27 Luglio 2024

Zak Kostopoulos, storia dell’attivista greco morto di pregiudizio

È il 21 settembre del 2018. È venerdì, ed è da poco passata l’una di pomeriggio. Zacharias Kostopoulos esce dalla stazione della metropolitana di piazza Omonia, nel centro di Atene. È al telefono con un’amica. “Non agganciare, c’è un motivo” , le dice. La ragazza chiede preoccupata a Zak se si trovi in pericolo. “Non lo so, forse”, risponde lui. Poco dopo la telefonata si interrompe.

Circa un’ora dopo, attorno alle 14.30, l’impiegata di un ufficio collocato all’angolo fra viale Patision e via Veranzerou sente una voce maschile gridare aiuto per strada. È Zak che, visibilmente preso dal panico, cerca di fermare due ragazze che camminano sul marciapiede. Le due donne lo evitano, e lui attraversa Patision dirigendosi verso via Gladstonos.

Ciò che spaventa Zak nel tragitto dall’uscita della stazione di Omonia all’imbocco di via Gladstonos non è chiaro. È ben chiaro, però, ciò che accade da questo momento in poi: i video che immortalano gli ultimi momenti di vita dell’uomo sono vari e ripresi da più angolazioni.

Zak è introppolato all’interno di una gioielleria. Afferra un estintore, con il quale cerca di sfondare la porta d’ingresso. Nell’inquadratura appare un uomo in maglietta rosa che lancia oggetti addosso a Zak attraverso la vetrina del negozio. È Spyridon Dimopoulos, il proprietario della gioielleria. Zak, in evidente stato di shock, si butta per terra e cerca di uscire dal negozio gattonando attraverso la parte inferiore della vetrina. Dimopoulos, coadiuvato da Athanasios Chortarias – proprietario di un’agenzia immobiliare a pochi metri dalla gioielleria -, colpisce la vetrina con un calcio. I vetri si infrangono sulla testa di Zak, che si accascia a terra.

Dimopoulos e Chortarias si accaniscono con violenza su Zak. Lui, inerme e sanguinante sul cemento di via Gladstonos, cerca di schermarsi come può. Ma i calci non si fermano: i due uomini continuano a colpirlo con furia su testa e collo.

Quando la polizia giunge sul posto Zak è moribondo. Si alza, corre barcollando per qualche metro per poi accasciarsi sul tavolino di un bar e crollare a terra. I poliziotti lo inseguono. Sono in nove, e in pochi secondi gli sono addosso. Lo bloccano con violenza e lo ammanettano, benché lui non sia ormai più in grado di reagire. Quando è immobilizzato a terra i poliziotti continuano a picchiarlo con calci e manganelli.

Quando il personale sanitario raggiunge finalmente via Gladstonos, Zak è in fin di vita. “Perché avete ammanettato un morto?” è la domanda che uno dei medici rivolge ai poliziotti sul posto.

Zacharias Kostopoulos muore durante il trasporto in ospedale, legato alla barella e ancora ammanettato con le braccia dietro la schiena. I medici ne certificano il decesso alle ore 15.14 del 21 settembre 2018.

Nei giorni successivi notizie affrettate e inesatte si susseguono sui principali media nazionali. Si parla inizialmente di un tentativo di rapina perpetrato da un tossicodipendente. Secondo la versione dominante, Zak avrebbe avuto un coltello e sarebbe deceduto non a causa delle percosse, ma bensì della massiva assunzione di sostanze stupefacenti. Tutte ipotesi ben presto smentite – e comunque non sufficienti a giustificare una tale furia omicida da parte degli aggressori e della polizia.

I video messi a disposizione delle indagini dimostrano che Zak non era affatto armato, e che il coltello sarebbe apparso sulla scena del pestaggio solo successivamente. L’esame forense corrobora questo scenario, stabilendo che sull’arma non sono presenti tracce indiscutibilmente riconducibili a Zak. A ciò si aggiunge l’esito dell’autopsia, che indica un arresto cardiaco dovuto al violento pestaggio come causa diretta del decesso.

