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Quelli che si impegnano a ridare voce, dignità e valore ai detenuti

Ci sono 190 carceri in Italia. Negli istituti penitenziari sovraffollati al 107%, a volte fino al 185% come accade a Brescia, scontano la loro condanna 54.609 persone. Alcuni tra le sbarre ci si ammazzano, già 21 i suicidi da inizio anno, 13 volte più che fuori. Altri, troppi, il 62%, ci tornano per recidiva, nel 18% dei casi anche per più di cinque volte.

Intorno ai detenuti ci sono le guardie carcerarie, mediamente una ogni 1,6 reclusi – più che nel nostro Paese, in tutta la comunità europea, solo in Irlanda. E la pena contempla un obiettivo, costituzionalmente rilevante: riabilitarsi agli occhi della società. Perciò ci sono gli educatori. Quelli non sono troppi, anzi: il rapporto è di uno per 83 prigionieri, addirittura a Busto Arsizio un solo operatore deve occuparsi dei bisogni rieducativi e di reinserimento di 360 detenuti.

Nonostante le evidenze parlino di un drastico abbattimento della recidiva per chi nel tempo della pena è accompagnato su percorsi di reintegrazione in vista del futuro, solo per meno di un terzo della nostra popolazione carceraria c’è un lavoro, quasi esclusivamente alle dipendenze del carcere stesso. E anche la formazione professionale, con grande disparità tra carcere e carcere, latita. Gli altri restano “a deposito,” fermi a non far nulla. Con la loro colpa, la punizione e l’indifferenza del mondo libero.

Le nostre prigioni sono luoghi lontani dalla vista, ma anche dalla coscienza pubblica“, per usare una frase di Don Luigi Ciotti. Ricevono persone, e riescono a restituire alla collettività nient’altro che “ex detenuti – etichetta permanente e indelebile – senza identità né prospettive e che, è assai probabile, torneranno a delinquere a scapito della sicurezza di tutti.

Abbiamo bisogno di dare un senso alla pena, perché lo abbiamo smarrito. I tassi di recidiva ci raccontano di un modello che non funziona e ha bisogno di importanti interventi, aprendosi al mondo esterno, puntando sulle attività lavorative, scolastiche, ricreative, e abbandonando la sua impronta securitaria“, sottolinea in occasione della presentazione del XVIII Rapporto Antigone – Il carcere visto da dentro, il presidente dell’Associazione nata per assicurare “i diritti e le garanzie nel sistema penale”, Patrizio Gonnella.

Il sistema carcerario italiano è ormai “l’ultima frontiera di un welfare in stato di crisi, impressionante dal punto di vista di tutti i problemi sociali e che mostra insieme contemporaneamente“, aggiunge. È la storia di uno Stato assente che mostra forte la tentazione di fare delle persone che hanno vissuto e fatto male “cifre, numeri sui fogli” di cui non doversi preoccupare.

Caine” – documentario Rai (disponibile su RaiPlay) firmato dalla giornalista Amalia De Simone, con la partecipazione della giornalista Simona Petricciuolo e della cantautrice Assia Fiorillo che dà voce, senza sconti né retorica, alle donne degli istituti di pena di Fuorni – Salerno e Pozzuoli – è la fotografia chiara di “tutto il mondo di dentro e tutto il mondo di fuori“.

Giusi, Anna e Bruna al pianoforte con Assia Fiorillo, fotogramma da “Caine”. Foto gentilmente concessa da Amalia De Simone

Le loro storie sono uno spaccato della nostra società, e della cronaca che raccontiamo tutti i giornidice a Voci Globali Amalia De Simone, Cavaliere al merito della Repubblica – Solo che non ci chiediamo quasi mai rispetto ad un detenuto che viene considerato un reietto ‘Perché? Che cosa è successo?’. Se c’è una ragione per quello che ha fatto o se invece è solo il male per il male. Se c’è un pentimento, se si vive con il rimorso o piuttosto si pensa soltanto alla propria vita. Quali frustrazioni si vivono? Quali catene spezza la restrizione della libertà?

Per quasi un anno di lavorazione del cortometraggio, l’autrice e quelle che chiama “le sue compari” hanno vissuto il tempo delle detenute in un’esperienza di incontro e reciproco riconoscersi tra ore d’aria, parole di madri, racconti di marginalità, momenti difficili “come quando a Jessica è morto il padre e non le hanno concesso di fargli visita“. Fino a scoprire persino la paura di uscire, “perché quello del carcere diventa un microcosmo e tu non sai cosa sta succedendo fuori. Fuori la vita va avanti, e tu non sai se sarai accolto, se sarai perdonato, se sarai accettato… Non sai se troverai un lavoro o sarai destinato di nuovo al crimine. E questo fa paura“.

