21 Novembre 2024

Brasile, le vittime invisibili di uno Stato che fa guerra alle favelas

[Traduzione a cura di Chiara Partiti dell’articolo originale di Laís Martins pubblicato su openDemocracy]

Polizia in una favela. Foto da Wikimedia Commons, con licenza CC

Tutti i giorni, da quel 6 maggio 2021, Sandra Gomes dos Santos aspetta di risentire un suono familiare: il cancelletto d’entrata che si apre e il grido “Mamma, sono qui!”. Ogni mattina da quel giorno funesto, Adriana Santana de Araújo si ritrova a controllare il telefono in cerca di un messaggio di “buongiorno” da suo figlio.

Entrambe le donne aspettano invano. I loro figli sono tra le 28 persone uccise durante il raid della polizia che ha mietuto più vittime in tutta la storia di Rio de Janeiro. La polizia, pesantemente armata, ha preso d’assalto Jacarézinho, una delle più grandi favelas di Rio, alla ricerca di trafficanti di droga.

L’attacco è avvenuto pochi giorni prima del Dia das Mães o Giorno della Mamma. Santos e Araújo sono soltanto due delle tante madri che hanno trascorso la festa della mamma a seppellire i loro figli.

Questo è stato solo l’inizio del loro calvario, al quale si aggiunge l’estenuante fatica di vivere. “Ogni giorno dobbiamo trovare un modo per sopravvivere”, ha detto Araújo, mentre Santos annuiva. L’intervista si è svolta in una scuola di samba, distante pochi metri dall’ingresso di Jacarézinho. Santos, che continua a vivere lì non potendosi permettere un affitto altrove, afferma di avere paura della polizia posta a guardia della zona.

La presenza dei poliziotti è prevista dal progetto Ciudade Integrada [Città Integrata], che prevede lo stanziamento permanente delle forze di polizia all’interno della favela, con lo scopo di proteggere i residenti dallo sfruttamento finanziario da parte delle gang. Ma, proprio alcuni tra questi poliziotti hanno preso parte all’operazione durante la quale è stato ucciso il figlio di Santos.

Molte delle madri in lutto soffrono di ansia e depressione. Araújo non ha potuto piangere il figlio maggiore perché consumata dalla preoccupazione che anche il più piccolo le venisse portato via allo stesso modo.

Vi è poca compassione per le donne che soffrono la perdita dei loro cari. Vengono addirittura denigrate. “Sai come ci chiamavano?” ha domandato Araújo. “Un deposito criminale o un utero produttore di criminali. Non sono un deposito per criminali nè ho un utero che dà alla luce criminali”. 

Le madri dei morti di Jacarézinho sono in gran parte invisibili agli occhi dello Stato brasiliano. I loro figli, vittime dirette di violenza di Stato, riempiono le statistiche, ma le donne non vengono considerate, come neanche i padri, o i figli e le figlie rimasti. I parenti delle vittime portano profonde cicatrici che rimangono per lo più invisibili.

Avere figli, partner e fratelli uccisi negli scontri con i gruppi armati è una forma di sofferenza che colpisce particolarmente le donne”, ha affermato José Claudio Souza Alves, esperto di sicurezza pubblica e professore presso l’Università Rurale Federale di Rio de Janeiro. “Queste donne si ammalano e, infine, muoiono”.

Tale affermazione potrebbe sembrare un’esagerazione, ma non lo è. Jozelita de Souza è morta nel 2016, 7 mesi dopo l’uccisione del figlio Roberto a Costa Barros, un altro quartiere povero di Rio de Janeiro. Quattro agenti di polizia hanno sparato più di 100 proiettili contro l’auto in cui si trovava il sedicenne disarmato insieme a quattro amici.

Tuttavia, la polizia ha cercato di far sembrare la chacina, o massacro, autodifesa. I medici hanno dichiarato che Jozelita è morta a causa di un’insufficienza cardiorespiratoria, ma in un articolo pubblicato da una testata locale si legge: “Non riusciva a sopportare la morte del figlio… La parrucchiera è morta di tristezza”. 

Una storia di violenze e fallimenti

La violenza delle operazioni della polizia brasiliana non è una novità, in particolare a Rio de Janeiro. Secondo i dati raccolti dalla ONG Forum brasiliano sulla sicurezza pubblica, la polizia brasiliana ha ucciso 6.416 persone nel 2020. Nello stesso anno, ne ha uccise 1.245 nello Stato di Rio – in base ai dati della Rete degli osservatori sulla sicurezza. Gli omicidi per mano delle forze dell’ordine sono quasi triplicati tra il 2013 e il 2020. 

