23 Novembre 2024

Storie, voci e volti per raccontare il Kurdistan che resiste

Il Rojava è il luogo dove il veterinario è il medico primario, dove la donna anziana con famiglia e figlie è giudice nei tribunali popolari, dove una casalinga è comandante dell’YPJ, dove una giovane donna diventa coordinatrice accademica. Insomma, è il luogo dove ognuno può essere ogni cosa. Il Rojava è il luogo che rende gli eroi persone qualunque, e le persone qualunque eroi.

Con queste parole la scrittrice turca Arzur Demir, che oggi rischia 14 anni di carcere, descrive lo spirito che anima quella fetta di territorio curdo in Siria. Il Kurdistan, infatti, non è riconosciuto come uno Stato a livello internazionale, ma è un territorio diviso tra Turchia, Iraq, Iran e Siria e proprio lì, quando è scoppiata la guerra civile, la popolazione ha scelto di non schierarsi né dalla parte di Assad né dalla parte dell’Esercito siriano libero, dando vita ad un esperimento di Governo democratico unico nel suo genere fondato sull’autogestione, sulla convivenza solidale e sull’autodeterminazione delle donne.

Non ha avuto vita facile, in questi anni, il popolo curdo che, per ragioni geografiche, rappresenta la prima linea contro l’avanzamento dell’ISIS. Con coraggio e determinazione, combattono contro i miliziani dello Stato Islamico e sono state proprio le forze dell’YPG ad ottenere alcune vittorie significative: in Siria hanno respinto l’attacco contro Kobane e hanno riconquistato buona parte del Nord del Paese, impedendo parte dei contatti tra l’ISIS e la Turchia; in Iraq, i Peshmerga, i combattenti curdo-iracheni, hanno riconquistato l’area del Sinjar e colpito la principale arteria stradale che veniva utilizzata per comunicare con la Siria.

Fonte: Binxet, sotto il confine/Luigi D’Alfria

Quello che accade oggi a ridosso del confine turco-siriano è ancora più complesso. Il processo di pace tra Ankara e il PKK, il braccio armato dei curdi turchi, è stato interrotto nell’agosto 2015. Da allora, nella parte controllata dal Governo di Erdogan, più di 60 volte è stato dichiarato un coprifuoco, almeno 1000 persone sono morte e decine di migliaia di persone sono state costrette a lasciare le proprie case.

Non è una novità che la Turchia impieghi la guerra contro l’ISIS per colpire anche i curdi, mentre i Paesi occidentali sembrano far finta di nulla. Nel 2013, infatti, Erdogan ha iniziato a costruire un muro di cemento, alto tre metri e costantemente presidiato dall’esercito lungo tutto il confine, divenuto sempre più difficile e pericoloso da oltrepassare. Per capire cosa accade oltre il muro e conoscere chi sta combattendo in prima linea la battaglia globale contro il terrorismo, molti reporter hanno scelto come medium il documentario poiché consente di aprire delle finestre su un mondo lontano, ma che ci riguarda direttamente. Così possiamo vedere con i nostri occhi quello che accade a Kobane, Sinjar, Qamishlo e tutte le altre città, ascoltare direttamente le storie di chi ha perso amici e familiari, di chi non si tira indietro e di chi resiste.

“Mi chiamo Kurdistan” di Lorenzo Giroffi (2014)

 

Dalle montagne del Nord dell’Iraq, roccaforte dei Peshmerga, alle strade di Diyarbakır, capitale del Kurdistan turco si snoda il viaggio di “Mi chiamo Kurdistan“, che raccoglie le impressioni, le visioni politiche, la solidarietà che caratterizzano un popolo costantemente in bilico tra l’autodeterminazione e la repressione. Giroffi si sofferma a Nusaybin/Qamishlo, una delle città spaccate in due dal muro di Erdogan e dalla frontiera tracciata dall’antica ferrovia Berlino-Baghdad. Lì, in uno scenario in cui sono presenti parimenti la guerra di Damasco e le intimidazioni di Ankara, prevale la solidarietà tra cittadini di Paesi diversi ma che sentono di appartenere allo stesso popolo. Persone che parlano la stessa lingua nonostante i tentativi, da entrambe le parti, di reprimerla, proibendone l’impiego pubblico o l’insegnamento. Assad, prima della guerra, in alcuni casi non riconosceva nemmeno carta di identità e servizio sanitario e scolastico per i curdi del Rojava.

“Mi chiamo Kurdistan” cerca di descrivere i pezzi che compongono questa entità che aggrega 40 milioni di persone in quattro Stati, ciascuno con le sue difficoltà e criticità, ciascuno accomunato da lingua, cultura e uno spirito di resistenza alle vessazioni subite in secoli di storia.

“The girl who saved my life” di Hogir Hirori (2015)

The girls who saved my life documentario
Fonte: The girl who saved my life Official website

L’anima del popolo curdo è ben rappresentata anche da “The girl who saved my life” dove la storia personale del regista, originario del Kurdistan iracheno e rifugiato in Svezia, si intreccia con l’esodo contemporaneo dalle sue stesse terre d’origine, terra di scorribande e conquiste dell’ISIS tra il 2014 e il 2015. Dalle persecuzioni contro i curdi di Saddam Hussein degli anni Novanta ad oggi cambiano i metodi, ma non la crudeltà rivolta ad un popolo senza riconoscimento. Passano gli anni, certo, ma per Hogir (che significa “amico” in lingua curda) Hirori non cambiano le sensazioni che si provano, così come immutate sono le vicende personali di chi si incontra per la strada.

