20 Aprile 2024

Confini e frontiere rimangono espressione della violenza coloniale

[Traduzione a cura di Gaia Resta dell’articolo originale di Laura Basu pubblicato su openDemocracy]

Manifestazione a Downing Street contro il Nationality and Borders Bill
Manifestazione a Downing Street contro il Nationality and Borders Bill il 19 dicembre 2021, foto di Steve Eason da Flickr in CC BY-NC 2.0

Quando due anni fa appresi che Shamima Begum sarebbe stata privata dalla cittadinanza britannica, mi sentii gelare. Era nata e cresciuta nella zona est di Londra, proprio come me. Mia mamma cercò di consolarmi: “Begum è scappata per unirsi all’ISIS, è un caso particolare”.

Ma non era quello il punto. Fin da quando io e mio fratello eravamo piccoli, i nostri genitori ci avevano inculcato il concetto che eravamo “britannici” come tutti gli altri, che avevamo lo stesso diritto di sentirci parte di questo popolo perché eravamo nati in Gran Bretagna. Due anni fa, invece, ho capito che non era vero. Ho capito che se era successo a Begum, poteva succedere anche a me.

La nuova legge sulla nazionalità e i confini, il Nationality and Borders Bill, se passerà senza emendamenti [la legge è stata approvata il 28 aprile, NdT] consentirà allo Stato di privare le persone della cittadinanza britannica senza preavviso. Questo riguarda potenzialmente il 41% della popolazione dell’Inghilterra e del Galles appartenente a minoranze etniche, rispetto al 5% dei cittadini bianchi.

Inoltre, la legge permette il trasferimento dei richiedenti asilo presso altri Paesi; a questo riguardo è stato recentemente annunciato un accordo da 120 milioni di sterline con il Ruanda. Arrivare in Gran Bretagna illegalmente sarà d’ora in poi considerato un reato penale, la Guardia Costiera dovrà respingere le imbarcazioni che attraversino la Manica e verrà ampliato l’uso dei “centri di accoglienza” come Napier Barracks.

In molti sono giustamente sconvolti dall’accordo con il Ruanda, che l’arcivescovo di Canterbury ha definito “sacrilego”. Circa 160 tra organizzazioni di beneficenza e gruppi di informazione lo hanno descritto come “vergognosamente crudele”. Da un sondaggio rapido è risultato che gli elettori sono contrari al progetto. Il presidente della Law Society of England and Wales [associazione professionale che rappresenta gli avvocati d’Inghilterra e Galles, NdT] ne ha messo in dubbio la conformità al diritto internazionale.

Certamente questa legge, e questo Governo, sono radicalmente violenti. Ma tutti i confini lo sono, è il loro scopo. Le frontiere rappresentano il cuore di un’economia politica che affonda le sue radici nel colonialismo. E l’esternalizzazione del controllo dei confini, con tutte le sofferenze e la morte che comporta, è un tratto caratteristico del capitalismo mondiale odierno.

Il gioco delle sedie ai confini

Nell’anno in cui sono nata, il 1981, il British Nationality Act segnò il culmine di una serie di riforme sull’immigrazione che definivano l’identità britannica come nazionale e non imperiale. Coloro che erano stati fino a quel momento sudditi dell’impero, si ritrovarono sempre più frequentemente a vedersi negata la cittadinanza britannica, e quindi la possibilità che ne derivava di avere la propria parte del bottino dell’impero.

Soltanto i nati in Gran Bretagna o con un genitore nato lì avevano il diritto di entrare o rimanere nel Paese. Ignorando il 90% del mondo che aveva invaso, la “Gran Bretagna” cominciò a essere considerata come la piccola isola la cui popolazione era per il 98% bianca.

La Gran Bretagna ha le sue fondamenta sul colonialismo. In seguito alle lotte per l’indipendenza in Asia e Africa, il Paese ridisegnò le sue frontiere nell’ambito di un processo di decolonizzazione. Ma, allo stesso tempo, si trattò di un grande gesto neo-colonialista. Come afferma la giurista Nadine El-Enany, i confini della Gran Bretagna servono a negare il debito coloniale del Paese e a tagliare fuori i creditori in modo che non abbiano la loro giusta fetta del bottino nazionale.

Tuttavia, i confini non sono immutabili. Possono estendersi, e ne è la prova l’accordo con il Ruanda, tramite il quale la Gran Bretagna sposta parte dei suoi confini 6.437 chilometri a Sud-Est. E possono anche ritirarsi verso l’interno, come è accaduto con la strategia per la creazione di un “ambiente ostile”, che ha trasformato proprietari di appartamenti, insegnanti e medici in agenti di frontiera. In caso di un sospetto di “irregolarità” (per esempio per via di uno “strano colore della pelle”), sono i confini che possono restringersi intorno alla persona.

La Gran Bretagna non è l’unico Paese a fare il gioco delle sedie con i suoi confini. Vicino a dove vivo io, nel villaggio di Millingen sul Reno, una mucca solitaria mangiucchia un filo d’erba mentre soffia un venticello primaverile. Le sue zampe anteriori poggiano su suolo tedesco mentre quelle posteriori si trovano nei Paesi Bassi. Non c’è alcuna polizia di frontiera. Non ci sono recinzioni. Né pistole. Alcune centinaia di chilometri più a Sud, l’Unione Europea ha speso miliardi di euro per erigere muri e trasformare il Mediterraneo in una fossa comune marina.