Assia e Amalia portano oltre le sbarre “un senso di normalità” e un confronto franco con l’esternoche penso le abbia aiutate a riconsiderare il proprio vissuto e la possibilità di un futuro. Forse anche la speranza di poter scalfire quella paura di ritrovare fuori il solito mondo che le ha portate a varcare la soglia della cella, e di poterlo invece scavalcare per provare a vivere una vita diversa“.

A fare da filo conduttore di un racconto capace di restituire le dimensioni di un fatto umano con i suoi volti e le sue contraddizioni, c’è la musica. “Io sono Te” è “una canzone scritta a tante mani” nata da questo mischiarsi di vite, che ha in sè la voglia delle detenute di riscrivere la propria storia e tutto quello che chi sta fuori non vuole vedere.

Forse perché ti lancia contro una verità invadente, che “Caino non nasce Caino. Caino diventa Caino perché la società, perché la vita, perché il dolore… Ci sono tante cose che ti fanno diventare Caino. E queste cose forse vanno anche un po’ pesate, perché quando una Caina esce e continua a sbagliare e torna in carcere, tutto sommato, forse, un po’ di responsabilità l’abbiamo anche noi” che non ci poniamo il problema della loro vita, del loro rientrare nella società che sta fuori.

Tutto questo si è manifestato nelle sedie vuote al locale scelto per la presentazione del disco di Assia. Solo due sono state occupate dalle Caine a cui erano state riservate. A qualcuna è stato negato di partecipare sulla base di un’informativa di polizia vecchia di anni, relativa al momento dell’arresto, che si opponeva al ritorno “in quei contesti”.

“Ma quali contesti? Quelli della presentazione di un disco, peraltro alla presenza del direttore del carcere, del capo delle guardie penitenziarie, nonché del capo degli educatori? E poi non dimentichiamolo, sono passati anni. Magari sarà cambiata la vita di questa persona, magari ha preso parte a delle iniziative, ha frequentato la scuola o ha imparato un mestiere“, commenta la reporter del documentario che ha già ottenuto diversi riconoscimenti.

Per le altre non è arrivata nemmeno una risposta, cosa che la dice lunga della considerazione che si ha di queste persone, “che non sono esseri umani. Non sono trattati da esseri umani, ma come numeri“.

Al silenzio di uno Stato che, travolto dalla burocrazia, perde di vista la dignità delle persone che gli sono affidate, rispondono le tante iniziative di attenzione, rieducazione e recupero che arrivano dalla società civile. Una società civile che, questa sì, sceglie uno sguardo diverso e dimostra, offrendo strumenti culturali e opportunità concrete di riscatto, che “dare un senso alla pena si può, e conviene a tutti.

C’è, per fare un esempio, Senza Sbarre, primo esperimento italiano di misura alternativa al carcere di comunità. 

I pastai impegnati nella preparazione dei taralli “A Mano Libera” alla Masseria San Vittore. Foto gentilmente concessa da Senza Sbarre

Mani sporche, qualche volta anche di sangue, ora sanno di riscatto e stanno producendo qualità“. Don Riccardo Agresti, responsabile del progetto diocesano, riassume così a Voci Globali quanto dal 2017 accade in una vecchia masseria nelle campagne di Andria, la San Vittore, e nel suo pastificio per la produzione di 6mila chili di taralli all’anno, tutti fatti A Mano Libera.

Una decina di detenuti ed ex detenuti in accoglienza residenziale e semi-residenziale lavorano insieme, nella e con la comunità che si fa reteintorno all’uomo che ha sbagliato ma che non è il suo errore“. E nell’orto della riparazione piantano e curano alberi per devolverne i frutti alla collettività, per iniziare simbolicamente “un cammino di riconciliazione, discernimento e anche di ricerca, che è il segno della novità“.

Contro il sovraffollamento, e il grave prezzo economico e sociale per le istituzioni e il significato degradante per l’individuo di una pena che è soltanto detenzione, c’è la scommessa vincente di una giustizia penale più progredita e civile, una giustizia che è possibile e funziona se decidiamo di “buttare via lo stigma che loro si sono creati e procurati, ma che noi abbiamo evidenziato ancora di più mettendoli fuori dalle nostre città, dai nostri contesti comunitari“.

