29 Marzo 2024

Bambinə gender variant: imparare l’ascolto, a scuola e in famiglia

Il tema è di quelli capaci di scatenare e moltiplicare reazioni immediate e spesso scomposte ma riteniamo sia assolutamente e urgentemente da affrontare. E far conoscere. Perché, semplicemente, riguarda persone che – anche se facciamo finta di non vedere e non conoscere –  sono tra i banchi di scuola, nelle palestre, nelle nostre case.

Ne parliamo con tre professioniste che hanno accettato di condividere la propria esperienza umana, professionale e di attivismo: Elisa Modica, dottoressa in Psicologia Sociale, ricercatrice all’Università di Milano-Bicocca, consulente sessuale LGBTQIA+, attivista di Amnesty International e attivista LGBTQIA+; Camilla Vivian, autrice del blog e del libro Mio figlio in rosa e instancabile attivista per i diritti dell’infanzia transgender e Michela Mariotto, antropologa, ricercatrice dottoranda del dipartimento di Psicologia Sociale presso l’Universitat Autónoma de Barcelona, co-fondatrice dell’Associazione GenderLens.

Genere come continuità di sfumature 

Con sesso biologico ci si riferisce all’insieme delle caratteristiche cromosomiche, ormonali e sessuali primarie e secondarie. Queste combinazioni vengono categorizzate nel binarismo maschio/femmina o imposte (sulle persone intersex)“, spiega Elisa Modica.  “Il genere – continua la psicologa e ricercatrice – è un costrutto sociale, ovvero un concetto costruito da una specifica società e cultura e che proprio per questo cambia nel tempo e nello spazio. All’interno di questo concetto sono incluse norme, ruoli e aspettative comportamentali, emotive e caratteriali. L’identità di genere è invece come una persona definisce la propria identità sulla base dell’esperienza individuale del genere“.

Nel 2017, in un discorso alle Nazioni Unite, l’attrice e attivista femminista britannica Emma Watson pronunciava queste parole: “È ora che iniziamo a pensare al genere come uno spettro, non come due insiemi opposti di ideali. Se smettiamo di definirci l’un l’altro con quello che non siamo, possiamo iniziare a definirci con quello che siamo, possiamo tutti essere più liberi“.

Pensare al genere una continuità di sfumature da un estremo all’altro, quindi. Ma il genere è davvero immaginabile come uno spettro continuo?

Le tante identità di genere

Per Elisa Modica “le identità di genere sono potenzialmente quante le persone al mondo. Il non-binarismo di genere è un termine ombrello sfaccettato e multiforme che include il concetto di genere compreso tra quello maschile e quello femminile ma anche assenza di genere (come caratteristica importante per definirsi), genere fluido (che si modifica nel tempo) e genere plurale (comprensivo di più generi)“.

Ma se l’identità di genere può essere considerata uno spettro tra due estremi, come è possibile che la stragrande maggioranza di persone non abbia – almeno apparentemente – difficoltà ad essere “incasellata” come “M” o “F”? Quante sono effettivamente le persone che non si riconoscono nel genere maschile o femminile?

Schema sintetico ed efficace sul non-binarismo. Dal sito  https://www.itspronouncedmetrosexual.com/2011/11/breaking-through-the-binary-gender-explained-using-continuums/

Sfortunatamente i dati su questi argomenti sono rari e poco precisi. Questo perché esiste ancora uno stigma, perché le persone potrebbero non aver ancora definito la propria identità di genere o non essere statə raggiuntə dai ricercatori, perché vengono considerate solo le persone che hanno fatto una transizione medica…“, risponde la dottoressa Modica. “I dati sulle persone non-binary più recenti ci dicono che ad esperire ambivalenza, incongruenza di genere o desiderio di un percorso ormonale/chirurgico sono circa il 6,3% delle persone il cui genere assegnato è quello maschile e circa il 4,2% di persone il cui genere assegnato è quello femminile (Kuyper & Wijsen, 2014; Van Caneegen et al., 2015)

Resistenza e rigidità

Ma allora perché è così difficile accettare che l’identità di genere non sia un rigido incasellamento binario?

Per l’educazione ricevuta, forse. Per Michela Mariotto, infatti “culturalmente ci hanno sempre insegnato che l’essere uomini o donne siano due esperienze opposte, naturalmente costruite a partire da una divisione dei corpi classificabili, attraverso la loro configurazione biologica, come maschili o femminili“. Oggi sappiamo, invece, non solo che il dimorfismo sessuale in realtà non riflette la complessità della natura umana (caratterizzata dall’esistenza di persone nate con caratteri sessuali che non permettono una chiara classificazione del soggetto come maschile o femminile) ma anche che, in termini di genere, la realtà è più complessa“.

La classificazione culturale di quello che si riconosce come maschile e femminile tende a considerare nella nostra società questi due aspetti come mutuamente esclusivi, mentre nella vita reale delle persone elementi maschili e femminili coesistono in misura diversa, sia in termini di espressione di genere (cioè come una persona si veste, si muove, si comporta) sia in termini identitari. