[Traduzione a cura di Gaia Resta dell’articolo originale di Ali M Latifi pubblicato su The New Humanitarian, agenzia di stampa specializzata in crisi umanitarie]
Lo scorso agosto, poco dopo il ritorno al potere dei Talebani, Yahya (nome fittizio per motivi di sicurezza) ha notato un fatto inquietante. Ogni volta che il giornalista 24enne apriva Facebook, Twitter, Instagram o TikTok, lo schermo si riempiva di post che garantivano aiuto per lasciare il Paese.
Le promesse erano varie: “Migrazione legale dall’Afghanistan alla Russia e dalla Russia all’Europa senza pagamento anticipato”; “Famiglia turca ottiene passaporto in due settimane”; “Da Kabul a Mosca e da Mosca direttamente in Svezia. Legale, sicuro ed economico”.
In quel periodo, migliaia di persone vivevano accampate giorno e notte, tra fango e sporcizia, lungo le strade di collegamento con l’Hamid Karzai International Airport nella speranza di fuggire dall’Afghanistan.
Ma se, dopo un breve periodo, la folla fuori dall’aeroporto di Kabul si è dispersa, operazioni illegali legate a emigrazione clandestina e visti falsi hanno continuato a proliferare e mietere vittime, approfittando della disperazione degli afghani che ormai lottano per sopravvivere nel bel mezzo di una crisi economica ormai fuori controllo.
Non ci sono dati certi, ma l’International Centre for Migration Policy Development (ICMPD), organizzazione con base a Vienna che lavora con i rifugiati afghani proprio su questi problemi, ha riferito a The New Humanitarian di dedicare in questo periodo una quantità maggiore di tempo e budget a queste truffe. Tra l’altro, giganti dei media come Meta e ByteDance sembrano apparentemente incapaci di vigilare sulle loro piattaforme.
Secondo l’ICMPD, sempre più afghani perdono migliaia di dollari a causa dei truffatori che offrono visti falsi e quindi inutili. Altri pagano cifre ancora maggiori per uscire illegalmente dall’Afghanistan per poi ritrovarsi abbandonati in Paesi stranieri senza il supporto necessario – per il quale avevano pagato – per raggiungere la destinazione finale.
“Denunci una truffa e ne spuntano fuori altre”, ci ha detto Samim Ahmadi, project manager dell’ICMPD in Afghanistan fino al 2021. “Potresti trascorrere settimane intere a fare solo quello, e ce ne sarebbero sempre di nuove”.
Bezhan, che ha chiesto di non pubblicare il suo cognome per motivi di sicurezza, frequenta un’Università a Mazar-e Sharif, città nel Nord del Paese. Ha riferito che gli studenti sono tra i bersagli preferiti e ci ha spiegato come l’economia illegale sia cambiata proporzionalmente all’aumentare della disperazione generale.
“Bastava una ricerca su Google per trovare decine, se non centinaia, di siti e pagine Facebook che offrivano borse di studio in Italia, Germania, Russia, Turchia e altre nazioni in cambio di circa 1.000-2.000 dollari”. Dopo il ritorno dei Talebani, i prezzi sono schizzati alle stelle: “Da 2.000, sono arrivati a chiedere 8.000 o addirittura 10.000 dollari per una borsa di studio”.
Bezhan è stato fortunato. Sua zia, che era stata evacuata in Gran Bretagna appena dopo la riconquista dei Talebani, lo ha convinto che quelle offerte erano troppo convenienti per essere vere. Alcuni tra i suoi amici non sono stati così fortunati e sono stati imbrogliati dai truffatori.
“Siamo riusciti a chiudere quelle localizzate a Mazar con l’aiuto dei Talebani”, ha detto Bezhan. “Ma a Kabul ci sono ancora decine di sedi sparse in tutta la città da cui operano tramite i siti e i post su Facebook”.
Un afghano ora residente in Canada, di cui non facciamo il nome sempre per motivi di sicurezza, ci ha raccontato di aver dissuaso alcuni parenti dal credere a post di quel genere, ma che altri sono stati raggirati e che ora sono bloccati in un Paese confinante con la speranza di essere evacuati.
Un problema globale difficile da tenere a freno
Le truffe ai danni di potenziali migranti e rifugiati non sono una novità né sono un fenomeno esclusivo dell’Afghanistan.
Negli ultimi anni, l’ambasciata statunitense ha segnalato alcune frodi sui visti che miravano ai rifugiati siriani; l’UNHCR nelle Filippine ha informato la popolazione dell’operato di truffatori che fingevano di lavorare per l’agenzia ONU per i rifugiati; mentre l’American Bar Association ha avviato un progetto speciale per fermare le truffe sull’assistenza all’immigrazione per via della prevalenza del fenomeno negli Stati Uniti.
