sui rimpatri.

L’insuccesso dei partenariati per la migrazione

A eccezione del Ruanda, che ha firmato un accordo non ancora effettivo con il Regno Unito per accogliere i richiedenti asilo, i rimpatri dai Paesi europei sono alquanto malvisti in gran parte dei Paesi africani.

Il quadro di partenariato dell’UE per la migrazione è stato istituito nel giugno 2016 con lo scopo di mobilitare gli strumenti, le risorse e l’influenza dell’UE e degli Stati membri per stabilire una cooperazione con i Paesi partner, con l’obiettivo di “gestire” i flussi migratori. La priorità dichiarata del quadro era ottenere rimpatri rapidi; a tal riguardo, sono stati individuati cinque Paesi prioritari – Etiopia, Mali, Niger, Nigeria e Senegal – con i quali stabilire accordi su misura in tema di migrazione.

Fondamentalmente finora il quadro non è riuscito a ottenere una migliore cooperazione sul tema. Lo stesso vale per il Nuovo patto sulla migrazione e l’asilo, del 2020, e per il codice dei visti revisionato, che prevede restrizioni sui visti per i Paesi che non cooperano adeguatamente sui rimpatri.

Come anticipato, i rimpatri forzati, soprattutto verso l’Africa occidentale, restano esigui.

Le ragioni sono molteplici. In primo luogo, le espulsioni spesso sono eventi violenti e traumatici per le persone rimpatriate e comportano gravi violazioni dei diritti umani. Per esempio, di recente un gruppo senegalese per i diritti dei migranti ha documentato il caso di un uomo espulso da un istituto psichiatrico a porte chiuse in Germania senza farmaci, cartelle cliniche, telefono e altri effetti personali, abbandonato a se stesso al suo arrivo. I Governi che vogliono prendersi cura dei propri cittadini in genere evitano questo tipo di situazioni.

In secondo luogo, i rimpatri possono avvenire a scapito di rimesse importanti (spesso superiori agli aiuti allo sviluppo). Per esempio, la Nigeria è il principale beneficiario di rimesse nette dell’Africa subsahariana. Nel 2017, il Paese ha ricevuto 22 miliardi di dollari di rimesse ufficiali, pari al 5,9% del PIL nigeriano. In confronto, l’assistenza ufficiale allo sviluppo è stata di 3,36 miliardi di dollari, solo lo 0,89% del PIL. Quindi i Paesi prevedono che i rimpatri potrebbero ridurre le rimesse, mentre invece reintegrare gli espulsi comporta costi sociali ed economici.

In terzo luogo, i Paesi lamentano di ricevere un cattivo trattamento dalle controparti europee. I percorsi migratori legali sono limitati e l’approccio dell’UE è diventato sempre più punitivo. I requisiti per ottenere il visto sono più rigidi per Paesi come il Gambia o il Senegal che si ritiene non collaborino in modo adeguato sui rimpatri.

Le risposte dei Governi alle pressioni dell’UE sui rimpatri sono varie.

L’attivista Idil Gökber protesta contro il rimpatrio forzato dei migranti dalla Grecia in Turchia il 4 aprile 2016. Foto di Mark Lowen da Wikimedia Commons in CC

Risposte diverse

La ricerca ha preso in considerazione gli interessi dei Governi di Nigeria, Senegal e Gambia. Si è basata su 129 interviste a policy maker, politici, attivisti della società civile ed esperti del mondo accademico dell’UE e di questi Paesi.

Le risposte dei Paesi vanno dall’osservanza riluttante all’inosservanza reattiva e proattiva. Utilizzano queste strategie in momenti diversi, talvolta contemporaneamente. Le risposte sono influenzate dalle pressioni spesso contrastanti che i Governi affrontano sul fronte interno ed estero.

L’osservanza riluttante si verifica quando i Paesi ottemperano alle espulsioni mostrando una certa resistenza. Per esempio, gli accordi di rimpatrio informali prevedono che la conformità al patto venga comunicata ai partner internazionali, ma attirano meno l’attenzione dell’opinione pubblica o degli organi parlamentari di controllo. Tuttavia, questa strategia può rivelarsi controproducente e causare sfiducia e indignazione da parte dei cittadini.

L’inosservanza reattiva comprende il ricorso a problemi tecnici e il ritardo nelle operazioni di rimpatrio. È possibile che gli Stati non riescano a verificare se i migranti siano cittadini propri oppure che non riescano a rilasciare i documenti di viaggio dei migranti in attesa di espulsione. Questa può essere una strategia meno gravosa rispetto al rifiuto assoluto di espulsione, pur incrementando l’approvazione interna.

L’inosservanza proattiva è la risposta più estrema, che si verifica quando gli Stati esprimono un rifiuto di cooperare sui rimpatri più diretto, per esempio temporeggiando sui negoziati per un accordo formale di rimpatrio. Il Senegal e la Nigeria hanno intrapreso questa strada. Il Gambia ha persino attuato una moratoria su tutti i voli di espulsione (privati) per alcuni mesi.

Attraverso l’osservanza proattiva i Governi hanno maggiori possibilità di migliorare la propria legittimità interna, soprattutto durante le elezioni, ma questo anche a scapito del sostegno internazionale. Nel caso del Gambia, per esempio, l’UE ha imposto sanzioni sui visti.

Soluzione

Gli attori dell’UE dovrebbero prendere maggiormente in considerazione gli interessi dei Paesi africani nell’accettare i rimpatriati.

Aumentare la pressione porterà a una maggiore resistenza. Al contrario, l’UE dovrebbe concentrarsi sul miglioramento delle relazioni, per esempio offrendo percorsi migratori accessibili, chiari e credibili. Fare pressione sui rimpatri non funzionerà e non migliorerà le relazioni nel lungo periodo.

[Voci Globali non è responsabile delle opinioni contenute negli articoli tradotti]

Giulia Coladangelo

Molisana, ha una laurea magistrale in Traduzione e una passione intensa per la comunicazione interlinguistica e interculturale, a cui dedica le sue attività di volontariato e lavoro. Si interessa di antropologia, diritti umani e giustizia sociale.

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