Tigray, a un anno dall’accordo di Pretoria pace tutt’altro che certa

È trascorso poco più di un anno (2 novembre 2022) dall’accordo che ha messo fine alla guerra del Tigray. Accordo firmato a Pretoria, nella Repubblica Sudafricana. Un conflitto che ha insanguinato il Nord dell’Etiopia per due anni causando un numero imprecisato di vittime. Secondo le stime riportate dal giornale spagnolo El Pais, negli scontri sono morti circa 600.000 civili.

Utente Dr Biofeld, la regione del Tigray in Etiopia, in Licenza CC, da Wikimedia Commons

La guerra era scoppiata il 4 novembre 2020, in seguito a un attacco del braccio armato del TPLF, partito politico al governo in Tigray, a una struttura militare. Alle accuse del Governo centrale, il TPLF replicava che da mesi l’esercito stava ammassando truppe nei soggetti federali confinanti per occupare il Tigray.

Il conflitto ha portato subito ad una polarizzazione mediatica e a un acceso dibattito all’interno della diaspora etiope, ma soprattutto a un’escalation di violenza. A ciò ha contribuito anche la partecipazione, al fianco delle forze governative, dell’esercito eritreo.

Già dai primi giorni di guerra entrambi gli schieramenti si sono macchiati di numerosi massacri, soprattutto nella regione del Tigray Occidentale. In alcune zone lungo il fiume Tekeze, si sono scontrati gruppi appartenenti all’etnia tigrina, maggioritaria in Tigray, e altri appartenenti all’etnia amhara: a Mai Kadra sono stati trucidati circa 600 civili, mentre a Adi Goshu un numero imprecisato di persone è morto per mano di milizie locali dopo la distribuzione di volantini in lingua tigrina che intimavano di abbandonare l’area.

Una situazione che ha creato un alto numero di sfollati interni, esposti ad ulteriori violenze, come conferma Oussama Omrane, operatore umanitario di Medici Senza Frontiere Italia in un’ intervista a Voci Globali:

[Gli sfollati interni] si rifugiavano sia in strutture come le scuole sia in altre case. Nessun luogo è stato risparmiato dai combattimenti e la situazione sanitaria era molto grave: anche strutture sanitarie di alto livello come quelle di Aksum e Adwa hanno subito un tracollo e la situazione era ancora peggiore nelle zone rurali.

Nei tre mesi che ho passato in Tigray ho visto aumentare di molto la malnutrizione, soprattutto nei bambini” riferisce “e spesso giungevano da noi donne stuprate.

In questo contesto abbiamo svolto attività di sensibilizzazione nelle comunità di sfollati interni e formazione tramite i loro comitati. Ci siamo occupati anche della salute materna, del monitoraggio dell’igiene e di una campagna di donazione del sangue.

Gli scontri non hanno risparmiato nemmeno gli ospedali e in alcuni casi le operazioni umanitarie hanno subito dei blocchi:

Alcune volte i militari  bloccavano l’accesso a certe aree: alcune volte lo facevano per impedire l’ingresso nelle zone di combattimento, mentre altre volte ci fermavano anche senza motivo e ci minacciavano” afferma Omrane.

Quasi tutti gli ambulatori sono stati saccheggiati, gli ospedali bruciati, macchie di sangue dappertutto: scene infernali. La popolazione soffriva e giungeva anche da molto lontano alle nostre cliniche mobili per avere assistenza.

Rastakwere, sfollati interni a Shire, Tigray, aprile 2021, in Licenza CC, da Wikimedia Commons

Il conflitto del Tigray affonda le proprie radici nella storia recente dell’Etiopia. Nel secolo scorso infatti vi sono stati molteplici tentativi di uniformare la composita società locale, che consta di 84 etnie: il Governo militare del Derg, al potere dal 1974 al 1987, represse le spinte nazionalistiche dei vari gruppi etnici.

Alla caduta del violento regime di Mengistu, una coalizione formata da partiti con una forte base etnica, l’EPRDF, promulgò una Costituzione democratica che comprendesse un nuovo assetto territoriale per l’Etiopia.

