Così muore l’arte, il potere che opprime e fa guerra alla cultura

Ucciso barbaramente perché custode dell’arte: così morì Khaled al-Asaad, archeologo di 82 anni nella Siria occupata dall’Isis nell’agosto 2015.

La sua tragica fine scosse il mondo, soprattutto per la violenza con la quale i militanti islamici si accanirono nei confronti dello studioso e della stupenda città antica di Palmira, sito storico tra i più importanti di tutto il Medio Oriente e patrimonio Unesco. L’archeologo fu decapitato perché, dopo essere stato catturato, non collaborò con gli estremisti per consegnare alcuni preziosi manufatti custoditi. Il sito venne distrutto e le cronache di quel tempo narrarono che il corpo dello studioso fu appeso a una delle colonne romane.

L’insensata quanto terribile e sfacciata demolizione di musei e resti dell’antica Mesopotamia hanno accompagnato la conquista di Iraq, Siria e di altri territori da parte dell’Isis nel 2015.

Era in corso una sorta di guerra parallela alla cultura, che in quei tempi faceva orrore e testimoniava quanto brutali fossero gli estremisti islamici. Il museo di Mosul, in Iraq, fu devastato a colpi di mazze e trapani, così come la città assira di Nimrud, oltre a Hatra e Dur Sharrukin, importanti siti archeologici. In nome di Maometto, gli uomini dell’Isis si accanivano su statue e manufatti.

Quanta paura può fare l’arte e la cultura al potere dominante? La domanda, purtroppo, ha una risposta: artisti, scrittori, uomini di letteratura e persino luoghi in cui contemplare l’arte sono spesso visti come nemici da combattere e annientare dai regimi, ma anche dai Paesi cosiddetti democratici, perché espressione della più alta libertà dell’uomo. Quella libertà innocua, poiché non lede alcun diritto, ma “colpevole” di lanciare messaggi e stimolare riflessioni. Anche critiche nei confronti del potere.

Distruzione del museo di Mosul in Iraq, da parte dell’Isis, 2015. Foto da video di WSJ.

Come ha affermato l’artista cubana Tania Bruguera più volte arrestata: “L’arte esprime i tuoi sentimenti. Ed esprime sentimenti per altre persone che provano lo stesso, ma forse non sanno come articolarlo. I regimi autocratici ci reprimono emotivamente. L’arte ci libera emotivamente. I regimi ne hanno paura”.

Nei circa 10 anni che si sono succeduti dagli atti vergognosi dell’Isis e dalla morte di Khaled al-Asaad, la persecuzione di uomini di cultura e di artisti è dilagata nel mondo. Sono tantissime le storie di uccisioni e incarcerazioni solo perché si è stati scrittori, poeti, registi, pittori e molte sono le leggi che limitano la libertà culturale e artistica, anche in Stati non autocratici.

Freemuse, organizzazione internazionale indipendente che monitora le violazioni dei diritti degli artisti, ogni anno dal 2012, pubblica in un report storie e condizioni nel mondo della libertà artistica. I dati, nella cronologia dal 2015 a oggi, non sono rincuoranti. Solo nel 2016, per andare in ordine temporale dopo il fatto di Palmira, gli attacchi alla libertà artistica sono stati di ben il 119% in più rispetto all’anno prima.

In quel documento si raccontavano, tra le altre, le storie del romanziere egiziano Ahmed Naji, condannato a due anni di reclusione per aver “violato il pudore pubblico” con espliciti riferimenti sessuali in una sua graphic novel oppure della cantante pop Denise Ho di Hong Kong, che nel 2016 si è vista cancellare sul web molti dei suoi testi e della sua musica, perché considerata un pericolo alla sicurezza cinese vista la sua partecipazione alle manifestazioni pro-democrazia di Hong Kong. Ancora oggi l’artista è nella lista nera di Pechino.

In generale, in quell’anno, sono stati testimoniate nel mondo 188 gravi violazioni – omicidi, rapimenti, attacchi, incarcerazioni, procedimenti giudiziari, persecuzioni o minacce – e 840 atti di censura di opere d’arte ed eventi, per la maggior parte in nome della difesa di “valori tradizionali e dell’interesse dello Stato”.

