28 Marzo 2024

Possesso e proprietà privata, così l’Occidente ha plasmato la Storia

[Traduzione a cura di Valentina Gruarin dell’articolo originale di Chandran Nair su openDemocracy]

Indios combattono per riavere le proprie terre
Indios combattono per riavere le proprie terre sottratte dalle multinazionali. Attribuzione: Geraldo Magela/Flickr (CC BY 2.0)

È raro che si discuta del rapporto tra razza e capitalismo, si tratta di un argomento scomodo. Attribuire l’esistenza di certi sistemi economici alle relazioni razziali e alla discriminazione è generalmente considerato riduttivo e, per certi versi, persino razzista.

Eppure, è importante riconoscere l’effettiva origine razziale del capitalismo in Occidente che ha consapevolmente posto le popolazioni bianche, in particolare gli anglosassoni, al vertice della piramide economica. Ciò risulta evidente attraverso l’analisi di uno dei suoi principi fondamentali: la proprietà privata.

L’economista peruviano neoliberale Hernando de Soto ha contribuito a legittimare l’idea, in Occidente e nel mondo, che i diritti di proprietà costituiscano un fattore fondamentale per l’impresa privata, per la mobilità sociale e persino per l’uguaglianza economica. Egli sostiene che la ragione per cui i Paesi in via di Sviluppo non abbiano raggiunto lo status di Paesi ad alto reddito e non siano stati in grado di attuare il capitalismo “correttamente”, non sia attribuibile alle differenze culturali o agli effetti di secoli di sfruttamento, repressione e sistemi di governance inappropriati imposti loro. De Soto sostiene, invece, che la causa risieda nel fatto che le strutture legali della proprietà e dei diritti di proprietà sarebbero estranei ai sistemi locali antichi di secoli, ai costumi e alle tradizioni di questi Stati.

Infatti, il primato della proprietà privata – sostenuto da istituzioni internazionali multilaterali guidate dall’Occidente, come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio – è ora sancito dalle leggi nazionali di quasi tutto il mondo ed è considerato attributo indiscutibile dell’organizzazione e della possibilità di prosperare delle società umane debbano essere organizzate e messe in condizione di prosperare. Ma la verità è che i diritti di proprietà non sono universali: sono un costrutto sociale e non possono essere considerati al di fuori di un contesto storico e socio-culturale.

È fondamentale ricordare che la moderna concezione dei diritti di proprietà privata è stata articolata dai colonizzatori occidentali durante la loro conquista del mondo, dalle Americhe all’India, fino all’Australia. Per legittimare l’atto immorale (e ora illegale) dell’accaparramento delle terre, i coloni bianchi occidentali istituirono i diritti di proprietà, sanciti da leggi locali e internazionali e messi in atto attraverso l’istituzione delle prime corporazioni del mondo (la famigerata Compagnia delle Indie orientali, per esempio) che avevano lo scopo di salvaguardare i “guadagni illeciti” provenienti dal saccheggio.

Eppure le potenze coloniali non hanno mai rispettato i diritti di proprietà altrui. In India, gli inglesi imponevano tasse alla popolazione locale: una parte di questi guadagni veniva utilizzato dagli inglesi per comprare terre (e beni) a buon mercato dai contadini indiani che ignoravano i principi delle leggi britanniche o i valori commerciali dei beni. Uno studioso ha calcolato che, tra il 1765 e il 1938, il Regno Unito, tra gli altri crimini commessi, abbia sottratto 45 trilioni di dollari all’India.

Dal 1776, negli Stati Uniti, sono stati confiscati circa 1,5 miliardi di acri di terra alle popolazioni native –  un’area grande circa 25 volte il Regno Unito. L’intera isola di Manhattan fu acquistata per soli 24 dollari (equivalenti a circa 950 dollari nel 2012). Una volta che la terra venne conquistata, rubata o acquistata ingiustamente, porzioni molto piccole di essa furono suddivise e concesse ai nativi americani. Nel 1864 per mano del presidente Lincoln, il popolo Chehalis vide il suo territorio ridotto da cinque milioni di acri a soli quattromila acri. La civiltà nativa americana, che credeva nella condivisione dei beni pubblici e nel concetto di proprietà comune, si ritrovò nella posizione di affittuaria della propria terra.

