1 Maggio 2024

Ecuador, attivisti contro Governo: no allo sfruttamento petrolifero

[Traduzione a cura di Luciana Buttini dell’articolo originale di Cecilia Osorio pubblicato su openDemocracy]

Il progetto Yasuní-ITT durante un incontro con le Nazioni Unite. Immagine ripresa da Flickr/Cancillería del Ecuador in licenza CC
Il progetto Yasuní-ITT durante un incontro con le Nazioni Unite. Immagine ripresa da Flickr/Cancillería del Ecuador in licenza CC

Lo storico voto dell’Ecuador per arrestare lo sfruttamento petrolifero nel Parco Nazionale Yasuní, una delle aree più ricche di biodiversità del pianeta, è a rischio in quanto il Governo ha intenzione di rinnegare il risultato del referendum dello scorso 20 agosto.

Una netta maggioranza della popolazione, quasi il 59%, ha votato “sì a Yasuní”, scegliendo dunque di tutelare la foresta amazzonica in Ecuador dalle trivellazioni di combustibili fossili e di lasciare le riserve petrolifere del Parco per sempre sottoterra. Il risultato è stato un’enorme vittoria per gli attivisti ambientali che sperano di avviare un’economia post-petrolio.

Ma sia il presidente uscente, Guillermo Lasso, sia la favorita al ballottaggio per le presidenziali di ottobre, Luisa González, sembrano pronti a ignorare il risultato del referendum.

In un incontro dello scorso 5 settembre con i delegati delle comunità indigene locali, molti dei quali hanno votato no per timore delle conseguenze economiche dell’interruzione delle trivellazioni, Lasso ha affermato:

Non vogliamo che la produzione del Blocco 43 [un giacimento petrolifero] si fermi. Non vogliamo e non sosterremo né affretteremo alcuna procedura.

A seguito del voto, il Governo ha un anno di tempo per fermare le operazioni nel Blocco 43 o ITT (abbreviazione di Ishpingo, Tambococha e Tiputini, un giacimento petrolifero che copre quasi 2.000 ettari all’interno del Parco. L’area ospita le popolazioni indigene Waorani, Kichwa e Shuar e confina con la terra di altri gruppi incontattati. Alle autorità è inoltre vietato firmare nuovi contratti petroliferi per Yasuní.

Durante l’incontro del 5 settembre, i cui filmati sono trapelati online, il presidente ha affermato che la strategia del Governo per evitare di attuare il risultato del referendum sarà quella di sostenere che è “inapplicabile”.

Lasso ha dichiarato:

Tecnicamente, non è possibile chiudere un pozzo petrolifero da un giorno all’altro. Ci stiamo avviando verso la possibilità che questo referendum diventi inapplicabile. Non è fattibile, vi preghiamo di comprendere che non è attuabile e manterremo questa posizione il più a lungo possibile.

In una conferenza stampa il giorno dopo il referendum, i membri dei gruppi che hanno guidato la campagna del “sì”, circondati dalle bandiere dei popoli indigeni ecuadoriani, hanno annunciato che vigileranno attentamente sul rispetto del mandato popolare da parte delle autorità.

Ora gli attivisti si stanno riorganizzando per respingere gli attacchi alla volontà popolare. Come ha detto a openDemocracy Alejandra Santillana, membro di Yasunidos, il collettivo ambientalista che ha guidato la campagna del “sì”:

È risaputo tra tutte le organizzazioni sociali [in Ecuador] che ciò che si ottiene alle urne, lo si deve difendere nelle strade.

Zenaida Yasacama, vicepresidente della Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador (CONAIE) ha poi affermato:

Come sempre, violano le decisioni e i diritti collettivi. Pensiamo che tutto possa succedere. Ecco perché saremo molto vigili.

Gli attivisti chiedono anche un piano globale di recupero per Yasuní che tenga conto dei danni esistenti alla salute umana e all’ambiente e tuteli il Parco e le sue comunità.

Yasuní, che comprende più di un milione di ettari di foresta pluviale tropicale nel cuore dell’Amazzonia, è stata dichiarata riserva della biosfera dall’UNESCO nel 1989. Ospita più di 1.500 specie animali e diverse popolazioni indigene, tra cui i popoli mai contattati Tagaeri e Taromenane, che vivono in isolamento volontario.

Per mezzo secolo le operazioni petrolifere hanno minacciato la sopravvivenza di questa foresta pluviale. Il blocco 43-ITT rappresenta il giacimento petrolifero aperto più di recente, dove la compagnia petrolifera statale Petroecuador opera dal 2016.