L’anno seguente non è stato migliore. Facendo un focus solo sulle libertà dei diritti delle donne, per esempio, nel 2017 sono state rilevate (con numeri in difetto per mancanza di trasparenza e disponibilità di informazioni da tutti gli Stati) 10 persecuzioni di artiste, 27 censure, di cui 11 in Iran, 3 in Francia, altri in Argentina, Canada, India, Israele, Libano, Nuova Zelanda, Pakistan, Papua Nuova Guinea, Arabia Saudita, Spagna, Thailandia e Stati Uniti. Tra i Paesi maggiormente coinvolti nella persecuzione del mondo della cultura e dell’arte femminile si sono posizionati l’Iran con il 30% delle segnalazioni del report, poi Israele con il 10,6%, l’Egitto con l’8,5%, la Francia, l’India e il Libano con il 6,4%.
Le principali giustificazioni per mettere a tacere le artiste sono state l’indecenza (70%) e l’offesa alla religione (28%) .

Il report ha ricordato che presso l’Università iraniana di Kashan c’è uno statuto sulle esibizioni delle musiciste donne che ben esprime la limitazione delle libertà artistiche nel mondo femminile. In esso si legge:

Le musiciste devono essere sposate, devono astenersi dall’indossare pantaloni attillati, magliette a maniche corte o altri colori forti, e, durante gli spettacoli, le donne devono evitare di fare qualsiasi movimento al di là di ciò che è assolutamente necessario per suonare il loro strumenti.

Non sorprenderà, quindi, che tra le tante storie di donne artiste senza libertà è stata ricordata quella della band curda A Dayrak Khatoon, alla quale è stato vietato di esibirsi al Festival Internazionale di Musica Tribale a Kermanshah, Iran occidentale, nel gennaio 2017. Gli organizzatori del festival (l’ufficio locale del ministero della Cultura e della Guida Islamica) hanno basato la loro decisione sulla motivazione che le donne della band avevano precedentemente cantato da soliste (cosa vietata in Iran).

Questa tendenza alla repressione e alla censura dell’arte non ha mostrato segni di cedimento negli ultimi anni, purtroppo, e le storie di donne e uomini violentemente fermati nelle loro espressioni artistiche abbondano fino ai nostri giorni. La pandemia ha addirittura esacerbato il clima di controllo e oppressione nell’arte e nella cultura. Le voci degli artisti non si sono fermate con le restrizioni agli eventi culturali imposte in tutto il mondo con l’emergenza Covid.

“È inimmaginabile che il record di persecuzione e detenzione di artisti avvenga nell’anno in cui gli artisti e il settore della cultura hanno già subito la perdita dei loro mezzi di sussistenza”, ha affermato Srirak Plipat, direttore esecutivo di Freemuse. “Il rapporto di quest’anno – del 2020 – illustra i crescenti abusi di blasfemia, legislazione antiterrorismo e misure Covid come pretesti, per mettere a tacere le voci dissidenti di artisti e opere d’arte“.

Nel 2020, il 26% di tutte le restrizioni della libertà artistica documentate ha avuto luogo in Europa, seguito dal 22% in Nord e Sud America, 19% in Medio Oriente e Nord Africa, 15% in Asia e Pacifico, 9% in Africa e un altro 9% online. Il 74% di tutte le incarcerazioni di artisti rilevate riguardava la critica alle politiche e alle pratiche del governo, con il 44% di esse avvenute in Medio Oriente e Nord Africa. La politica è stata la motivazione principale del 71% delle detenzioni di artisti.

Il primato europeo dell’anno è legato soprattutto alla politica di severa censura della Turchia. Dal tentativo di colpo di stato del 2016, che ha portato agli arresti e alla detenzione di migliaia di persone, tra cui difensori e critici dei diritti umani, la libertà di espressione artistica è stata continuamente frenata in questo Paese.

Il regime di Erdoğan utilizza diverse strategie per sopprimere il dissenso politico espresso attraverso l’arte e la cultura. Gli artisti subiscono procedimenti legali ai sensi della Legge Antiterrorismo del 1991 e dell’Articolo 299 del codice penale turco (insulto al presidente della Repubblica), entrambe utilizzate per legittimare la repressione statale contro chi la pensa diversamente. Istituzioni culturali indipendenti, in particolare quelle che producono arte ritenuta contraria alla linea di Governo, sono discriminate negli stanziamenti finanziari statali.