Come disse nel 1885 il capo Crowfoot della tribù americana dei Piedi Neri: “La nostra terra vale più del vostro denaro. Durerà per sempre. Non perirà nemmeno a causa delle fiamme del fuoco. Finché il sole splenderà e le acque scorreranno, questa terra sarà qui per dare vita a uomini e animali. Non possiamo vendere la vita degli uomini né quella degli animali, perciò non possiamo vendere questa terra”.

Inutile dire che sia negli Stati Uniti che in India (ma anche in Australia, in molte nazioni africane, in Sud America e nel Sud-Est asiatico), il periodo coloniale ha avuto impatti duraturi: intere popolazioni sono state private dei loro diritti e soffrono ancora oggi di povertà intergenerazionale.

Eppure, l’immensa capacità dell’Occidente di generare ricchezza dall’accaparramento coloniale delle terre altrui nonché dall’impossessarsi dei beni pubblici e comuni, è stata talmente allettante da diventare parte integrante dei rapporti economici e sociali odierni – sia per le proprietà materiali che per quelle immateriali. La ricchezza dell’Occidente è stata così fondata, accresciuta e trasmessa per generazioni, rafforzando i poteri economici e i privilegi delle popolazioni bianche.

Questa concezione del mercato si è ora evoluta in un sistema di privatizzazione attuato tramite brevetti e altri strumenti legali, consentendo così anche alla conoscenza e alla creatività collettiva di essere convertite in proprietà privata. Le società multinazionali hanno persino cercato di brevettare conoscenze e prodotti indigeni.

La creatività e le opere dell’uomo sono ora considerati “proprietà intellettuale”: obiettivo primario di questa proprietà è la creazione di profitto per coloro che, anche se illegittimamente, la detengono. Un esempio attuale è il rifiuto delle aziende occidentali di condividere la composizione del vaccino contro il COVID-19 con i Paesi in via di Sviluppo, scavalcando la salute nonché il benessere di miliardi di persone in nome del profitto.

Dobbiamo riorganizzare le nostre economie

Viste le attuali crisi globali, tali sistemi devono essere sostituiti al fine di creare società più giuste ed eque. È necessario smantellare il privilegio delle popolazioni bianche perché perpetua nozioni di prosperità ormai arcaiche, basate sulla creazione di ricchezza privata e fondate quindi su sistemi ingiusti; un numero crescente di persone nel mondo post-occidentale stanno raggiungendo questa consapevolezza.

Ciò non significa che il capitalismo – o i modi in cui organizziamo le nostre economie – debba essere smantellato o abbandonato, ma quantomeno rimodellato (in particolare il suo approccio alla proprietà) e reso più giusto, equo e sostenibile. Le nostre economie dovrebbero essere organizzate su sistemi che non dipendano da idee formulate sull’eccezionalità, sul diritto e l’esclusività.

Prendiamo come esempio il mercato immobiliare di Hong Kong, un prodotto dell’impero coloniale britannico. Gli interessi di proprietà privata di persone fittizie – cioè corporazioni che controllano una porzione significativa di proprietà nella città – hanno creato una bolla immobiliare enorme. La popolazione locale è stata così esclusa dal mercato immobiliare dei propri quartieri e sta lottando per poter acquistare case di proprietà (al momento i proprietari effettivi costituiscono appena il 49,8% della popolazione). Nel frattempo a Singapore il Governo ha implementato delle politiche per l’approvvigionamento di alloggi pubblici di alta qualità e a basso costo, che ha portato a uno dei più alti livelli di proprietà di case nel mondo, il 91%, laddove l’80% della popolazione vive in alloggi pubblici.

Per affrontare le complessità del XXI secolo, dobbiamo mettere in discussione gli elementi centrali del capitalismo moderno e come essi siano stati creati per sostenere, oggi come in passato, il privilegio economico dell’Occidente bianco. Inoltre è necessario iniziare a progettare e implementare modelli più equi e sostenibili che valorizzino i beni comuni e la prosperità comune.

 

Valentina Gruarin

Laureata in Storia e Politica Internazionale, specializzata in Politiche Europee. Si interessa di politica estera dell'UE con uno sguardo particolare alle zone del Nord Africa e Medio Oriente. Ha frequentato un corso di formazione "analista euro-mediterraneo" presso l'Istituto Affari Internazionali. Laureata con il massimo dei voti, ha svolto una tesi magistrale attorno al tema delle teorie post-development, alternative non-eurocentriche al concetto di sviluppo.

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