21 Novembre 2024

Donne, Iran e Primavera araba tra analogie e differenze

[Nota: traduzione a cura di Emanuela Ciaramella e Davide Galati dall’articolo originale di Haideh Moghissi.

Non è difficile provare coinvolgimento per quell’insieme di rivoluzioni popolari che vanno sotto il nome di “Primavera Araba”. La rapida svolta a favore dei partiti islamisti in Egitto e in Tunisia, sebbene non inattesa, è diventata però un motivo di preoccupazione. Le donne iraniane che a suo tempo hanno vissuto l’insediamento del regime islamista vedono ciò che sta accadendo in Tunisia e in Egitto come qualcosa di dolorosamente familiare.
Esprimendo preoccupazione per i regimi emergenti nei Paesi arabi, nel marzo 2012 il premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi ha invitato le donne arabe a riflettere sulla storia dell’Iran.
Abbiamo compreso molto chiaramente il significato nascosto della dichiarazione del presidente Morsi dopo la sua vittoria elettorale – ovvero che il successo dei Fratelli Musulmani non riflette altro che una seconda conquista dell’Egitto da parte dell’Islam.

Manifestazioni al Cairo per le riforme e la giustizia. Demotix / Nameer Galal.

Gli sviluppi che si sono susseguiti nella regione sono tali da giustificare diverse perplessità. Basti pensare ai tentativi di ridefinire i diritti delle donne e il loro status all’interno delle nuove Costituzioni e il regresso delle riforme relative al diritto di famiglia acquisite nei decenni precedenti, nonché l’utilizzo di tattiche intimidatorie per spingere le donne fuori dallo spazio della discussione pubblica sulle sfide future che le medesime dovranno affrontare nelle nazioni arabe post-rivoluzionarie.

Nonostante tutto ciò, nessuno può prevedere in che direzioni si svilupperanno effettivamente le rivolte arabe nel prossimo futuro. Tenendo però conto di una serie di considerazioni, tra cui le lezioni apprese dalla rivoluzione iraniana ma anche le differenze riguardanti le condizioni e i principali attori coinvolti nel contesto arabo rispetto a quello iraniano, è possibile – e ci sono motivi di speranza – che le rivoluzioni in corso, in particolare in Tunisia e in Egitto, producano risultati più favorevoli per le forze democratiche che hanno sostenuto il processo di cambiamento.

Per cominciare, le rivoluzioni che hanno portato allo smantellamento dei precedenti regimi sono state interrotte per la consulenza e l’assistenza attiva da parte di potenze straniere. In questo senso, l’uscita anticipata di Ben Ali e Mubarak hanno avuto lo scopo di prevenire la disgregazione dell’intero sistema e mantenere intatte le forze militari e di sicurezza, diversamente invece da quanto accaduto in Iran.
I Fratelli Musulmani e al-Nahda sono riusciti a vincere le elezioni e ora controllano sia il Parlamento che – nel caso dell’Egitto – la Presidenza. Tuttavia, dato che l’intero sistema non è crollato, hanno dovuto riconoscere l’esistenza non solo di diverse forze d’opposizione con una certa influenza ma, tra le altre cose, anche l’annullamento da parte del Tribunale amministrativo delle elezioni politiche programmate per il 22 aprile con decreto presidenziale. Questo non è stato il caso dell’Iran, dove invece molti membri appartenenti all’élite economica del Paese, ma anche generali e burocrati di vario rango, hanno dovuto lasciare l’Iran prima che il destino dello Scià fosse deciso.
La presenza di differenti forze nel nuovo contesto politico rappresenta una buona occasione per i movimenti democratici laici, compresa la sinistra, di ricompattarsi e riorganizzarsi – una possibilità negata in Iran, considerato che le moschee erano l’unico spazio disponibile ove potesse concentrarsi la protesta, aiutando così la crescita dei partiti islamisti.