Proprio in questo contesto, il regista incontra Souad,the girl who saved my live“, che pone un dilemma che è primariamente etico: aiutare chi è in difficoltà o rincorrere la notizia, scegliere l’umanità o l’egoismo. Il documentario si snoda in un continuo viaggio tra la Svezia e il Kurdistan alla ricerca di una risposta, un percorso che ci restituisce un racconto corale, un mosaico colorato e variegato di cosa significa, oggi, essere curdo. “Sarebbe stato più facile morire”, sospira una profuga in fuga da Sinjar, ma alla fine a prevalere è lo spirito mai sopito di questa popolazione che non smette mai di lottare per la propria identità e indipendenza. Spicca, dunque, la figura di Khalid, un contadino che dopo aver messo in salvo la sua famiglia, ritroviamo sulle montagne, a combattere in prima linea l’invasore islamista.

“Girls at war” di Mylene Sauloy (2016)

Girls at war film kurdistan donne
Un’immagine di “Girls at war”, fonte: Terra di Tutti Film Festival

Proprio tra le montagne e tra i combattenti curdi ci conduce Mylene Sauloy con il suo “Girls at war“, presentato in Italia al Terra di Tutti Film Festival. Il racconto, in questo caso, è interamente dedicato alle donne, protagoniste della resistenza curda contro l’ISIS, sulla linea del fronte insieme ai compagni uomini, senza alcuna differenza. Se il territorio a Nord della Siria e parte del Kurdistan iracheno oggi sono liberi è anche grazie a loro, alle guerrigliere dell’YPG, l’Unità di protezione delle donne.

Partendo dalla vicenda di Sakine Cansız, fondatrice del PKK, simbolo della resistenza femminista, assassinata a Parigi il 9 gennaio 2013, “Girls at war” racconta l’addestramento e la formazione, politica e culturale, delle guerrigliere nelle montagne del Qandil.

Per la regista quello che sta accadendo in questi anni in Kurdistan rappresenta “l’alba della libertà delle donne“. La rivoluzione del Rojava, in questo senso, viene vista come modello e simbolo della strada da percorrere per raggiungere una libertà “democratica, ecologica e di genere” che sappia valicare i confini di questa terra dove il confine, appunto, viene percepito come una barriera artificiale e nulla di più.

“Binxet. Sotto il confine” di Luigi D’Alife (2017)

Un’immagine del documentario “Binxet. Sotto il confine”

Proprio lungo i 911 km del confine turco-siriano si dipana la ricostruzione e la narrazione dell’identità curda di Luigi D’Alife che si affida alla voce di Elio Germanoattore già premiato al festival di Cannes e alla mostra del cinema di Venezia, per dare voce alle vite spezzate degli abitanti della zona che, fino al 2016 combattevano contro l’ISIS e oggi si scontrano con la violenza dell’esercito turco. Città, famiglie, campi spezzati a metà da un muro di cemento e una frontiera che, per i curdi, non solo è chiusa, ma rappresenta un vero e proprio pericolo. Proprio a due passi dal confine ha perso la vita Besir, 10 anni, colpito al collo da un cecchino turco. E come lui tanti altri, “colpevoli” di essersi avvicinati alla Turchia, chi per esprimere solidarietà ai compagni curdi assediati dall’esercito di Erdogan, chi per fuggire dalla guerra siriana. 

Binxet” significa “sotto il confine” ed è un’altra maniera per definire il Rojava, diviso dal Bakur (l’area curda in Turchia) dal disegno di quella vecchia ferrovia costruita dai tedeschi nel 1921 e che, con il peso della legge, divide ciò che, naturalmente e culturalmente, sarebbe unito e legato. Una terra a suo modo rigogliosa dove vivere è come destreggiarsi quotidianamente in un campo minato fatto di spari contro chi si avvicina al muro, di deportazioni verso le regioni della Siria centrale per “arabizzare” l’area, di punti panoramici dai quali si può testimoniare l’utilizzo di armi chimiche, fosforo bianco nello specifico, sui villaggi curdi in Turchia. È una terra che porta i segni del passaggio dell’ISIS, i vestiti abbandonati, gli edifici distrutti e il ricordo, vivido, di come quello stesso confine fosse aperto per i militanti in arrivo dalla Turchia, principale porta per i foreign fighters che scelgono di unirsi allo Stato Islamico.

Come trovano i curdi in questo contesto di instabilità, violenza e vessazioni, la spinta a resistere? Non ha dubbi Xamat, attivista del movimento giovanile del Rojava e tra i promotori della campagna “Ez Nacim” che significa “io non vado via”: “Voglio la libertà e voglio la libertà nella mia terra. E qui la libertà esiste.” 

Angela Caporale

Giornalista freelance. Credere nei diritti umani, per me, significa dare voce a chi, per mille motivi, è silente. Sogno di scoprire e fotografare ogni angolo del Medio Oriente. Nel frattempo, scrivo per diverse testate, sono nata su The Bottom Up.

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