Quando la casa di moda Schiaparelli ha fatto indossare finte teste di animali alle sue modelle durante la Paris Fashion Week lo scorso gennaio, il mondo degli animalisti e non solo si è levato in polemica contro quello che sembrava un inno alla caccia.
Un riferimento alle bestie dantesche non dovrebbe destare tanto scalpore, almeno non quanto dovrebbero invece i retroscena di tutta l’industria tessile, non solo della moda. Il suo impatto, infatti, è sostanziale, non solo sull’universo animale ma anche e soprattutto su ambiente e clima.
Secondo l’UNEP, il settore del fashion è il secondo più grande in termini commerciali, ma il suo record riguarda anche gli enormi numeri che lo mettono in relazione alla questione ambientale e climatica.
L’industria della moda produce dall’8 al 10% delle emissioni globali di CO2.
Inoltre, dopo l’agricoltura, è il comparto tessile a detenere il primato di spreco e inquinamento delle acque: il 20% dell’acqua sperperata viene dalla produzione di vestiti, jeans, magliette, così come riporta l'”Help Fashion Industry Shift to low carbon“. Basti pensare che per la produzione di un solo paio di jeans occorrono circa diecimila litri d’acqua, che una persona berrebbe in circa 10 anni.
Non solo spreco idrico: l’impiego di prodotti chimici per la lavorazione dei tessuti è la seconda causa globale di inquinamento delle acque. Infatti, ben il 35% delle microplastiche che finiscono in mari e oceani deriva dal poliestere impiegato per l’abbigliamento, secondo quanto riportato dal National Institute of Standard Technology (NIST).
La conta dell’impatto è generale: ogni singolo passaggio delle filiere di produzione ha un ruolo determinante in termini di sfruttamento delle risorse, emissioni, uso della terra, inquinamento.
Innanzitutto, la produzione delle fibre: siano esse naturali o sintetiche, la loro manifattura comporta inquinamento.
La coltivazione del cotone, ad esempio, impiega (al 2015) circa il 25% totale dell’uso mondiale di insetticidi e più del 10% di pesticidi. Essa, inoltre, richiede un enorme quantitativo d’acqua, stimato intorno ai diecimila litri per un kg di cotone.
Consumo della risorsa idrica per le fibre tessili, ma anche la sua contaminazione, derivata dal lavaggio dei prodotti finali. Questo riguarda soprattutto le ultime fasi della lavorazione, compresa la tintura dei tessuti, con il rilascio di tossine tossiche e di metalli pesanti come il cromo. Le acque, insieme a questi agenti chimici di scarto, vengono rilasciate nell’ambiente.
La contaminazione da agenti chimici usati nel settore ha colpito duramente anche il nostro Paese, in particolare il Veneto. Qui, come in diversi altri Paesi in Europa, la contaminazione della falda acquifera da Pfas, ha generato un’emergenza sanitaria. I Pfas, impermeabilizzanti liquidi, sono anche definiti inquinanti eterni, perchè in grado di rimanere nell’ambiente per centinaia di anni.
Dalla reperibilità e gestione delle materie prime a tutta la lavorazione di un capo, dunque, i vestiti che portiamo producono un impatto: per essere tessuti, tinti, lavati. E producono un impatto quando non li usiamo più.
L’uso e il fine vita degli abiti inasprisce la questione dell’insostenibilità dell’industria tessile, soprattutto se si parla di fast fashion, dilagante e in impennata negli ultimi anni. Collezioni che lanciano in continuazione nuovi stili, prezzi competitivi e tendenze che corrono durante tutto l’anno ci spingono a ricercare un guardaroba che si rinnova in modo economico, facile, rapido, in costante aggiornamento.
I numeri, annunciati da Ellen Mac Arthur Foundation nel report “A new textiles economy: redesigning fashion’s future“, raccontano che negli ultimi quindici anni la produzione di vestiti è raddoppiata.
Allo stesso tempo si stima che più della metà dei prodotti di fast fashion venga smaltito e non più riutilizzato in meno di un anno.