Meritano particolare attenzione altre due importanti differenze tra l’esperienza dell’Iran e quella delle attuali transizioni.
In primo luogo, sia la Tunisia che l’Egitto non hanno vissuto gli episodi sanguinosi che hanno caratterizzato invece l’esperienza post-rivoluzionaria in Iran. Un Paese che ha visto l’assassinio di centinaia di figure del vecchio regime, generali dell’esercito, ministri, parlamentari, alti burocrati e ufficiali dell’esercito e delle forze dell’ordine di rango più basso, nelle settimane e nei mesi successivi alla rivoluzione.
Questa macelleria ha generato una rabbia prolungata nella popolazione, soprattutto per chi era vicino alle vittime, ma anche per chi semplicemente sperava in processi equi e aperti. Gli omicidi spietati sono continuati anche dopo la guerra tra Iran ed Iraq. Anche poco prima della sua morte, Khomeini ordinò il massacro di diverse migliaia di prigionieri politici, seguiti da rapimenti e uccisioni note come “omicidi a catena” di figure di spicco all’interno e all’esterno dell’Iran.

Le conseguenze della brutalità del regime sono state molteplici. Hanno reso le persone insensibili alla violenza – un fattore che ha influenzato profondamente la società iraniana e adesso è uno dei principali problemi sociali e fonte di paura per i cittadini. La violenza di Stato e i sistematici spargimenti di sangue hanno demoralizzato e spaventato coloro che avevano partecipato con entusiasmo alle manifestazioni di piazza prima della rivoluzione, e che sono rimasti delusi dai risultati ma anche spaventati, paralizzati dalla brutalità del nuovo regime.

Un secondo fattore importante è costituito dal fatto che, contrariamente al caso dell’Iran, le rivolte nei Paesi arabi non hanno sposato la retorica antioccidentale e antimperialista per mobilitare il sostegno della popolazione. Né, tra le richieste principali dei manifestanti, apparivano la creazione di uno Stato islamico, il ritorno a pratiche islamiche o addirittura alla Shari’a. Ad unire le varie forze che hanno spinto le rivoluzioni sono state le richieste evidentemente laiche che sottolineavano l’imperativo condiviso di sostituzione dei regimi esistenti con uno Stato responsabile e orientato agli interessi della collettività, il quale potesse porre fine alla crisi politica ed economica.

Ne consegue che gli islamisti al governo non sono in grado di manipolare le emozioni religiose della loro popolazione o di etichettare le sfide dell’opposizione in qualità di anti-islamismo con la stessa facilità delle loro controparti in Iran. Non sono peraltro guidati da un leader carismatico quale fu l’ayatollah Khomeini, con un progetto ideologico a disposizione del regime per sostituire la monarchia (evidente nella dottrina del velayat fagih, o supremazia dei giuristi), con un notevole talento nello sfruttare la chiave religiosa per manipolare il sentimento del popolo e farla franca rispetto alle inimmaginabili forme di violenza usate contro l’opposizione. Inoltre, l’ingresso relativamente tardo sia di al-Nahda che dei Fratelli Musulmani nei movimenti di protesta che hanno portato al rovesciamento dei regimi non consente loro alcuna pretesa nei confronti delle altre forze e conseguenti, legittime, rivendicazioni di governo.

Tutti questi fattori dovrebbero aiutare l’opposizione a mantenere la propria concentrazione sulle autentiche questioni che in primo luogo hanno alimentato le rivolte: le dittature militari, l’alto tasso di disoccupazione dei giovani che va dal 50% al 65% del totale della popolazione nei Paesi arabi, i salari bassi, le prevaricazioni della polizia, la sfacciata corruzione nello Stato, e la concentrazione della ricchezza, delle imprese e delle opportunità di lavoro nelle mani di coloro che erano legati ai regimi.