La riorganizzazione prevedeva la creazione di 14 soggetti federali su base nazionale: ogni Stato ha una consistente autonomia dal Governo centrale, per la gestione dei fondi, l’organizzazione delle forze dell’ordine e la scelta della lingua di utilizzo nella vita pubblica.

Secondo la Costituzione, ogni Stato può ottenere la secessione dopo aver conquistato almeno i due terzi dei voti favorevoli presso il Parlamento federale. Inoltre, ogni Stato possiede la designazione di gruppi “indigeni” e “non indigeni”, ovvero etnie che costituiscono la maggioranza in altre regioni: ognuno di questi ha diversi diritti per quanto riguarda la partecipazione alla vita pubblica.

In questo contesto, tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila, nonostante la guerra tra Etiopia ed Eritrea del 1998-2000, molti profughi tigrini prima fuggiti in Sudan o Eritrea hanno fatto ritorno nel Paese. Il cambiamento negli equilibri etnici, la definizione dei nuovi confini federali e la predominanza della componente tigrina dell’EPRDF, il già citato TPLF, cominciata con l’elezione a presidente di Meles Zenawi nel 1991, hanno portato a tensioni tra le varie etnie del Paese.

Rod Weddington, una via ad Aksum, Tigray, in Licenza CC, da Wikimedia Commons

Tensioni che si sono acuite con il conflitto: infatti, secondo Human Rights Watch, in Tigray sarebbero ancora attive delle milizie impegnate in una campagna di pulizia etnica contro i tigrini.

Nonostante l’accordo di Pretoria, la regione rimane in larga parte scollegata dal resto del Paese e in altre parti della nazione c’è il rischio concreto dello scoppio di un altro conflitto.

Le relazioni tra il governo federale e il Tigray si sono stabilizzate e si stanno pian piano normalizzando. La parte di successo dell’accordo è che non c’è stata una ripresa dei combattimenti.” commenta William Davison, analista dell’International Crisis Group, in un’intervista a Voci Globali,  “Ma la pace tra Tigray e federali ha contribuito a tensioni con gli amhara e gli eritrei e per questo serve una soluzione politica. Ovviamente, l’accordo non ha risolto tutti i problemi dell’Etiopia.

Le milizie Fano, appartenenti al gruppo etnico amhara, hanno rifiutato di deporre le armi in seguito all’accordo di Pretoria. Quest’ultimo  infatti prevede, oltre al cessate il fuoco bilaterale, anche il disarmo delle milizie informali e il riconoscimento dell’esercito federale come unica forza armata. Addis Ababa ha risposto con una dura retorica nei loro confronti e il ministero della Difesa ha annunciato ad agosto lo smantellamento dell’amministrazione amhara nella regione di Wolkaite, contesa tra lo Stato di Amhara e il Tigray.

Il governo federale ha da poco annunciato un piano per un referendum perché la popolazione locale decida lo status di questi territori, ma né gli amhara né il governo tigrino sono a favore.” aggiunge Davison,

La coscienza etno-nazionale etiope risale agli anni 60, ma le tensioni etniche sono peggiorate negli ultimi tempi, con la possibilità di una balcanizzazione dell’Etiopia. I tigrini sentono di non esser stati trattati come etiopi durante la guerra e in Oromia ci sono forti movimenti nazionali. Per risolvere le dispute, anche quelle con l’Eritrea, c’è la necessità del dialogo.

Alla complessa situazione interna si aggiungono anche le frizioni tra Etiopia ed Eritrea specialmente nella regione frontaliera di Assab. I porti sul Mar Rosso sono la principale causa del riacuirsi delle tensioni. Uno sbocco sul mare consentirebbe all’economia etiope di crescere: infatti dopo due anni di guerra e tre di siccità il Paese rischia di sprofondare nell’insicurezza alimentare.

Chiara Ercolini

Studentessa di Medicina e Chirurgia, con una passione per le lingue e le culture straniere sbocciata nell'infanzia. Attenta alle problematiche sociali del suo ambiente, immagina il proprio futuro nell'ambito umanitario.

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