Impianto petrolifero sul Rio Napo, nel parco di YasunÍ. Foto di Carol Foil da Flickr con licenza CC BY-NC-ND 2.0
Impianto petrolifero sul Rio Napo, nel parco di YasunÍ. Foto di Carol Foil da Flickr con licenza CC BY-NC-ND 2.0

La risposta del Governo

Il presidente Lasso, il cui mandato scade il prossimo 25 novembre, afferma che l’Ecuador perderà 1,2 miliardi di dollari all’anno se le trivellazioni petrolifere a Yasuní verranno interrotte. Yasunidos contesta questa cifra, sostenendo che quella più accurata è di 148 milioni di dollari all’anno, sulla base delle stime delle riserve petrolifere fornite da Petroecuador alla Corte Costituzionale del Paese.

Il ministro delle Miniere e dell’Energia, Fernando Santos, ha messo in dubbio la natura vincolante del referendum sostenendo che, secondo la Costituzione, la decisione finale sull’esplorazione petrolifera spetta alla popolazione interessata.

Ha suggerito che i residenti della provincia di Orellana, dove si trova il Blocco 43-ITT e dove quasi il 58% ha votato “no” allo stop alle trivelle, detengono l’autorità decisiva. Lo scorso 24 agosto Santos ha dichiarato che la Corte costituzionale avrebbe dovuto emettere una sentenza definitiva e che, nel frattempo, le trivellazioni petrolifere sarebbero continuate.

González, la candidata presidenziale del partito di centrosinistra Rivoluzione Cittadina, che probabilmente diventerà la prossima leader dell’Ecuador dopo il ballottaggio del 15 ottobre, ha fatto eco alla tesi di Santos. Ha infatti osservato:

Le autorità locali di Orellana dovranno far valere i propri diritti nel processo legale e dovremo permettere che questo si svolga nei tribunali.

Tuttavia, gli attivisti avvertono che sia Santos che González stanno “confondendo la consultazione informata preventiva [con le popolazioni indigene locali], che avrebbe dovuto essere condotta prima di esplorare il blocco, con un referendum popolare nazionale”. Entrambi questi meccanismi democratici sono stati stabiliti nella Costituzione dell’Ecuador del 2008.

Yasunidos ha denunciato il modo in cui il Governo e le compagnie petrolifere stanno diffondendo “incertezza e paura tra le popolazioni locali” colpite dalle trivellazioni petrolifere nelle province di Orellana e Sucumbíos, e di come l’incuria dello Stato abbia portato ad un “rapporto di dipendenza e ricatto” tra quelle comunità e le compagnie petrolifere.

Altre istituzioni governative hanno avvertito di potenziali problemi. La Banca Centrale ha annunciato che la disoccupazione aumenterebbe se le trivellazioni venissero interrotte, mentre il ministro dell’Ambiente, dell’Acqua e della Transizione Ecologica, José Dávalos, ha avvertito che sarebbe “impossibile” fermare le attività entro un anno.

In un primo momento, Lasso si è tirato indietro da questa posizione, affermando che il suo Governo avrebbe rispettato la volontà popolare. Ma i suoi ultimi commenti contraddicono questo, nonostante il fatto che la Costituzione dell’Ecuador del 2008 abbia reso il Paese il primo al mondo a riconoscere che la natura (o Pachamama) abbia dei diritti.

Yasacama del CONAIE ha affermato:

C’era l’idea [nel 2008] che con l’incorporazione della natura come soggetto di diritti nella Costituzione, ci sarebbe stato un cambiamento. Ma nel corso degli anni abbiamo visto che così non è stato. Nessun Governo si è dimostrato interessato a proteggere la natura.

González ha anche mostrato poca considerazione per Pachamama, sostenendo che i proventi petroliferi vanno a beneficio della popolazione e suggerendo agli ambientalisti di fornire opzioni alternative alle trivellazioni.

Yasacama, vicepresidente della CONAIE, ha ribattuto all’affermazione di González:

Questo è falso. Quando c’è stato il boom petrolifero, non abbiamo ricevuto attenzione: siamo stati abbandonati. Nemmeno gli animali potrebbero sopravvivere nei siti che presumibilmente dovrebbero ospitare le nostre scuole e strutture sanitarie.