Alves ritiene che Rio de Janeiro sia segnata da una “politica criminale che lascia prosperare i gruppi armati, anche grazie al loro dialogo diretto con lo Stato. In nome della “guerra al narcotraffico”, la polizia mette in atto operazioni nelle favelas controllate dai cartelli della droga. Ma, come molti esperti hanno da tempo sottolineato, questa strategia non risolve il problema, in quanto le persone uccise e arrestate sono spesso spacciatori di basso rango.

Inoltre, tali operazioni possono semplicemente portare a un passaggio di consegne: un territorio controllato da una fazione o da un gruppo di narcotrafficanti viene poi conquistato da un gruppo rivale, presumibilmente con la complicità della polizia, che “sgombera l’area” consentendo ai rivali di inserirsi.

Il modus operandi di questi interventi consiste nell’annientamento: squadre speciali in assetto da guerra fanno irruzione nelle comunità su veicoli militari, alla ricerca di sospetti.

Questi quartieri densamente popolati vengono trattati come laboratori per iniziative di pubblica sicurezza, molte delle quali si sono rivelate fallimentari. Ciudade Integrada a Jacarézinho rappresenta un test del Governo statale ed è un esempio calzante. L’attuale programma è stato ispirato dalle Unità di Polizia per la Pace (UPP), che hanno aperto la strada al posizionamento di alcune unità nelle favelas di Rio 14 anni fa. 

Tuttavia, la presenza della polizia ha creato uno stato di guerra permanente, che si sta intensificando man mano che entrambe le parti acquisiscono armi più potenti e letali.

Dani Monteiro, membro eletto dell’Assemblea dello Stato di Rio de Janeiro, ha spiegato: “Gli agenti di pubblica sicurezza mi ripetono sempre queste frasi. ‘Abbiamo comprato i fucili perché quando i criminali li avevano, noi avevamo solo pistole. Quando li abbiamo comprati, loro si sono presentati con i 762 (un modello di fucile più potente). Quindi abbiamo comprato anche noi i 762, ma loro sono arrivati con le mitragliatrici pesanti, quindi abbiamo dovuto comprare anche quelle’”.

Politiche pro armi

Gli esperti suggeriscono che l’intensificarsi dello stato di guerra permanente nelle favelas di Rio sia un riflesso del numero crescente di armi in mano ai civili in generale. Questo è il risultato di alcuni cambiamenti politici, tra i quali l’agenda pro armi del presidente Jair Bolsonaro. Dall’insediamento del 1 gennaio 2019, Bolsonaro ha introdotto più di 30 modifiche legali per facilitare l’accesso, da parte dei civili, alle armi da fuoco. Ma la rimozione dei controlli facilita il dirottamento delle armi verso i gruppi della criminalità organizzata.

Il Governo federale, rappresentato da Bolsonaro, sostiene che le politiche a favore delle armi aiuteranno i cittadini a combattere la criminalità, ma in realtà è la criminalità a beneficiare di queste politiche”, ha spiegato Cecília Olliveira, giornalista, esperta di sicurezza pubblica e direttrice esecutiva del database digitale collaborativo Fogo Cruzado.

Il database, che in portoghese significa “fuoco incrociato”, raccoglie dati sulla violenza armata a Rio de Janeiro e Recife nel Nord-Est del Brasile. Ha aggiunto che un più facile accesso alle armi è stato accompagnato da un allentamento del controllo e della supervisione, senza una corrispondente espansione della capacità della polizia di indagare sui crimini armati. 

Nella sua decisione dell’aprile 2021 di sospendere in parte i decreti presidenziali che ampliavano l’accesso alle armi, la giudice della Corte Suprema Rosa Weber ha affermato che il 55% di tutte le armi da fuoco detenute da criminali, erano precedentemente legali, e, solamente in seguito, erano state rubate o vendute illegalmente. Questo, secondo i dati del CPI das Armas, una commissione parlamentare del Congresso del 2006 che ha indagato sul traffico di armi.

Alves, dell’Università Federale di Rio de Janeiro, ha descritto il risultato dell’accesso facilitato come un “incremento delle armi… e dell’insicurezza in tutte le aree”. Coloro che possono permettersi l’acquisto “anche se non coinvolti con gruppi di criminalità armata, si armeranno per autotutela o per trarne profitto”. Ha inoltre aggiunto: “Questa situazione amplia la giustificazione per l’uso di armi da fuoco perché crea una zona di guerra. E nelle zone di guerra, la logica è quella dell’autodifesa armata”. 