La sinistra e gli intellettuali liberali iraniani che iniziarono le proteste contro lo Scià reclamavano simili istanze. Ma l’incapacità del regime di rispondere loro in maniera efficace e tempestiva, insieme all’ambigua abilità di Khomeini e dei suoi seguaci nel raccogliere il popolo intorno all’idea di una minaccia straniera, riuscirono a distogliere l’attenzione, almeno temporaneamente, dalle originarie esigenze economiche e politiche della rivoluzione. Anche una buona parte della sinistra cominciò peraltro ad articolare un tema secondo cui le questioni sollevate dalle donne erano marginali rispetto agli obiettivi della lotta nazionaliste e antimperialista. Il sostegno di Khomeini all’occupazione dell’ambasciata americana da parte degli studenti islamici ingannò molti, specialmente nella sinistra, sul fatto che il regime fosse “antimperialista”. La guerra Iran-Iraq rese la situazione ancora peggiore, e vennero man mano zittite le voci delle donne contro l’agenda islamista di genere, con la perdita di quei modesti guadagni ottenuti dalle donne sotto lo Scià accompagnata dall’introduzione di nuove schiaccianti restrizioni dello status e della mobilità delle donne.

La risposta dell’ayatollah Khomeini alle centinaia di migliaia di persone condotte alla povertà all’indomani della rivoluzione, le quali credevano alle false promesse degli islamisti come la liberazione dai prestiti bancari, l’elettricità gratuita e l’equa distribuzione dei ricavi dal petrolio, fu che il popolo si era ribellato a favore dell’Islam, non in vista di premi economici. Le sue famose parole – «L’economia è per gli asini, non per i credenti” – indicavano chiaramente ciò con cui si aveva a che fare.

Quali conclusioni si possono trarre da tutto ciò? Ci sono molti segni che rendono certamente evidenti le sfide future per i popoli arabi e in particolare per l’opposizione, di cui le donne sono una parte. Ma osserviamo anche molti altri segni che indicano come i militanti islamisti stiano perdendo la loro presa sul popolo in tutti i Paesi a maggioranza musulmana che hanno assaggiato una dose della loro violenza e dei loro utopici progetti per il ripristino di tradizioni islamiche che hanno poco a che fare con le preoccupazioni reali e i bisogni urgenti dei cittadini. La continua resistenza contro la presa di governo dei partiti islamisti in Tunisia ed Egitto, l’assalto al quartier generale della milizia islamista in Libia a seguito dell’uccisione dell’ambasciatore degli Stati Uniti, le manifestazioni di protesta in Pakistan dopo l’aggressione a Malala Yousufzai e il massacro degli attivisti per la vaccinazione antipolio, le massicce manifestazioni di piazza contro Jama’at Islami in Bangladesh, dicono tutte la stessa cosa: che, se ci sono donne e uomini che sostengono gli islamisti, ci sono però altrettante donne e uomini che si oppongono all’ascesa del marchio islamico nei loro Paesi. E che la maggior parte della gente sente di non avere bisogno dei salafiti o dei talebani, o di propaggini di al-Qaida, per sapere come comportarsi da buoni musulmani.

Manifestazioni per il primo maggio in Tunisia. Flickr/scossargilbert su licenza CC.

Il caso dell’Iran ha certamente reso le comunità della regione consapevoli del fatto che quando si affrontano i temi della libertà, della dignità e della giustizia sociale, lo stato teocratico non è un’alternativa all’autoritarismo pseudo-secolare. E che quando il conservatorismo religioso è combinato con il sessismo, il classismo e la discriminazione religiosa ed etnica, nonché con le politiche economiche neo-liberiste, le battaglie per i diritti democratici e la giustizia sociale diventano ancora più difficili.

La resistenza di intellettuali, lavoratori, giovani e gruppi di donne contro gli islamisti al potere, i militari, le élite finanziarie e le classi possidenti nei Paesi arabi rivoluzionari indica che non è ancora compromessa la prospettiva di un futuro più democratico per i cittadini, e in particolare per le donne, a fronte degli sviluppi avvenuti dopo le rivolte.

