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Salute mentale infantile, dramma trascurato da Governi e società

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Nei quattro angoli della Terra, troppi bambini e adolescenti – ricchi o poveri – convivono con un disturbo mentale. Siamo di fronte a una crisi sociale incombente, che richiede strategie urgenti e innovative di prevenzione e azione. Henrietta Fore, Direttore Esecutivo UNICEF

La pandemia da Covid-19 ha avuto il “merito” di sdoganare – almeno sul piano del dibattito internazionale – il tema della salute mentale giovanile.

Le misure di lockdown adottate dai Governi per fronteggiare l’emergenza sanitaria hanno coinvolto oltre 332 milioni di bambini e adolescenti nel mondo con un impatto devastante sul loro benessere psicologico e psicosociale.

L’interruzione della routine, dell’istruzione, delle attività ricreative, dei contatti sociali con i coetanei, così come la profonda apprensione per il reddito familiare e la salute, hanno finito con il rendere molti giovani spaventati, arrabbiati, preoccupati per il proprio futuro, determinando un’allarmante crescita dei disturbi di ansia e depressione.

Una ricerca cinese, condotta nei primi 4 mesi del 2020 a Wuhan, rilevava l’aumento di sintomi depressivi nel 22% e di sintomi ansiosi nel 18,9% dei partecipanti, studenti di scuola primaria e secondaria. Non troppo diversa, mutatis mutandis, la condizione dei giovani in Kenya, Brasile, Libano, Australia e così via.

Il 14% dei genitori statunitensi – in base ai risultati di un sondaggio nazionale svolto a marzo 2020 – dichiarava un netto peggioramento dei problemi comportamentali dei figli.

Mentre, in Canada, il 57% degli adolescenti di età compresa tra i 15 e 17 anni valutava come peggiorata la propria salute mentale rispetto al periodo precedente l’inizio del distanziamento sociale. E il 70% tra i 10 e i 17 anni riferiva di sentirsi “annoiato e solo”.

Riguardo all’Italia, le conclusioni preliminari dell’indagine svolta dall’Università di Harvard su 3.251 famiglie con figli minori di 18 anni – resi noti a giugno 2020 – mostravano come nel 65% e nel 71% dei bambini rispettivamente di età minore o maggiore di 6 anni fossero insorte problematiche comportamentali, sintomi di regressione, aumento di irritabilità, stati di ansia, disturbi del sonno.

La situazione generata dalla pandemia rappresenta però solo la punta dell’iceberg di un fenomeno mondiale da e per troppo tempo sottovalutato, ignorato.

I dati emersi dal primo studio globale dell’UNICEF – pubblicato il 5 ottobre – rivelano infatti una realtà sconcertante. Secondo il report, più di 1 adolescente su 7 (tra i 10 e i 19 anni), convive con un disturbo mentale diagnosticato: 89 milioni sono ragazzi e 77 milioni ragazze. I tassi in percentuale sono più alti in Medio Oriente, Nord Africa, Nord America ed Europa Occidentale.  Inoltre, quasi 46.000 adolescenti muoiono a causa di suicidio ogni anno – più di uno ogni 11 minuti.

Ansia, depressione, autolesionismo, attacchi di panico, disturbi alimentari, bipolarismo, autismo, stress post-traumatico – per citarne alcuni – non sono quindi elementi nuovi all’universo infantile e adolescenziale.

Le ragioni della scarsa attenzione, sia istituzionale sia sociale, rispetto alla salute mentale giovanile sono facili da rintracciare.

Il solo termine “malattia mentale” costituisce, invero, ancora oggi una sorta di tabù attorno al quale ruotano pregiudizi e discriminazioni. I disturbi psicologici, nell’immaginario collettivo, sono tuttora considerati come sinonimo di “follia”. E trattati soprattutto attraverso un approccio clinico, che non tiene conto né delle cause scatenanti il disagio psichico né delle potenziali conseguenze per la crescita e lo sviluppo del bambino/adolescente.

Dalle mie parti, se qualcuno va dallo psicologo viene definito pazzo”, racconta un 14enne egiziano in uno dei “focus group” creati dalla GEAS (Global Early Adolescent Study), organizzazione no-profit di stanza a Baltimora.

Nessuno vuole davvero parlare di ‘malattia mentale’. È uno di quegli argomenti ansiogeni da evitare”, gli fa eco una ragazza svedese. “Ma quando sai di avere un problema e non puoi condividerlo, quel problema ti divorerà” aggiunge un piccolo keniota.

In altre parole, lo stigma è un forte deterrente per i giovani, che tendono a non chiedere aiuto, a non esplicitare il proprio disagio mentale. Temono di essere giudicati dai genitori, dalla scuola, dagli amici, dalla propria comunità. Questo silenzio si traduce in un costo economico enorme per la società, che diventa incalcolabile, dal punto di vista umano, per i diretti interessati e le loro famiglie.

D’altro canto, le famiglie di origine spesso non hanno gli strumenti per capire, ovvero intervenire a sostegno dei ragazzi.

In alcuni casi, dominate da stereotipi culturali, sono infatti spinte a minimizzare, nascondere, negare il problema.

In altri casi, invece, si trovano nell’impossibilità – pur volendo – di tutelare il benessere mentale dei propri bambini/adolescenti poiché all’interno della società di appartenenza mancano i servizi socio-sanitari adeguati o l’accesso agli stessi risulta oltremodo complicato.

Del resto, tutti i Governi – ad eccezione di alcuni ad alto reddito – spendono “meno del 2% dei loro budget sanitari per la salute mentale”. A dirlo le ultime stime dell’OMS. Non solo, “la maggior parte della spesa dichiarata è destinata agli ospedali psichiatrici”.