Gli artisti e i centri culturali curdi sono particolarmente vulnerabili. Diverse storie possono testimoniarlo. La cantante e regista Hozan Canê è stata arrestata nel giugno 2018 per il suo documentario “Şengal Fermani”, che includeva filmati di ufficiali militari curdi che hanno combattuto l’Isis in Siria nel 2014. È stata condannata a sei anni e tre mesi di carcere per “appartenenza a una organizzazione terroristica” e per  “diffusione di propaganda per un’organizzazione illegale”. In carcere, a settembre 2019, è stata inoltre accusata di “insulto al presidente” per via di alcuni fumetti condivisi sulla sua pagina Facebook.

Il Centro Culturale İdil con sede a Istanbul, che è utilizzato per suonare musica popolare e per gli incontri del collettivo socialista Grup Yorum, è da tempo sottoposto a frequenti incursioni della polizia, che spesso hanno distrutto strumenti musicali e altri oggetti usati dagli associati. La ricerca di Freemuse dimostra che il centro è stato perquisito almeno 14 volte dal 2018, con tre raid nel 2020.

Dalla nazione turca arriva anche la storia di Mehmet Osman Kavala, noto filantropo ed editore il cui lavoro si è concentrato sulla promozione della comprensione interculturale. Stava allestendo un centro culturale per i rifugiati siriani quando è stato arrestato con l’accusa di terrorismo alla fine del 2017. Nonostante la sentenza della Corte europea dei diritti umani del dicembre 2019 sul rilascio, il 25 aprile 2022 è stato condannato all’ergastolo per “aver tentato di rovesciare il Governo”.

Meral Şimşek vive in esilio in Germania. Accusa di “appartenenza a un’organizzazione terroristica” con il suo racconto “Arzela” , apparso nell’antologia Kurdistan + 100, nell’atto d’accusa. Il 29 giugno 2021 è stata arrestata dalla polizia greca nel tentativo di fuga dalla Turchia, per poi essere deportata sul confine turco, subendo maltrattamenti. Şimşek è stata presa di mira per le sue poesie e per altre pubblicazioni in cui si narra della persecuzione contro i curdi. Ha subito la condanna a un anno e tre mesi di reclusione per diffusione di propaganda terroristica e la condanna a un anno e otto mesi di reclusione per aver “ violato uno spazio militare ”.

Foto da video di Jinha Agency Turkce. La scittrice legge il suo libo di racconti “Arzela”, che la Turchia perseguita poiché parla della repressione dei curdi.

La Cina, secondo l’Indice PEN America 2021, detiene il primato per la repressione di scrittori. I letterati, le cui parole mettono in discussione le opinioni pubbliche prevalenti o sfidano le narrazioni del Partito Comunista Cinese sono particolarmente a rischio di detenzione e reclusione.

La risposta del Governo cinese agli scrittori e agli intellettuali che esercitano i loro diritti universali alla libertà di espressione è rapida e di ampio respiro. E spesso segreta. Tashpolat Tiyip, per esempio, è un accademico di origine uigura ed ex presidente dell’Università dello Xinjiang. Le autorità lo hanno fermato nel 2017 all’aeroporto di Pechino. Si dice che Tiyip sia stato segretamente condannato a morte. Il Governo cinese ha dichiarato alle Nazioni Unite che è detenuto con accuse di corruzione, ma non ha rivelato i dettagli o le condizioni della sua detenzione.

Il pluripremiato musicista Ablajan, che ha scritto più di 400 canzoni è noto per promuovere la cultura e l’identità uigura e per l’impegno a  costruire un ponte con la cultura cinese Han attraverso le sue canzoni bilingue. Il suo arresto risale al 2018, con accuse sconosciute al pubblico.

Jamyang, un blogger e scrittore che ha affrontato temi come libertà di parola, questioni ambientali e movimenti sociali della Cina è stato arrestato nel 2015 e condannato nel 2016 a sette anni e mezzo di carcere per “aver divulgato segreti di Stato”.

Queste storie, purtroppo, non conoscono confini. A titolo esemplificativo, non certo esaustivo delle esperienze di soprusi contro uomini e donne di cultura, si possono citare anche Galal El-Behairy, poeta e cantante egiziano bersagliato per i suoi testi nella canzone di protesta “Balaha” e per un libro di poesie intitolato “The Finest Women on Earth”. È stato condannato a tre anni di prigione nel luglio 2018 per sicurezza nazionale e divulgazione di notizie false. Anche se ha completato la sua condanna a tre anni nel 2021, è stato nuovamente trattenuto con l’accusa di adesione a un gruppo terroristico.

