27 Aprile 2024

Violenze inter-comunitarie e islamofobia: l’India di Narendra Modi

Distruzione di alcune abitazioni a Jahangirpuri
Distruzione di alcune abitazioni a Jahangirpuri. Foto dell’utente Twitter @rupiiism

Nella notte tra il 16 e il 17 aprile scorso un’eruzione di violenza incontrollata ha devastato Jahangirpuri, un quartiere a maggioranza musulmana di Nuova Delhi. Gli scontri hanno provocato il ferimento di nove persone. Il fattore scatenante è stata l’organizzazione da parte di diverse sigle afferenti alla galassia nazionalista indù di una processione in occasione dell’Hanuman Jayanti (festività in onore del dio Hanuman). Nel quadro della celebrazione la tensione ha raggiunto il suo picco quando alcuni partecipanti hanno tentato di irrompere nella moschea locale.

Le testimonianze riportano la presenza di partecipanti armati di bastoni e spade, oltre alla presenza di bandiere e vessilli color zafferano di richiamo al nazionalismo indù. Nonostante il materiale diffuso online dagli stessi partecipanti e la ricostruzione effettuata dalla stampa, gli organizzatori hanno sminuito l’entità dei fatti. Tra i promotori della processione spiccano personalità vicine  al Vishva Hindu Parishad (Concilio Mondiale degli Indù) e alle sezioni locali del partito Bharatiya Janata Party (Partito del Popolo Indiano). Per contro, una parte dell’opinione pubblica incolpa la stessa comunità musulmana, che avrebbe iniziato lo scontro con un lancio di pietre.

La scelta di Jahangirpuri come luogo per le celebrazioni dell’Hanuman Jayanti non è casuale. Da tempo nel quartiere procede una campagna di smantellamento di edifici ritenuti illegali da parte delle autorità cittadine. La demolizione riguarda principalmente la popolazione musulmana. L’asprezza dei metodi impiegati per portare avanti le operazioni ha sollevato critiche e indignazione. Nonostante il ristabilimento dell’ordine da parte delle forze di polizia, nei giorni successivi sono emerse prove di una possibile complicità di queste ultime nelle violenze a Jahangirpuri.

Nelle scorse settimane anche negli Stati dell’Uttarakhand, Karnataka e Andhra Pradesh si sono susseguite tensioni e scontri tra le due comunità. La mancanza di equidistanza e imparzialità da parte delle autorità sembra essere un comune denominatore anche in altri casi riportati dalla stampa sia indiana che internazionale. I fatti del 16 e 17 aprile si inseriscono in un quadro più ampio di contrapposizione tra il Governo di Narendra Modi e le minoranze del Paese.

La forte polarizzazione è legata alla diffusione nella politica indiana del nazionalismo induista, declinato da Vinayak Damodar Savarkar nel suo pamphlet Hindutva: Who is an Hindu? del 1923. L’ideologia estremista elaborata da Savarkar pone al centro della narrazione politica una Hindu Rashtra (traducibile con Nazione Indù). Il termine postula l’esistenza di una comunità nazionale basata esclusivamente sull’appartenenza religiosa e culturale ai precetti dell’Induismo. Questa sarebbe la cultura superiore e dominante nella pitrbhu (patria). Soltanto gli indù, difatti, possono vantare la coincidenza dei propri luoghi sacri con il territorio indiano (punyabhu). Essi, dunque, dovrebbero essere considerati l’unica realtà politica e sociale originaria dell’Hindustan (letteralmente Terra degli Indù).

A partire dagli anni Ottanta il modello pluralista e secolare dell’era di Nehru entrò in una graduale crisi. L’Indian National Congress di Indira Gandhi e dei suoi successori si trovò a competere con l’insistente presenza del neonato BJP. Appoggiato dalle altre sigle più radicali indù tra cui il VHP e la Rashtriya Swayamsevak Sangh (letteralmente Organizzazione Nazionale dei Volontari), il BJP fece dell’Hindutva e dell’islamofobia le ideologie permeanti del proprio programma politico. L’inizio della parabola nazionalista del BJP è senza dubbio la demolizione della Babri Masjid nel 1992 ad Ayodhya nell’Uttar Pradesh. Dieci anni più tardi, violenti scontri inter-comunitari riguardarono il Gujarat all’epoca governato dallo stesso Narendra Modi.