E se chiediamo come questo possa realizzarsi, la risposta è semplice: “Se la gente sapesse cos’è il carcere, se iniziasse a capire che chi sta là dentro potrebbe essere suo figlio, perché tutti possiamo sbagliare, beh, io mio figlio non lo terrei rinchiuso senza fargli capire l’errore che ha commesso. Lo metterei, con a fianco i migliori professionisti, in condizione di trovare un’altra via, se lo vuole. Qui lo sperimentiamo ogni giorno, ma lo Stato non investe su questo“.

A Pavia anche i cani abbandonati entrano in carcere perché “le persone sentivano l’esigenza di recuperare l’affetto, l’abbraccio, la condivisione senza giudizi“, ci spiega Vanna Jahier, presidente dell’associazione Amici della Mongolfiera, promotrice dell’iniziativa Qua la Zampa.

Njamke, appena patentato educatore cinofilo, e la sua cagnolina Stella. Foto gentilmente concessa da Amici della Mongolfiera

Già al suo secondo anno di attività, il programma ha permesso ai giovani coinvolti di ottenere il patentino di educatori cinofili, opportunità concreta per il futuro, e anche i cani sono stati abilitati alla pet therapy così che possano entrare anche nel padiglione psichiatrico, “il più triste e abbandonato di tutto il carcere“.

Soprattutto, però, si tratta di portare tra le gabbie l’esperienza del prendersi cura, fatta di relazioni positive, impegno quotidiano e responsabilità verso qualcuno. Si tratta di costruire una storia all’esterno a cui agganciarsi contro il rischio di ritrovare il carcere fuori dal carcere, perché “un detenuto rimane un detenuto anche quando esce, soprattutto lo straniero. La gente difficilmente lo riammette a parità di obblighi e diritti in società“.

Il valore di un riscoprirsi “qualcuno che vale, che può confrontarsi con gli altri alla pari, che può determinarsi da persona libera” sta tutto in due immagini. Quella drammatica – una delle tante di cui l’ex garante provinciale per i diritti dei detenuti Jahier è stata testimone – di “un detenuto che appena uscito ha rubato un paio di scarpe in un negozio per essere riportato in carcere, perché fuori non sapeva da che parte andare“. Di contro, quella di Njiamke che in Stellina, una bella e affettuosa cagnolina, ha trovato “una fortuna enorme e il desiderio grande di uscire e portarla con me“.

Altra iniziativa interessante è Palingen, la start-up a vocazione sociale che affida i tessuti di scarto dell’industria della moda alle mani delle donne recluse nella casa circondariale di Pozzuoli affinché ne nascano creazioni sartoriali etiche e sostenibili. In laboratorio si ricuciono gli strappi con l’obiettivo di rimettere in circolo il capitale umano e i materiali “che altrimenti rischierebbero di andar persi, con un impatto devastante per l’ambiente e la società“.

Il co-fondatore Marco Mazio ci parla di una lampadina che si accende nell’incontro con le detenute, soprattutto le madri, impegnate a riadattare su se stesse vecchi abiti donati al carcere “con grande voglia di riscatto e una grande creatività e sensibilità“.

Le sarte di “Palingen – Social ReGeneration” con il CEO Marco Mazio. Foto gentilmente concessa da Marco Marzio

Il dovere di riconoscere una seconda opportunità per il reinserimento e la partecipazione positiva degli individui alla società sono gli argomenti che l’avvocato partenopeo mette al centro del suo discorso per un’impresa che vuole “farsi ponte tra la realtà detentiva e il mondo fuori“.

Mentre imparano l’arte della sartoria italiana, le collaboratrici, regolarmente assunte e retribuite, “vivono le stesse logiche aziendali che troveranno nel mondo libero, quindi obiettivi, orari, diritti. Ma lo fanno in anticipo sulla fine della pena, cosicché quando saranno fuori avranno – si spera – un orizzonte di vita legittima, oltretutto con un’indipendenza economica che crea emancipazione, con in tasca un mestiere molto richiesto sul mercato, ma soprattutto con la riscoperta di un senso, di una motivazione“.

A Palermo, invece, si può stare Al Fresco con i ragazzi Cotti in Fragranza. La loro storia inizia sette anni fa con un laboratorio per la produzione artigianale di prodotti da forno di eccellenza, con materie prime rigorosamente a chilometro zero, all’interno dell’Istituto penale minorile Malaspina. E cresce tra le mura di Casa San Francesco, ex convento seicentesco nel cuore di Ballarò che diventa giardino bistrot e spazio di co-working aperto alla cittadinanza.