Le circostanze poco chiare e i depistaggi che vanno via via delineandosi fanno sorgere innumerevoli domande: comincia a farsi largo l’ipotesi di un vero e proprio omicidio a sfondo omofobico. Il che appare più che verosimile, se si considera chi era e cosa rappresentava Zak.

La gioielleria di via Gladstonos, trasformata nel memoriale di Zak

Zacharias “Jacques” Kostopoulos, classe 1985, era un attivista queer. Strenuo difensore dei diritti delle persone lgbtqi+ e sieropositivo, era impegnato su vari fronti: divulgatore di corretta informazione sulla salute sessuale e sulla sieropositività, volontario in un centro diurno per le lavoratrici del sesso, impiegato nel centro di prevenzione HIV di Atene.

In uno dei vari video realizzati per condividere la sua esperienza da sieropositivo ed abbattere lo stigma, Zak si esprime così:

“Vivo con l’HIV da quattro anni ormai e lo definirei come un viaggio, ma non del tutto spiacevole. […] Può sembrare terrificante, può sembrare qualcosa che non sei in grado di gestire ma, credimi, puoi farlo. Puoi vivere una vita piena e felice con l’HIV, purché non lasci che prenda il sopravvento e non ti arrendi. 

So che una diagnosi di HIV comporta stigma, discriminazione e stereotipi. Ma non c’è niente di cui vergognarsi. Non importa cosa dicono gli altri, il fatto che tu abbia l’HIV non ti rende indegno o sporco. […] Troverai altre persone che si sentono come te e la pensano come te, che ti ameranno e ti sosterranno per quello che sei. Perché fondamentalmente rimani sempre la stessa persona di prima.

Non arrenderti. Continua a sorridere. Combatti lo stigma, combatti lo stereotipo, sii te stesso e ama.”

Nel 2015 Zak comincia a esibirsi nei locali di Atene come drag queen, sotto lo pseudonimo di Zackie Oh. O forse sarebbe più corretto dire che Zackie Oh era un vero e proprio alter ego, lo strumento con il quale Zak riusciva a riappropriarsi di quella libertà che la società patriarcale ed eteronormata non gli concedeva. In un’intervista pubblicata su MarieClarie.gr, Zak descrive così il suo rapporto con il drag show:

“Il drag in generale, per me, è un modo per esprimere le cose attraverso il prisma dell’umorismo, della decostruzione, dell’autosarcasmo. Si tratta di creare un personaggio che prima di tutto si prenderà gioco di te e poi di tutti gli altri. È un modo per esprimere altri aspetti di te stesso, per esprimere il tuo genere in modo diverso, generalmente per trovare un modo per esprimerti senza avere nulla che ti etichetti. Perché il drag è così fuori dagli schemi e dalle norme che, anche volendo, non lo si può classificare. 

Non so esattamente come spiegarlo, ma indossare tacchi e trucco ti da improvvisamente il coraggio (o anche l’audacia, se vuoi) di dire e fare quello che diavolo vuoi. Perché è di per sé così al di fuori dei limiti fissati dalla società che, in realtà, non senti di poter fare qualcosa di sbagliato Perché, secondo il social must, hai già commesso l’errore più grande. Sei un ragazzo con trucco pesante e tacchi alti. Quindi hai già abbattuto ciò che ti tratteneva e hai – ti senti – completa libertà.”

Via Gladstonos, ribattezzata "Via Zackie Oh"
Via Gladstonos, ribattezzata “Via Zackie Oh”

Zak era un elemento sovversivo. Una cellula impazzita, secondo i canonici schemi interpretativi. Difficilmente incasellabile e potenzialmente destabilizzante, a maggior ragione all’interno di una società – quella greca – che, seppur segnata da significativi passi avanti nel rispetto dei diritti delle persone lgbtqi+, rimane ancora profondamente conservatrice e tendenzialmente omofoba.

Nel 2015 il Governo greco, allora presieduto da Alexis Tsipras, approva una legge che istituisce le unioni civili fra coppie dello stesso sesso. La proposta passa con un’approvazione che sfiora i due terzi dei seggi in Parlamento, segnando una vittoria storica contro la preponderante influenza della Chiesa Ortodossa.