Cioè, usiamo sempre meno i nostri capi d’abbigliamento, con un calo del 36% in soli quindici anni. Determinando una crescente massa di rifiuti tessili, ma anche un impatto maggiore di quella catena di produzione che non si risparmia in nessun passaggio, contribuendo al cambiamento climatico e al degrado ambientale.
Meno dell’ 1% dei materiali usati per produrre tessuti e vestiti viene correttamente riciclato o rigenerato contribuendo alla nascita di nuovi vestiti. La maggior parte di essi, pertanto, diventa un rifiuto. E possiamo ben capire in cosa si traduce se pensiamo che l’industria del fast fashion si basa, per lo più, sull’impiego del poliestere come fibra di base.
Il poliestere è una fibra sintetica ottenuta dalla lavorazione dei combustibili fossili. Il suo impiego massiccio in questo settore permette la produzione di abiti all’ultima moda a basso costo.
Secondo uno studio uscito su Nature Reviews Earth and Environment, la produzione di questo polimero è quasi triplicato dagli inizi del 2000, arrivando a circa 65 tonnellate prodotte ogni anno.
I grandi numeri del fast fashion portano alla luce non soltanto uno sfruttamento ambientale, ma anche lavorativo.
Recente è la rivelazione di Untold sulle condizioni lavorative delle operaie e operai di Shein. Questo colosso cinese del fast fashion, che ha sdoganato e superato in profitti le altre grandi aziende del comparto, pare costringere i suoi operai a turni di lavoro che sfiorano le 17-18 ore, con un solo giorno di riposo al mese. Inoltre, i video e le indagini mostrano operaie e operai sottopagati e costretti alla massimizzazione del lavoro, venendo retribuiti per pezzo prodotto e costretti a confezionare almeno 500 capi al giorno.
La ricaduta sociale del fenomeno emerge anche da un’indagine di Greenpeace sul ciclo di vita dei vestiti di seconda mano derivanti dal fast fashion e dalla sua brevità, che mina il suo riutilizzo. Molti di quei capi che immaginiamo come destinati a una caritatevole seconda vita diventano, in Paesi come il Kenya e Tanzania, inutilizzabili e, dunque, l’immagine che ne deriva sono montagne di abiti abbandonati sulle rive, e incendi di vestiti a cielo aperto per poterle smaltire.
Non mancano, di certo, alcune iniziative virtuose, che puntano alla riqualificazione del settore, agendo sia sul cambiamento in senso sostenibile della filiera produttiva, sia della consapevolezza dei consumatori nella scelta dell’abbigliamento.
Ne è un esempio “Living Colour“, un progetto lanciato da due donne designer, che mira a rivoluzionare la produzione dei vestiti e la loro tintura, puntando all’impiego di pigmenti colorati prodotti in maniera del tutto naturale da alcuni batteri.
In modo complessivo cerca di agire, ancora, la realtà di Fashion Revolution, co-fondata dall’italiana Orsola De Castro. Il movimento globale mira alla trasformazione della moda in un ambiente consapevole, più sostenibile. Un’industria nuova nella sua totalità, dalla produzione dei capi all’impiego di manodopera.
La trasformazione del comparto, certo, non può non andare in una doppia direzione.
Da un lato è fondamentale la consapevolezza di ciò che indossiamo e una rivisitazione delle nostre scelte d’abbigliamento, non dettate per forza dalla corsa all’ultima moda o dall’appetibilità di un costo davvero competitivo.
Ma il ruolo decisivo spetta all’industria del tessile, che deve rivedere non soltanto le modalità di produzione delle fibre o le modalità di smaltimento dei rifiuti, ma promuovere la messa in discussione di tutto il ciclo di generazione di un capo di vestiario.
La diffusione di campagne in cui viene esaltato l’impiego di plastica riciclata o di cotone organico si rivela un’operazione di marketing e di greenwashing, se non viene offerta criticamente una soluzione alternativa all’enorme quantitativo di acqua impiegata, una sicura modalità di smaltimento delle operazioni di tintura, lo stop allo sversamento di microplastiche e alla produzione di rifiuti.
La sostenibilità da indossare, deve diventare la vera moda.