Con l’aggravarsi della situazione in Afghanistan, un numero sempre maggiore di giovani viene bombardato da offerte di aiuto per lasciare il Paese. La cerchia dei truffatori è difficile da penetrare e la natura virtuale di questi schemi fa sì che il tracciamento degli autori sia anche più difficile, sia secondo l’ICPMD che un gruppo di rifugiati afghani in Turchia e i volontari di numerose altre organizzazioni con cui The New Humanitarian ha parlato.
Yahya, il giornalista a Mazar, ha raccontato che i truffatori spesso cercano di superare le protezioni online per arrivare a quante più persone possibile: “Sembra che approccino le persone più attive sui social e si guadagnino la loro fiducia sulle pagine Facebook per poi scrivere quei post”.
Stando ai dati del 2019, più della metà della popolazione afghana ha accesso a Internet tramite i telefoni cellulari. Questo ha portato al boom di alcuni influencer sui social media con centinaia di migliaia di follower su Twitter, Instagram, TikTok e YouTube. La maggior parte degli account sono reali, ma Yahya racconta che alcuni mettono in circolazione informazioni false pur di incrementare il loro seguito.
Gruppi di volontari in Afghanistan e organizzazioni di rifugiati afghani in Turchia e Grecia (dove molti vanno a finire) stanno cercando di sensibilizzare l’opinione pubblica su questo tema per combattere le truffe.
Ma società come Meta, Byte Dance e Google sono inondate da report su contenuti inappropriati, e poi il procedimento per cui un post fraudolento viene eliminato può essere lungo e tortuoso, in quanto bisogna verificare che i contenuti violino effettivamente i termini di servizio della piattaforma. E anche in caso sia così, a seconda della gravità della violazione, il risultato potrebbe essere l’eliminazione di alcuni post o la restrizione dell’account invece della cancellazione dello stesso.
Poiché l’Emirato Islamico dei Talebani è stato sanzionato dai Paesi occidentali che non lo riconoscono come Governo ufficiale dell’Afghanistan, i funzionari talebani non possono semplicemente chiamare Meta o Google per esporre un reclamo ufficiale.
The New Humanitarian ha chiesto a Meta di commentare la questione ma, al momento della pubblicazione di quest’articolo, non aveva ancora ricevuto alcuna risposta. Anche la Polizia di Kabul non ha risposto alla nostra richiesta di commenti.
Secondo quanto riferito da Ahmadi, l’ICMPD da solo riceve in media 200-300 richieste al mese su visti potenzialmente illegali. Tutte le segnalazioni vengono riguardano annunci apparsi sull’internet, Facebook, Messenger, WhatsApp e altre piattaforme.
Alee Siddique, influencer afghano con oltre 470.000 follower su Instagram e TikTok, ricorda come i post-truffa avessero invaso TikTok e Facebook dopo la caduta di Kabul: “Ogni volta che scrollavo c’era qualcuno che forniva un’email o asseriva di poter fare uscire gente dal Paese. In quel periodo tutti ci credevano”. Ha aggiunto anche che le frodi sono ancora diffuse e che la gente continua a farsi raggirare.
Spesso le agenzie per i visti falsi – gestite sia online che in sedi reali in Afghanistan e nel confinante Pakistan, secondo l’ ICMPD – si appropriano (storpiandoli) dei nomi di organizzazioni come l’IOM o l’UNHCR per ingannare più facilmente le loro vittime.
“Distribuiscono persino visti”, ha aggiunto Ahmadi. “Ma se li osservi attentamente, ti accorgi che c’è qualcosa di strano. Ma puoi scoprirlo soltanto se sai come è fatto un visto vero”.
Bande di trafficanti con un budget per la pubblicità
Basta una rapida occhiata a Facebook per trovare pagine come quella che pubblicizza un’agenzia semplicemente chiamata Mazar, che mostra un finto logo di Amazon e un indirizzo Internet inesistente.
La pagina Facebook compare come “blog personale” ed è seguita da circa 20.000 utenti. È piena di foto bucoliche di Russia, Francia e Canada e di post che promettono: “Ottieni un visto lavorativo di un anno per la Russia senza bisogno della residenza iraniana a Teheran”.
Abbiamo chiamato il numero di telefono presente sulla pagina e l’uomo che ha risposto ha detto di poter organizzare “un servizio VIP per uscire dal Paese e andare da Mosca in Francia, tutto il tragitto in taxi” per poco più di 14.000 dollari, per poi aiutarci a ottenere un visto lavorativo di un anno in Turchia per 7.000 dollari. Il pagamento è richiesto in contanti presso un ufficio a Kabul.