Nel 2017, sempre sotto la presidenza Tsipras, il Parlamento approva una proposta di legge che consente di dichiarare un genere diverso da quello biologico sui documenti ufficiali.

Ancora, nel 2018 – pochi mesi prima dell’assassinio di Zak -, passa una modifica legislativa che consente l’adozione alle coppie dello stesso sesso legate da un’unione civile.

Eppure, nonostante i progressi legislativi, i dati indicano che il ventre della società greca rimane ancora ben distante dall’accettare stili di vita che sfuggono all’etichetta binaria ed eteronormata. Equaldex riporta infatti i risultati di alcuni sondaggi effettuati fra il 2017 e il 2020, rivelando un orientamento dell’opinione pubblica non molto confortante.

Alla richiesta di indicare i gruppi di persone che l’intervistato non gradirebbe come vicini di casa, il 33.3% ha menzionato le persone omosessuali. Una percentuale significativa, se la si compara con il risultato delle medesima indagine effettuata in Italia – paese di certo non famoso per il suo progressismo gay-friendly: nel campione di intervistati, solamente l’11.8% ha indicato le persone omosessuali come vicini di casa sgraditi.

Ancora, secondo il 38.3% degli intervistati in Grecia l’omosessualità non è mai giustificabile. I dati raccolti in Italia rivelano invece che solo per il 22.1% degli intervistati vale la medesima opinione.

Infine, ben il 65.5% del campione greco analizzato non considera le coppie omosessuali valide come genitori, contro il 42.2% del campione italiano.

Le percentuali rivelano un sentire quotidiano che si discosta da quel progressismo legislativo del triennio 2015-2018. Un sentire profondo, viscerale che si è manifestato in tutta la sua purulenza nel caso di Zak, tanto da portare anche Amnesty International a delineare la vicenda come un’aggressione a sfondo omofobico: nella petizione lanciata dall’ONG dopo la morte dell’attivista si chiede infatti non solo un processo equo, ma anche una specifica indagine per accertare il ruolo che il movente di odio ha giocato nel pestaggio.

Murales in ricordo di Zak/Zackie nel quartiere di Exarchia, Atene

Odio che effettivamente emerge in tutta la sua crudezza nel racconto di un testimone oculare, Philippos Karagiorgis, divenuto poi uno dei teste nel processo sulla morte di Zak:

“È stato un linciaggio. Non c’è altro modo per descriverlo. Era a quattro zampe come un bambino, cercava disperatamente di strisciare attraverso il vetro in frantumi della vetrina del negozio. Ogni volta che cercava di alzarsi, questi due uomini lo prendevano a calci in testa, ancora e ancora. C’era molta confusione, molte urla. Quello che non dimenticherò mai fu l’apatia della folla, la gente seduta nei caffè che guardava come se fosse un film, quando invece era la cosa più aggressiva e disumana che avessi mai visto. La mia anima si è rabbuiata, quel giorno.”

Un’ulteriore conferma arriva dalle parole del fratello minore di Zak, Nikos Kostopoulos, che al Guardian racconta:

“Quando sono andato sulla scena del crimine il giorno dopo, ho chiesto ai camerieri dei bar di fronte cosa fosse successo e tutti mi hanno detto ‘Si è tagliato la gola‘. Sulla base dell’autopsia, si tratta semplicemente di un’affermazione non vera e io continuo a chiedermi: perché hanno dovuto mentire? Zacharias è stato vittima del pregiudizio. Era molto aperto, molto espressivo. Camminava per strada e spesso la gente gli lanciava insulti. Credeva nella libertà.

Onestamente credo che siano state tutte le cose contro cui mio fratello si opponeva – patriarcato, stigmatizzazione, stereotipi – ad ucciderlo, in fin dei conti. Zacharias era percepito come inferiore. Quello che è successo veramente sarebbe stato insabbiato se la gente non si fosse fatta avanti con i video.”

L’analisi di Nikos Kostopolous è probabilmente corretta, considerando l’andamento delle indagini e del processo che ne è seguito.

