[Traduzione a cura di Gaia Resta dell’articolo originale di Patrick Geiner pubblicato su The Conversation]
Nel 1800 e nel 1900, la crescita economica delle nazioni più ricche è stata alimentata dai combustibili fossili, mentre molti Paesi del Sud del mondo sono rimasti per lo più impoveriti.
Attualmente, tutto questo bruciare petrolio, carbone e gas naturale ha fatto riscaldare il pianeta fino a raggiungere livelli pericolosi; la scienza ha dimostrato che l’impiego di combustibili fossili deve diminuire perché il cambiamento climatico rallenti. Allo stesso tempo, oltre il 40% della popolazione mondiale sopravvive con meno di 5.50 dollari americani al giorno, soprattutto nei Paesi in Via di Sviluppo.
I combustibili fossili costituiscono tutt’oggi lo strumento più a buon mercato per sostenere la crescita economica, motivo per cui i Paesi meno sviluppati non riescono a farne a meno.
È quindi possibile trovare un modo per far uscire la quasi metà del pianeta dalla povertà e, contemporaneamente, ridurre l’uso dei combustibili fossili? Da sociologo ambientalista quale sono, ritengo che non ci possa essere uno sviluppo sostenibile e – con tutta probabilità – una transizione energetica, se non si affronta il problema della povertà. Gli sforzi internazionali messi in campo non sono sufficienti, basti pensare al Fondo verde per il clima delle Nazioni Unite – cronicamente sottofinanziato – la cui commissione si riunisce questa settimana.
L’ombra del colonialismo
Il fatto che quasi la metà della popolazione mondiale stia lottando per uscire da una condizione di povertà mentre il termometro segna temperature sempre più alte non è una coincidenza.
A partire dall’Età delle scoperte, quando nel 1400 gli esploratori europei diedero inizio all’espansione commerciale e alla rivendicazione delle colonie, i problemi relativi alla scarsità delle risorse sono stati gestiti tramite le conquiste coloniali e l’integrazione economica. Queste strategie hanno impoverito le nazioni del Sud Globale, derubandole delle loro ricchezze naturali. L’introduzione di istituzioni finanziarie internazionali dopo la Seconda guerra mondiale le ha ulteriormente bloccate in un sistema di scambio iniquo.
Per centinaia di anni, le risorse naturali che i Paesi del Sud hanno esportato in nazioni come la Germania e gli Stati Uniti sono state vendute a un prezzo più basso di quello dei prodotti finiti che essi importano per il consumo interno. Il risultato di ciò è stato lo sviluppo del Nord Globale, la destabilizzazione e l’impoverimento di gran parte del Sud e il cambiamento climatico per tutti.
I combustibili fossili costituiscono un elemento centrale nella storia dello sviluppo perché hanno sempre fornito una fonte di energia mobile e a buon prezzo. Sono tutt’ora alla base della crescita economica delle nazioni più ricche. Nel 2019, le 37 nazioni facenti parte dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD) che rappresenta le economie industrializzate, hanno totalizzato uno sconcertante 40% di consumo energetico. Il rimanente 60% era distribuito tra 158 Paesi le cui popolazioni messe insieme erano 5.83 volte più numerose di quelle delle nazioni appartenenti all’OECD.
In assenza di una rapida transizione verso le energie rinnovabili, è improbabile che le popolazioni escluse dall’OECD potranno utilizzare l’energia liberamente come gli altri, mantenendo allo stesso tempo l’incremento della temperatura globale entro 1,5°C, l’obiettivo fissato dall’Accordo di Parigi sul clima.
“Lo sviluppo non è un diritto”
Le diseguaglianze scaturite da tali processi hanno reso estremamente difficile fermare gli ingranaggi del cambiamento climatico.