Fin dalla sua prima elezione nel 2014, Modi e il BJP si sono distinti per una politica estremamente ostile nei confronti della popolazione musulmana. Nel 2019 la controversa legge sulla cittadinanza promossa dal Governo (Citizenship Amendment Act, CAA) generò un forte malcontento tra i musulmani. La risposta delle autorità fu particolarmente violenta e scosse il campus universitario di Nuova Delhi con arresti indiscriminati di attivisti e cariche sugli studenti.

Nello stesso anno il Governo Modi revocò lo status speciale del Jammu e Kashmir, garantito dall’articolo 370 della Costituzione indiana. La polarizzazione continuò a montare fino all’anno successivo. Difatti, il 27 febbraio 2020 a Delhi gli scontri tra militanti indù e musulmani lasciarono sul terreno 53 vittime. Nel quadro dell’emergenza sanitaria della pandemia di COVID-19, il Governo indiano ha assunto un atteggiamento sempre più intollerante nei confronti del dissenso interno.

Auto incendiate durante gli scontri a Delhi
Auto incendiate durante gli scontri a Delhi nel 2020. Foto di Banswalhemant da Wikimedia Commons con licenza Creative Commons

Nel settembre del 2020 il giornalista e attivista di Amnesty International India, Aakar Patel, è stato arrestato con l’accusa di seminare discordia tra le comunità. A scatenare il provvedimento sarebbe stato un tweet piuttosto critico nei confronti dell’atteggiamento di Modi riguardo alla minoranza musulmana dei Ganchi del Gujarat. Nel 2021 lo scandalo internazionale concernente l’acquisto dello spyware israeliano Pegasus ha coinvolto anche l’India. Nonostante le smentite di Modi, lo strumento di sorveglianza sarebbe stato utilizzato per monitorare i possibili “nemici interni”. La sorveglianza ha riguardato principalmente attivisti e personalità critiche nei confronti del BJP.

Recentemente, il BJP e vari ambienti nazionalisti hanno intensificato la loro pressione sulla minoranza musulmana. Dal punto di vista culturale, l’esecutivo di Modi ha promosso una vera e propria revisione della storia dell’India. Ciò ha riguardato in primo luogo il passato musulmano del Paese, con la promozione delle tesi fuorvianti e prive di basi storiche dell’Hindutva. Infine, nel marzo scorso la Corte dello Stato del Karnataka ha sostenuto il bando dell’hijab nelle scuole dello Stato. Tale provvedimento pone un precedente rilevante nei confronti della questione religiosa nel Paese.

Il pericolo per la tenuta della democrazia indiana è reale. Sebbene numerose realtà politiche e culturali stiano portando avanti una lotta serrata per i diritti delle minoranze, le possibilità di un reale cambiamento politico risultano piuttosto complesse. A rischiare la repressione sono anche le comunità indigene degli Adivasi, i cristiani e i jainisti. Essi a loro volta, rischiano l’annullamento della propria identità nell’immaginario nazionalista. Se da una parte la pessima gestione della pandemia ha portato ad un calo del consenso elettorale di Modi, dall’altra l’opposizione appare estremamente frammentata. Nonostante alcuni tentativi di vaste coalizioni anti-BJP in alcuni Stati, il cammino verso un nuovo corso politico appare sempre più distante.

 

Alessandro Cinciripini

Laureato in Studi dell’Africa e dell’Asia presso l’Università di Pavia, interessato a Vicino Oriente, Balcani e diritti umani. Attualmente a Sarajevo dove si occupa di progetti di promozione sociale e interculturale.

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