Le lacune investigative riscontrate sono infatti state tante ed evidenti: basti pensare che dopo il trasporto di Zak in ospedale nessun agente si è preoccupato di prendere in custodia gli aggressori, né tantomeno di circoscrivere la scena del crimine. Come emerso dalla testimonianza di uno dei poliziotti, l’ordine di tornare in via Gladstonos per sigillare l’area attorno alla gioielleria arriva solamente un’ora e mezza dopo; nel frattempo, alcuni video mostrano chiaramente Spyridon Dimopoulos intento a ripulire la zona, del tutto indisturbato.

Inoltre, l’ordine di custodia del secondo aggressore viene emanato con giorni di ritardo. In questo lasso di tempo Athanasios Chortarias rilascia una serie di dichiarazioni false e fuorvianti rispetto all’accaduto – sia sui propri canali social che ai media -, alimentando quella bolla di depistaggio creatasi immediatamente dopo la morte di Zak.

E anche una volta avviato il processo, uno dei punti fondamentali per un’equa risoluzione del caso è stato tralasciato: nonostante l’ordine del procuratore della Corte Suprema di fornire elementi investigativi atti ad accertare l’eventuale movente di odio, nulla è stato fatto da parte della polizia per ottemperare alla richiesta. E come fa notare uno degli avvocati dell’accusa, “indipendentemente dal fatto che si fossero resi conto o meno che era gay, questo crimine è razzista in senso sociale, vale a dire, lo hanno considerato come una persona emarginata e quindi meritevole di essere trattata in quel modo, sia nel non assisterlo che nell’arrestarlo.”

Fra depistaggi e ritardi, il processo per la morte di Zak è iniziato il 21 ottobre del 2020. Le persone chiamate a rispondere per l’omicidio dell’attivista sono sei: Dimopoulos, Chortarias e solamente quattro dei nove poliziotti intervenuti a via Gladstonos – punto, anche questo, controverso che gli avvocati dell’accusa contestano.

La procedura, interrotta a causa delle misure anti-covid, riprenderà con una nuova udienza fissata per il prossimo 20 ottobre. Le premesse non lasciano ben sperare, ma le richieste di giustizia per Zak non si fermano.

Come accade ogni anno dal 2018 a questa parte, il 21 settembre una folla di persone ha sfilato da via Gladstonos a piazza Syntagma per commemorare Zak e chiedere un processo equo, che tenga in considerazione tutte le variabili che hanno giocato un ruolo nel linciaggio.

Manifestanti in Piazza Syntagma durante la marcia in ricordo di Zak del 21 settembre 2021
Manifestanti in Piazza Syntagma durante la marcia in ricordo di Zak del 21 settembre 2021

Perché, come recita il post pubblicato su Facebook dagli organizzatori della marcia:

“Zack, un orgoglioso membro della comunità LGBTQI, sieropositivo, genderqueer, drag queen, antifascista e attivista per i diritti umani, è stato ucciso da tutto ciò per cui ha combattuto mentre era in vita. Dalla fascistizzazione sociale della porta accanto, dal razzismo, dall’omofobia, dalla violenza istituzionale e dall’apatia sociale.

La prima morte è arrivata dalle mani degli assassini, la seconda dal silenzio della folla e la terza dal latrocinio della tomba per mano dei media con notizie false. Zak è stato ucciso tre volte. E viene assassinato da tre anni a questa parte, fino a che l’amministrazione della giustizia sarà tortuosamente ritardata.”

[Tutte le foto sono dell’autrice dell’articolo]

Camilla Donzelli

Laureata in Scienze Politiche per la Cooperazione e lo Sviluppo, si forma poi come consulente legale professionale con ASGI - Associazione Studi Giuridici Immigrazione e lavora per diversi anni nel sistema di accoglienza italiano. Appassionata di antropologia politica e da tempo impegnata nella diffusione di buona informazione circa i fenomeni migratori, nel 2020 si trasferisce ad Atene per studiare da vicino gli effetti delle politiche europee sulle popolazioni in movimento. Attualmente collabora con Jafra Foundation Greece.

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