I Paesi del Sud insistono giustamente per soluzioni climatiche praticabili che includano un percorso realistico, che consenta loro di continuare a svilupparsi. Difatti, tre principi fondamentali sono stati inclusi nella Dichiarazione di Rio sull’Ambiente e sullo Sviluppo del 1992: che le nazioni hanno il diritto allo sviluppo, che il bisogno di sviluppo deve avere la priorità e che le nazioni hanno “una responsabilità comune ma differenziata” verso il duplice problema dello sviluppo globale e del cambiamento climatico.
Notoriamente, l’allora amministrazione Bush senior degli Stati Uniti rifiutò questi principi dichiarando che “lo sviluppo non è un diritto“. Tale enunciato riflette la preoccupazione delle nazioni più ricche di essere tenute ad assicurare dal punto di vista finanziario una continuità di sviluppo per le nazioni più povere.
Il Fondo verde per il clima
Nel 2010, il riconoscimento delle ingiustizie in corso portò alla creazione del Fondo verde per il clima.
Le Nazioni Unite crearono tale fondo con l’obiettivo di spingere le nazioni ricche a mobilitare volontariamente ogni anno 100 miliardi di dollari a sostegno di progetti per il clima nei Paesi in Via di Sviluppo e, in secondo luogo, di consentire loro di perseguire i propri interessi in termini di sviluppo. Eppure, il Fondo verde per il clima non ha mai ricevuto finanziamenti annui superiori ai 9 miliardi di dollari.
Anche se l’impegno dell’amministrazione Biden a finanziare il Fondo verde con 5.7 miliardi di dollari ogni anno costituisce un grande miglioramento, dal mio punto di vista non è ancora lontanamente accettabile. I ricchi Paesi del G-7, durante l’incontro tenutosi a giugno 2021, hanno ribadito l’impegno a raggiungere l’obiettivo di 100 miliardi di dollari; finora, però, sono solo parole.
Storicamente, è sempre stato complicato eliminare fonti di energia poco costose e facilmente disponibili come i combustibili fossili in presenza di condizioni di povertà e diseguaglianza economica sistematica. I Paesi hanno fatto ricorso ad integrazioni energetiche, invece che a transizioni energetiche. La mia ricerca condotta con Julius McGee ha rilevato che le nazioni con una diseguaglianza economica più ampia hanno impiegato energie rinnovabili per portare l’elettricità alle popolazioni meno servite, incrementando l’accesso alla rete elettrica, ma non hanno ridotto il consumo complessivo di combustibili fossili.
Se ci fosse un maggiore supporto per coprire i cospicui investimenti versati in anticipo, i costi sempre minori delle energie rinnovabili potrebbero aiutare i Paesi in Via di Sviluppo a compiere progressi significativi verso l’eradicazione della povertà senza dipendere da fonti di energia piene di diossido di carbonio per raggiungere il suddetto obiettivo. Ma solo questo non sarà sufficiente.
Porre limiti in una maniera giusta
Il metodo più efficace per permettere ai Paesi più poveri di svilupparsi mentre il resto del mondo riduce le emissioni di gas serra potrebbe essere quello noto come “contrazione e convergenza”.
Introdotto per la prima volta dall’India nel 1995, tale schema ha lo scopo di incoraggiare l’adozione di politiche che conducano a una contrazione generale delle emissioni globali. Le nazioni più ricche taglierebbero le loro emissioni, mentre quelle più povere continuerebbero a farle aumentare nell’ambito della costruzione di un’infrastruttura economica e sociale che faccia emergere la popolazione della povertà. In seguito, anche i Paesi più poveri comincerebbero a ridurre le loro emissioni.
In conclusione, aiutare i Paesi che ne hanno piì bisogno a svilupparsi in modo sostenibile è anche nell’interesse delle popolazioni più ricche, poiché il cambiamento climatico riguarderà la vita di tutti, ovunque. Ignorare le lampanti diseguaglianze sociali derivate dalla crescita del passato e le attuali risposte alla crisi climatica, significa assicurarsi che gran parte della popolazione mondiale crederà di non avere scelta se non di contare sui combustibili fossili per portare avanti il proprio sviluppo; ma in questo caso la riduzione delle emissioni globali potrebbe compiersi troppo tardi.