La motivazione fornita dalla polizia per il raid di Jacarézinho del 6 maggio 2021 è un esempio di questa mentalità da “zona di guerra”. Secondo la dichiarazione, l’operazione faceva parte di un’indagine sul reclutamento di minorenni da parte dei narcotrafficanti. Ma molte delle famiglie delle vittime affermano che i loro figli erano innocenti e, anche se Araújo ha ammesso che suo figlio, l’autista di mototaxi Marlon Santana de Araújo, era coinvolto nella criminalità, non era altro che un varejista, che in gergo indica le persone all’estremità inferiore della gerarchia del narcotraffico. 

Anche Marlon è stato una vittima, secondo Adriana, perché, in quanto giovane nero di una favela, subiva un tipo di  razzismo strutturale, che lo escludeva da molte opportunità.

Pregiudizio razziale

Le statistiche sui decessi per mano della polizia indicano un chiaro pregiudizio razziale. Nel 2020, secondo i dati raccolti dal Fórum Brasileiro de Segurança Pública (FBSP), una ONG che si occupa di pubblica sicurezza, il 78,9% di tutte le vittime nelle operazioni di polizia in Brasile erano nere. La percentuale è rimasta costante per decenni. Secondo il FBSP, questo dimostra “il deficit nei diritti fondamentali della popolazione nera”.

E se un giovane nero viene incarcerato per un reato minore, c’è sempre la possibilità che si perda per sempre, a causa sia della violenza alla quale è sottoposto, sia dell’esposizione alla rete del crimine organizzato che opera all’interno delle carceri brasiliane.

L’attivista per i diritti umani di Rio Monica Cunha ne ha avuto esperienza diretta con suo figlio Rafael. Arrestato all’età di 15 anni, ha poi trascorso 5 anni in una struttura correzionale dalla quale è uscito trasformato. “Ho visto i cambiamenti di Rafael. Ho visto com’è entrato nel sistema e, come poi, ne è uscito”, ha ricordato. “Il 5 dicembre 2006, quando hanno deposto a terra davanti a me il suo corpo crivellato di proiettili, non era più il mio Rafael. Si è trasformato durante i 5 anni in cui è stato dentro al sistema”.

Cunha ha successivamente fondato Movimento Moleque, una ONG che aiuta le madri delle vittime della violenza di Stato a organizzarsi. E le esorta anche a non permettere agli altri di chiamare “criminali” i loro figli che non ci sono più. 

Non ho dato a nessuno un assegno in bianco per parlare di Rafael”, ha detto. “Sono l’unica autorizzata a parlare di lui. L’ho partorito, cresciuto, allattato al seno. Ho visto quando ha iniziato a cambiare. Nessuno piuò parlare di lui, tranne me. Questo è quello che dico a queste donne: non permettete a nessuno di dire che vostro figlio è un criminale. Potrebbe essere un varejista, perché qui nelle favelas abbiamo soltanto varejistas, ma non criminali”.

Bolsonaro e le Forze Armate brasiliane. Foto da Wikimedia Commons con licenza CC

Dopo il raid di Jacarézinho, Bolsonaro ha utilizzato Twitter per diffamare i parenti in lutto e congratularsi con la polizia per aver uccisospacciatori che derubano, uccidono e distruggono famiglie”. Al momento della sua dichiarazione, non era ancora stata avviata un’indagine da parte della polizia sul reale coinvolgimento degli uomini uccisi in attività criminali. Il presidente è stato anche raffigurato con una targa che riportava le parole “CPF cancellado”, espressione gergale che indicale persone uccise in un’operazione di polizia.

Il numero delle madri in lutto e dei parenti delle vittime della violenza di Stato continua a crescere. A maggio, un anno dopo l’operazione di polizia a Jacarézinho, è avvenuta una sparatoria che ha provocato 23 morti a Vila Cruzeiro, una favela nella zona settentrionale di Rio.

Nessuna azione, nessuna indagine

Nel frattempo, le madri in lutto di Jacarézinho vengono perseguitate dall’inerzia delle autorità. La Procura della Repubblica ha chiuso le indagini su 24 delle morti, accusando gli agenti di omicidio e manomissione di prove in solo 3 dei casi. Il caso di Matheus, figlio di Santos, è tra quelli archiviati. Secondo la madre, il ragazzo è stato ucciso mentre era disarmato e seduto su una sedia di plastica, e aveva un attacco epilettico. “Non aveva droghe addosso e lo hanno ucciso”.