In questo momento vediamo la formazione di ampie coalizioni politiche in Egitto e in Tunisia, in Libia e in altri Paesi arabi attraverso l’emergere di individui e partiti politici orientati al cambiamento: la sinistra, i liberali, le minoranze religiose, i giovani, i sindacati e altre componenti organizzate della società civile. A detta di tutti, questi attori sono determinati a proteggere i diritti esistenti e le istituzioni giudiziarie civili, e a spingere per la realizzazione delle rivendicazioni democratiche delle rivolte. A questo proposito, vanno menzionate coalizioni come il Fronte di salvezza nazionale, di ispirazione liberale, e la Coalizione rivoluzionaria democratica a sinistra. L’opposizione egiziana guadagna inoltre terreno contro il velato sostegno degli Stati Uniti alle forze islamiste, volto a mantenere lo status quo in materia economica e gli accordi di pace con Israele, come si è visto nel rifiuto dell’opposizione egiziana di accettare l’invito di John Kerry a un incontro con lui durante la sua visita ufficiale come nuovo Segretario di Stato a fine febbraio.

Gli attivisti per i diritti delle donne in Egitto e Tunisia sembrano aver preso sul serio i preoccupanti segnali della crescente ondata di autoritarismo in veste religiosa. In Egitto stanno cercando di formare un fronte unito contro le aggressioni ideologiche e organizzative degli islamisti, come dimostra la coalizione di trentatre associazioni per i diritti delle donne che si sono riunite intorno a temi che si desiderava fossero inclusi nelle riforme costituzionali, come ad esempio una legge che criminalizzi le molestie sessuali. Questi soggetti consentono uno sviluppo della consapevolezza pubblica rispetto al problema delle molestie sessuali, che vedono anche come una velata ma intenzionale politica degli islamisti al fine di allontanare le donne dagli spazi pubblici.

Vediamo la stessa determinazione in Tunisia. La ‘Coalizione per le donne della Tunisia’, composta da quindici ONG registrate, è stata annunciata nel settembre 2012: tra gli obiettivi, non solo preservare e difendere i diritti acquisiti dalle donne tunisine sin dall’Indipendenza, ma anche rendere una realtà lo status di piena cittadinanza per le donne. Provvedimenti analoghi, anche se su scala minore, sono stati adottati in Libia attraverso l’avvio del Forum delle donne in rappresentanza di otto associazioni per i diritti delle donne, subito dopo i risultati delle elezioni per il Congresso nel 2011, con l’obiettivo di sostenere l’inserimento dei diritti delle donne libiche nella futura Costituzione.

Questi sono sviluppi significativi, e il loro successo avrà un impatto decisivo sulle prospettive politiche della regione, inclusi Siria e Iran. Le esperienze delle donne in Iran nel corso degli ultimi tre decenni ci hanno insegnato non solo quanto siano fragili i diritti legali e sociali acquisiti sotto i regimi autoritari ma anche che le donne sono capaci di affrontare le sfide, di guardare oltre le limitazioni di genere e di rispondere creativamente alle politiche volte espressamente all’addomesticamento e alla concezione maschile della ‘femminilità musulmana.’ In tutto il Medio Oriente e in Nord Africa le donne stanno dunque alzando la loro voce contro gli eccessi degli ideologi e funzionari islamisti, ponendo saldamente al centro di tutta la narrazione politica relativa alla democrazia la questione dei loro diritti e le conseguenti richieste legali e sociali.

Davide Galati

Nato professionalmente nell'ambito finanziario e dedicatosi in passato all'economia internazionale, coltiva oggi la sua apertura al mondo attraverso i media digitali. Continua a credere nell'Economia della conoscenza come via di uscita dalla crisi. Co-fondatore ed editor della testata nonché presidente dell’omonima A.P.S.

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