Altri siti che compaiono di default in russo dichiarano di poter aiutare i cittadini di 80 Paesi, tra cui l’Afghanistan, a ottenere visti turistici e Schengen (di libera circolazione tra i Paesi dell’area Schegen) per nazioni dell’Unione Europea. Ma, invece di fornire agli afghani visti validi, tali società operano come trafficanti, e richiedono grosse somme di denaro per poi far compiere traversate illegali e rischiose.
Ahmadi ha raccontato che una volta fuori dall’Afghanistan, le vittime delle truffe si ritrovano sole e abbandonate, confuse e ricercate dalle autorità estere.
“Durante questi viaggi, sono alla mercè dei truffatori. Nella maggior parte dei casi, questo tipo di immigrazione irregolare si trasforma in traffico di esseri umani” ha precisato. “Sono esposti a varie forma di sfruttamento, violenze, lavoro forzato e rischiano persino la morte”.
Nonostante il grande impegno dell’ICMPD, Ahmadi ha detto che monitorare tali pagine, post, storie e siti è estremamente complicato, non solo per la quantità di tempo che richiede ma per le tattiche poco chiare impiegate dai criminali e la riluttanza dei rifugiati afghani a denunciare.
Ha detto che la difficoltà principale nel cercare di capire come funzionano queste operazioni è guadagnarsi la fiducia di chi è stato imbrogliato in quanto spesso sono bloccati in Paesi stranieri in situazioni ardue.
Le vittime spesso temono l’ira del Governo ospitante o la rete dei truffatori. “La gente è diffidente e restia a dire chi è o da dove chiama” ha detto Ahmadi. “Soltanto dopo tanti sforzi alcuni di loro ci rivelano esattamente l’origine dell’informazione”.
Anche se la cosa migliore è sensibilizzare l’opinione pubblica e ficcare in testa alla gente che ci si può fidare solo delle Ambasciate estere e delle ONG più note, anche questo non è così semplice, secondo Ahmadi.
L’Ambasciata statunitense a Kabul ha un’intera pagina web dedicata ai suggerimenti per capire se si è vittime di una truffa online, così come ha fatto l’ONU. L’Ambasciata USA ha anche pubblicato degli avvisi su Facebook.
Storie ammonitrici
Un afghano, di cui non faremo il nome per la delicatezza della sua situazione, ci ha raccontato che la famiglia di sua sorella aveva consegnato quasi più di 3.000 dollari in cash a un ufficio di Kabul per quattro visti per la Turchia, per poi scoprire che erano falsi.
“Che cosa puoi fare dopo una cosa del genere?”domanda l’uomo. “Hai perso i tuoi soldi e non puoi strappare una pagina dal tuo passaporto. Nessuno lo accetterebbe con sopra un visto falso”.
Yahya ci ha raccontato che amici e parenti in Afghanistan, preoccupati per le frequenti denunce di abusi e torture ai danni di giornalisti afghani da parte dei Talebani, gli inviano spesso i contatti WhatsApp di persone che sostengono di poterlo aiutare a lasciare il Paese. Ma, avendo visto cosa accade a chi si affida a pettegolezzi, voci e dichiarazioni infondate che garantiscono la partenza, è ben consapevole dei rischi.
Nelle settimane successive alla presa del potere dei Talebani, migliaia di afghani hanno percorso i 740 chilometri che separano Kabul da Mazar, dove vive Yahya. Molti di loro avevano appuntato le loro speranze alle dubbie dichiarazioni di loschi, e probabili, truffatori.
“Ogni giorno comparivano decine di post con frasi di ogni tipo, da ‘Inviaci il tuo CV’ a ‘Possiamo aiutarti per 1.000 dollari’ ”, ci ha detto Yahya per telefono da Mazar. La sua professione lo ha aiutato a vederci chiaro: “Sono un giornalista. Appena li ho letti, ho capito che c’era qualcosa di sospetto”.
Nel novembre 2021 quattro attiviste sono state uccise a Mazar. Il marito di una delle vittime, Forozan Safi, ha raccontato ai media locali che la moglie era stata attirata in una trappola fatale da una telefonata da parte di una presunta organizzazione per i diritti umani.
Sia Yahya che Tamana Ayazi, un attivista per i diritti umani e filmmaker di Mazar, ci ha riferito di misteriose telefonate da parte di persone che asserivano di poter aiutare individui a rischio, e la gente in generale, a imbarcarsi sui voli di evacuazione verso gli Stati Uniti e la Germania.
“Dopo ciò, tutti si dicevano ‘se non sei assolutamente certo di chi sia la persona con cui stai parlando, non parlare con nessuno’ ”, ha concluso Ayazi.
[The New Humanitarian non è responsabile dell’accuratezza della traduzione]