Nel continente africano, ad esempio, “gli investimenti sulla salute mentale rimangono assai bassi, con una spesa pubblica inferiore a 1 dollaro pro capite”, ha spiegato il dott. Matshidiso Moeti, Direttore Regionale dell’OMS per l’Africa.

In diversi Stati africani non esistono neppure normative e politiche mirate. Mentre i servizi di assistenza sono alquanto carenti così come il personale qualificato. Anche laddove sono presenti psicologici clinici e psichiatri infantili, la media è 1 ogni 4 milioni di abitanti. E di norma operano nelle città più grandi, irraggiungibili dalla maggior parte della popolazione a rischio.

Non va certo meglio in Europa, dove – in linea con un trend globale – le cure per la salute mentale avvengono soprattutto negli ospedali psichiatrici o comunque comportano l’uso eccessivo di farmaci psicotropi con effetti nefasti sullo sviluppo dell’infanzia.

Non a caso Dunja Mijatović – commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa – ad aprile scorso ha espressamente chiesto agli Stati membri l’adozione di riforme coraggiose in materia di servizi per la salute mentale.

Mijatović ha evidenziato la necessità di affermare un modello comunitario di assistenza sanitaria mentale fondato sul rispetto dei diritti umani e incentrato sul recupero del giovane individuo. Ricordando, fra l’altro, che il suicidio è una delle principali cause di morte tra gli adolescenti europei.


Video tratto dal canale YouTube di Global Early Adolescent Study

Il Comitato ONU sui diritti dell’infanzia, già nel 2003, aveva riconosciuto il diritto di ogni minore “di essere curato e assistito, per quanto possibile, all’interno della comunità in cui vive”. Precisando che “qualora l’ospedalizzazione o l’istituzionalizzazione fosse ritenuta necessaria, tale decisione dovrebbe essere presa in conformità con il principio dell’interesse superiore del bambino“.

L’assistenza mentale basata sulla comunità risulta di gran lunga più efficace nel trattamento dei disturbi psichici poiché unisce alle cure mediche l’inclusione sociale, mettendo al centro la persona ed eliminando le pratiche coercitive. Lo dimostrano i risultati ottenuti in alcuni Paesi, quali: India, Myanmar, Nuova Zelanda, Perù, Norvegia, Regno Unito, Ruanda.

In Italia, il “modello triestino” è stato ritenuto dall’OMS uno standard mondiale per la psichiatria di comunità. “A partire dagli anni Settanta-Ottanta, nella città di Trieste – grazie al lavoro di Franco Basaglia – si sono sviluppati servizi di salute mentale e di medicina di comunità all’avanguardia”, ha dichiarato la dottoressa Maria Grazia Cogliati Dezza nel corso di un’intervista a un noto giornale nazionale online.

I servizi per l’età evolutiva offronoun’assistenza tesa ad assicurare la presa in carico multidisciplinare (…), prendendosi cura del bambino e dell’adolescente in collaborazione con la famiglia” e “sostenendone lo sviluppo all’interno della rete di comunità”.

Ora, va considerato che i fattori di rischio determinanti un disagio psichico giovanile sono molteplici. Ma non hanno necessariamente carattere biologico. Anzi, spesso dipendono dall’esperienza individuale del bambino/adolescente in connessione all’ambiente circostante e al mondo esterno.

Anzitutto, assume rilevanza il contesto familiare. In particolare, la tipologia di accudimento, l’educazione impartita, le aspettative genitoriali e la conseguente pressione esercitata sul bambino. Fino ad arrivare a situazioni di estrema gravità che includono abusi, violenze domestiche, maltrattamenti di vario genere.

Ci sono tanti genitori a cui non importa nulla delle proprie figlie”, che si sentono ripetere “sei arrivata per sbaglio, non ti vogliamo”. Questo può provocare “sentimenti negativi e spingere una ragazza a odiarsi per essere venuta al mondo”. A parlare, è una giovane giordana durante le interviste condotte dall’Unicef per la redazione del già menzionato “Global Study”.

In secondo luogo, a modellare e influenzare la salute mentale di bambini/adolescenti intervengono una serie di condizioni “esterne” che abbracciano povertà, discriminazione razziale e di genere, catastrofi naturali, emergenze sanitarie, conflitti armati, crisi umanitarie, emigrazione.

Non dimenticherò mai ciò che ho sperimentato nel corso del mia viaggio. Nessuna parola è abbastanza adeguata per descrivere quanto mi sentissi solo e infelice”. Lo stato d’animo di questo 18enne etiope è comune alla maggior parte dei bambini e adolescenti migranti. L’esperienza migratoria può infatti causare pesante stress, ansia, traumi emotivi profondi.

La “buona notizia” è che tutti questi fattori hanno un fondamentale elemento in comune: sono modificabili.

Ragion per cui l’azione delle istituzioni nazionali e internazionali diventa non solo urgente ma imprescindibile. Occorrono programmi e politiche tese a proteggere la “salute mentale” nonché a promuovere la cultura del “benessere psicologico”, quale strumento attraverso cui “una persona può realizzarsi, superare le tensioni quotidiane, svolgere un lavoro produttivo e partecipare alla vita della propria comunità”.

Vale la pena ricordare, parafrasando Henrietta Fore, che: “trascurare la salute mentale e il benessere di bambini e adolescenti” vuol dire “compromettere la loro capacità di apprendere, sviluppare, costruire relazioni stabili e dar un significativo contribuito al mondo”.

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