Poi c’è la storia del russo Yury Dmitriev. Poco prima che le truppe di Mosca iniziassero questa ultima incursione in Ucraina, Putin tenne un discorso in cui ha tentato di riscrivere la storia dell’Ucraina e della nazione russa in aderenza ai propri fini. Da anni tiene in prigione lo storico Yury Dmitriev con pretese accuse di pedopornografia. Il suo vero crimine è stato, invece, scoprire e documentare fosse comuni dell’era stalinista, una verità storica che contraddiceva i tentativi di Putin di glorificare la memoria di Stalin.
O ancora Abdullah Al-Duhailan dell’Arabia Saudita, romanziere e sostenitore dei diritti dei palestinesi arrestato nell’aprile 2019 senza  una motivazione ufficiale per la sua detenzione e rilasciato con la condizionale due anni dopo; oppure l’iraniano Khandan Mahabadi che, con altri due membri del consiglio dell’Associazione degli scrittori iraniani, è stato arrestato nel maggio 2019 per essersi opposto alla censura statale.

E ci sono anche lo scrittore queer nigeriano Chibuine Obi, colpevole per il suo “We’re Queer, We’re here”, dove racconta la sua esperienza di omofobia vissuta in Nigeria. Due settimane dopo la pubblicazione è stato rapito. Nel suo lavoro, Obi descrive come il corpo queer nella letteratura nigeriana non è mai ritratto con dignità e rispetto.

In Kenya, l’Alta Corte si è pronunciata in appello sul divieto di riproduzione del film “Rafiki” risalente al 2018 e diretto dal regista Wanuri Kahiu. La trama narra della storia d’amore tra due donne e per questo la messa al bando è stata confermata, considerandola giustificato e costituzionale. Il film era stato bandito “a causa del suo tema omosessuale e del suo chiaro intento promuovere il lesbismo in Kenya contrariamente alla legge e valori dominanti dei kenyoti.”

Campanelli di allarme sulla censura culturale stanno suonando anche negli Usa. Pen America sta denuciando un fenomeno inquietante: la censura di libri in biblioteche di istituti scolastici che trattano tematiche sociali legate alla diversità.

Durante l’anno 2021-22, quella che era iniziata come una modesta attività a livello di singole scuole per sfidare e rimuovere i libri nei programmi delle lezioni, è diventato un movimento sociale e politico a tutti gli effetti, alimentato da gruppi locali, statali e nazionali. La stragrande maggioranza dei libri presi di mira e quindi messi al bando presenta storie sui diritti LGBTQ+ o personaggi di colore e/o tratta di razza e razzismo nella storia americana, identità LGBTQ+ o educazione sessuale.

Repressioni e censure di arte e cultura, quindi, si muovono nel mondo in modo più o meno plateale, ma ugualmente violento e drammatico.

L’ultimo accaduto impattante è avvenuto qualche settimana fa in Ucraina, nel contesto della guerra. I soldati russi hanno ucciso a colpi di arma da fuoco un musicista ucraino nella sua casa dopo che si era rifiutato di prendere parte a un concerto nella zona occupata di Kherson. Il direttore d’orchestra Yuriy Kerpatenko ha rifiutato di prendere parte a un concerto “destinato dagli occupanti a dimostrare il cosiddetto ‘miglioramento della vita pacifica’ a Kherson”, ha affermato il ministero sulla sua pagina Facebook.

Dalla decapitazione di Khaled al-Asaad del 2015 all’uccisione di Kerpatenko sono passati 7 anni, ma il cerchio non si chiude con questi due episodi così crudi: l’assurda paura dell’arte e della cultura continua a spingere verso la violazione dei diritti fondamentali dell’uomo e alla distruzione di opportunità di emancipazione sociale che passa attraverso pitture, graffiti, fumetti, film, poesie, racconti, concerti, contemplazione di antiche rovine.

Violetta Silvestri

Copywriter di professione mantiene viva la passione per il diritto internazionale, la geopolitica e i diritti umani, maturata durante gli studi di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, perché è convinta che la conoscenza sia il primo passo per la giustizia.

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