Oliveira, di Fogo Cruzado, ha affermato che l’ufficio del pubblico ministero dovrebbe ritenere la polizia responsabile. “La polizia ha la responsabilità di sorvegliare. L’omissione della Procura della Repubblica autorizza il mantenimento di uno status quo per una forza di polizia che uccide e muore spesso, in questo caso uccidendo più che morendo”.

Effettivamente, ha aggiunto, un’unità all’interno della Procura della Repubblica destinata a sovraintendere le azioni della polizia, è stata privata di personale e risorse, provocando l’accumulo di casi in attesa di indagine.

Il raid di Jacarézinho è stato un’anomalia. Ha attirato l’attenzione nazionale e internazionale, portando di fatto all’avvio di un’indagine. Per molte vittime di violenza armata non ci saranno mai indagini sulle cause della morte. Peggio ancora, i loro corpi non verranno mai ritrovati. Questo onere viene quindi trasferito ai parenti delle vittime, di solito donne, secondo Adriano de Araúlio, sociologo e coordinatore del Fórum Grita Baixada, un movimento sociale che lotta per i diritti umani, la sicurezza pubblica e la giustizia nella regione della Baixada Fluminense, nella regione di Rio Grande.

Normalmente sono le donne a essere coinvolte nella ricerca della vittima. Sono loro che visitano ospedali e obitori, affiggono manifesti, radunano amici per cercare assieme. Sono loro che entrano nei ritrovi dei tossici, parlano con le milizie”, ha detto. “Poi c’è una doppia violenza perché, oltre a non sapere dove sono i loro figli, nipoti o fratelli, devono sentirsi dire che sono state negligenti, che non sono state buone madri o mogli”.

La colpa e la vergogna contribuiscono alla sofferenza delle donne. Molte di loro hanno già problemi di salute precedenti, per mancanza di assistenza sanitaria. “Smettono di prendersi cura di se stesse, smettono di andare agli appuntamenti dai medici, dimenticano di prendere i farmaci perché questa ricerca di giustizia le prosciuga emotivamente”, ha detto Araúlio.ù

Soffrono anche dell’ulteriore onere finanziario causato dalla perdita di una fonte di reddito famigliare, cosa che conta nelle situazioni in cui la donna è già la persona che mantiene la famiglia.

Nessun diritto alla memoria

A un anno dall’operazione, Jacarézinho rimane una ferita aperta. Ogni volta che ci sono segnali di guarigione, la ferita viene squarciata di nuovo. L’11 maggio 2022, a meno di una settimana dal primo anniversario della strage, un semplice memoriale allestito dai parenti delle vittime e da altri residenti della favela è stato demolito dalla polizia. In una scena carica di simbolismo, la piccola targa commemorativa con i nomi di tutte le vittime è stata fatta a pezzi da un caveirão, un veicolo blindato. “Nessuna morte sarà dimenticata, nessuna chacina sarà normalizzata”, recitava la targa.

Memoriali come quello di Jacarézinho sono una dimostrazione di vita e della speranza che la brutalità e l’arbitrarietà saranno ricordate per non essere ripetute”, ha scritto l’illustre giornalista Flávia Oliveira nella sua rubrica sul quotidiano O Globo dopo la rimozione del memoriale. “Il memoriale è stato tolto ai parenti delle vittime del massacro, per mano dello stesso potere pubblico che l’ha provocato”, ha aggiunto.

Nel frattempo, le madri dei morti di Jacarézinho e altre vittime della violenza della polizia stanno facendo del loro meglio per evitare che la storia venga riscritta, o cancellata del tutto, dallo Stato. A Rio de Janeiro e altrove in Brasile, collettivi o gruppi di madri e parenti delle vittime della violenza di Stato lavorano come gruppi di sostegno e come memoriali viventi delle giovani vite perse.

Cunha del Movimento Moleque afferma che le madri hanno un modello: le madri di Acari. Queste donne della favela di Acari di Rio si sono impegnate per scoprire le circostanze del rapimento e dell’omicidio – per mano della polizia – di 11 adolescenti, avvenuti nel luglio 1990. “Loro sono la nostra bussola”, ha detto Cunha. “Grazie a loro ci è chiaro che non possiamo permetterci di fermarci”.

Per queste madri, il dolore e la memoria sono un territorio conteso, ma per il quale continuano a lottare. Per lo Stato sono invisibili, rappresentano soltanto il danno collaterale della violenza armata; ma l’una per l’altra sono fari nell’oscurità.

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