La lunga battaglia per il referendum

Nel 2007, l’allora presidente Rafael Correa, che guida ancora il partito Rivoluzione Cittadina di González, chiese alla comunità internazionale di fornire all’Ecuador 3,6 miliardi di dollari in cambio della mancata estrazione del petrolio da Yasuní. Correa ha affermato che ciò avrebbe onorato il precetto indigeno del sumak kawsay (“buon vivere”), che è stato sancito nella nuova Costituzione l’anno successivo, come “una nuova forma di convivenza cittadina nella diversità e in armonia con la natura”.

A seguito dell’appello di Correa è stata lanciata un’iniziativa sotto la supervisione delle Nazioni Unite, che però non ha ottenuto il sostegno atteso. È stato abbandonata dal Governo ecuadoriano nel 2013, dopo aver raccolto solo 13,3 milioni di dollari in sette anni. Correa, annunciando che il Blocco 43-ITT era ora aperto alle trivellazioni, ha dichiarato:

Il mondo ci ha deluso.

All’epoca scoppiarono proteste in tutto l’Ecuador. Fu allora che nacque Yasunidos, un movimento apartitico composto soprattutto da giovani, seguito successivamente da altri gruppi, tra cui l’influente CONAIE. La loro strategia è stata quella di indire un referendum nazionale per chiedere agli ecuadoriani se volessero o meno mantenere per sempre sottoterra le riserve petrolifere del Blocco 43-ITT.

Nei sei mesi intercorrenti dalla loro fondazione all’aprile del 2014, questi gruppi raccolsero 757.623 firme (di gran lunga superiori al requisito minimo per un referendum ovvero il 5% delle liste elettorali) nonostante siano stati sottoposti a minacce, sorveglianza illegale e persecuzione da parte del Governo.

Ma il mese successivo, dopo una rapida revisione durata due settimane, il Consiglio Elettorale Nazionale (CNE) invalidò più del 50% delle firme negando l’autorizzazione a indire un referendum.

Quattro anni dopo, una Commissione indipendente ha riscontrato “seri indizi di arbitrarietà nel conteggio e nella revisione delle firme da parte del CNE. Ciò ha portato Yasunidos a ricorrere in appello contro la decisione, combattendo diverse battaglie legali contro i Governi di Correa e del suo successore, Lenin Moreno, nonché contro l’attuale amministrazione Lasso, per violazioni dei diritti politici e ostruzione alla giustizia.

Infine, nell’aprile di quest’anno, si è tenuta un’udienza davanti alla Corte Costituzionale. Santillana, comparso davanti alla Corte a nome di Yasunidos ha affermato:

Durante l’udienza abbiamo potuto presentare tutte le argomentazioni che spiegavano il motivo per cui il referendum fosse ancora valido.

Il Governo ha chiesto alla Corte di accantonare il referendum poiché infrangerebbe i contratti petroliferi del Paese ma, secondo Santillana, i fatti forniti dalle stesse autorità hanno finito per sostenere l’indizione di un referendum.

Come ha affermato:

È stato piuttosto impressionante vedere come lo Stato stesso ci ha fornito le argomentazioni. Il Ministero delle Donne e dei Diritti Umani, ad esempio, ha presentato rapporti sull’inquinamento dell’acqua. In altre parole, lo Stato stesso diceva che l’acqua [a Yasuní] non era sicura da bere in quanto altamente inquinata.

Come prova, Yasunidos ha presentato un caso della Corte Interamericana dei Diritti Umani sulla presunta responsabilità internazionale dell’Ecuador per la violazione dei diritti dei popoli Tagaeri e Taromenane. Nel 2007, la loro terra, che confina con il Blocco 43-ITT, è stata dichiarata immateriale, uno status che “proibisce per sempre ogni tipo di operazione estrattiva”.

Il 9 maggio, la Corte Costituzionale si è pronunciata a favore di Yasunidos, ha autorizzato il referendum e ha ammonito le autorità per “una serie di azioni da parte dello Stato che hanno ostacolato il pieno esercizio dei diritti di partecipazione dei ricorrenti“.

Santillana ha dichiarato in un’intervista a openDemocracy:

Il referendum Yasuní è il primo referendum nazionale e vincolante, ma da anni il popolo ecuadoriano vota contro l’estrattivismo. La domanda è perché nessun Governo abbia preso sul serio questa dichiarazione di massa.

[Voci Globali non è responsabile delle opinioni contenute negli articoli tradotti]

Luciana Buttini

Laureata in Scienze della Mediazione Linguistica e Specializzata in Lingue per la cooperazione e la collaborazione internazionale, lavora come traduttrice freelance dal francese e dall'inglese in vari ambiti.

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