“Se non li gusti, non li puoi giudicare”. Foto gentilmente concessa da Cotti in Fragranza

Nadia Lodato, co-responsabile del progetto insieme a Lucia Lauro, lo descrive a Voci Globali comeun luogo di grande pregio in cui raccontiamo la bellezza delle vite che si riscattano e che cambiano. E non parlo solo dei ragazzi del circuito penale, ma di tutto il gruppo di lavoro fatto di migranti a rischio di fuoriuscita dai sistemi di tutela, ragazzi fuori dalla famiglia, ragazzi disabili, giovani dai poli per senza dimora della città“.

Abbiamo provato a creare quella che ci piace definire l’intelligenza collettiva in cui siamo tutti protagonisti delle scelte e ci trasmettiamo reciprocamente competenze e saperi. E questo funziona. C’è un gruppo che cresce insieme fuori dall’identità estremamente stigmatizzante del carcere, piuttosto con un’identità che ha la voce di tutti“, continua.

Con i biscotti Buonicuore sugli scaffali delle botteghe equosolidali di tutta Italia, la partecipazione di “Al Fresco” all’Alleanza Slow Food dei cuochi – e premiati da Gambero Rosso come miglior Progetto sociale Food nel 2019 – i Cotti in Fragranza non smettono di pensare in grande e rilanciano sul settore turistico per una Svolta all’Albergheria, con l’ambizione di “costruire una comunità economica e sociale accogliente che sappia considerare chi ha un vissuto detentivo non solo persone con dei bisogni, quanto invece veri agenti di sviluppo del territorio“.

Tra le mura del penitenziario milanese di Opera si compiono, invece, Metamorfosi. Una liuteria diventa spazio in cui “il tempo, che in un luogo di reclusione è oppressione, angoscia, qualcosa che annienta le vite, si fa risorsa in un lavoro che insegna la bellezza, la pazienza e la cura, e che riguarda, al di là del fare meccanico, l’animo umano, la cultura e la fantasia. Un lavoro che fa sì che persone si sveglino in un altro modo, stimolati a trovare idee e a misurarsi con le problematiche per realizzarle”. 

Sono queste le parole che Arnoldo Mosca Mondadori – presidente della Fondazione delle Arti e dello Spirito che patrocina il progetto – sceglie per renderci il senso del far entrare in carcere l’arte del fare i violini. Soprattutto, di farlo ridando forma e vita ai barconi naufragati dei migranti, trasformati, come le persone che li e si ricostruiscono mettendosi a lavoro sui legni e sui propri sbagli, in un’Orchestra del Mare che porti per i conservatori d’Europa “un messaggio culturale e di umanità“.

I liutai di Opera a lavoro sul primo “Violino del Mare”. Foto gentilmente concessa da Fondazione delle Arti e dello Spirito

Ai detenuti resta una professione, la fierezza di sapersi testimoni nel mondo dell’altro grande punto cieco della nostra società, quello dei profughi di tutte le guerre e dei morti nel Mediterraneo, “ma anche la gioia di un lavoro che diventa costruire insieme, nonostante il peso insopportabile di una sofferenza che rimane“.

E per quando saranno liberi, per ognuno c’è un punto di riferimento a fare da chiave per il futuro. Lo scrittore lombardo ci presenta Erjugen Meta, uno che ad Opera si è scoperto poeta e presto sarà anche maestro liutaio, da uomo libero, per i detenuti del carcere di Monza: “Lui dice che attraverso le arti, la poesia, i violini, ha trovato se stesso. È riuscito a riconquistarsi la vita, ed è l’esempio di quanto valga seguire il detenuto passo dopo passo, anche attraverso dei momenti difficilissimi e con tutti i limiti immaginabili, con attenzione e ascolto alla persona”.

“Il sistema invece è completamente sbagliato. Il detenuto dovrebbe essere accompagnato nel recupero, non controllato dietro le sbarre. Ci vuole coraggio, e un salto politico geniale, ma sarebbe decisivo. Se per ogni Erjugen Meta ci fosse qualcuno ad ascoltare, sono sicuro che avremmo tutti modo di scoprire qualcosa di diverso su chi sta dall’altra parte”, conclude.

Ci sono 190 carceri in Italia, e 54.609 persone a cui lasciamo credere di non essere all’altezza di un posto alla tavola di quelli che sembrano i giusti. Nemmeno quando da persone libere raggiungono Amalia e Assia a Napoli per portare in dono un paio di bottiglie di vino e andare via in fretta. E invece… “davvero posso stare anche io qui seduta con voi?“. Tante realtà virtuose di questo Paese si stanno facendo carico della responsabilità di dire “Anna, siediti”.

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