Come Harsha Walia ha documentato nel suo libro Border and Rule, tra il 2000 e il 2017, 33.761 persone sono morte o sono scomparse mentre cercavano di attraversare il Mediterraneo. Nel 2018 e nel 2019 sono state 4.184, sei al giorno. Il 90% di loro provenivano da Afghanistan, Bangladesh, Eritrea, Iraq, Nigeria, Pakistan, Somalia, Sudan, Siria e Gambia. Tutte ex colonie europee. Per ogni persona che perde la vita nel Mediterraneo, altre due muoiono nel deserto del Sahara nel tentativo di attraversarlo.

Questo è solo l’inizio. La Commissione Europea insiste perché la maggior parte degli accordi di sviluppo, commercio e aiuto con Paesi mediorientali e africani includa delle clausole sull’esternalizzazione del controllo della migrazione. I commentatori hanno fatto notare che il Ruanda è stato accusato – proprio dal Governo britannico – di esecuzioni extragiudiziali, sparizioni e tortura.

Nel 2016, l’UE firmò un patto con la Turchia che limitava gli spostamenti dei siriani. L’accordo mise 6 miliardi di euro nelle mani del presidente Recep Tayyip Erdoğan, il cui Governo si era macchiato di crimini di guerra contro i curdi in Siria e dell’arresto di 160.000 dissidenti sottoposti a waterboarding ed elettroshock.

L’UE ha firmato accordi anche con la Libia, in cui oltre mezzo milione di migranti e rifugiati ha vissuto il sovraffollamento, la fame, l’elettroshock, la tortura, lo stupro, il lavoro forzato e le uccisioni. Lo stesso è accaduto con l’ex dittatore del Sudan, Omar al-Bashir. L’esternalizzazione dei confini, l’affidare ad altri Paesi il controllo delle frontiere, è diventata una merce di scambio primaria di tipo geopolitico.

Essere come uno sciame

Gli europeisti portano avanti una narrazione sull’UE fatta di pace e cosmopolitismo, secondo la quale dopo la Seconda guerra mondiale le potenze europee volevano assicurarsi che un conflitto di quella portata non potesse mai più ripetersi e quindi crearono un’unione economica e politica. Ma, proprio come la Gran Bretagna, l’Unione Europea era un progetto coloniale.

La Comunità Economica Europea, precorritrice dell’Unione Europea, fu fondata nel marzo 1957, lo stesso mese in cui il Ghana dichiarò l’indipendenza. Gli Stati europei, consapevoli della perdita di potere sullo scacchiere internazionale, trovarono il modo di mantenere il controllo sul continente africano tramite il progetto Eurafrica.

Nel 1952, il presidente del Comitato economico europeo dichiarò: “Inoltre, se un’Europa libera dev’essere resa possibile, dobbiamo sfruttare insieme le ricchezze del continente africano, e cercare di trovare le materie prime che al momento ci arrivano dalla zona dollaro e che non siamo in grado di pagare”. Con le parole dello storico francese Yves Montarsolo, “Ogni volta che è nata una nuova istituzione ‘europea’, l’Africa era al centro di tutti gli interessi”.

La sociologa Gurminder Bhambra sostiene che l’Europa non è mai stato un insieme di Stati nazione, ma un gruppo di Stati imperiali proprio come lo era la Gran Bretagna. Con la Pace di Vestfalia del 1648, gli Stati europei si riconobbero l’un l’altro come sovrani, escludendo tutti gli altri territori e gli altri popoli. A dispetto della decolonizzazione, le ex potenze coloniali dell’Europa occidentale decisero di cambiare nome e chiamarsi “Stati nazione”.

In quel modo, riuscirono a “dimenticare” altri popoli e altre terre continuando allo stesso tempo a pianificare lo sfruttamento delle loro risorse. Come nel caso della Gran Bretagna, i confini eretti dal nuovo progetto europeo costituivano in realtà atti di ricolonizzazione, che impedivano a coloro che avevano costruito l’Europa di accedere alla sua ricchezza.

Per quanto sia un fatto agghiacciante, mi sbagliavo quando obiettavo la non attribuzione della cittadinanza per diritto di nascita. In realtà avrei dovuto obiettare il concetto di confine. I confini sono il punto cruciale di un sistema economico imperialista per natura. Ormai irreparabilmente in frantumi, questo sistema è disperato come il Governo di Boris Johnson, e i suoi confini sono impazziti.

Perché dovrei avere più diritti sulla ricchezza della Gran Bretagna di chiunque altro nato al di fuori delle sue frontiere? Gli africani e gli asiatici hanno costruito l’Europa e continuano a farlo tuttoggi. La Gran Bretagna estende i suoi tentacoli in tutto il mondo e non è una piccola isola: è dappertutto. Siamo tutti britannici, riprendiamoci ciò che è nostro.

Gaia Resta

Traduttrice, editor e sottotitolista dall'inglese e dallo spagnolo in ambito culturale, in particolare il cinema e il teatro. L'interesse per un'analisi critica dell'attualità e per i diritti umani l'ha avvicinata al giornalismo di approfondimento e partecipativo.

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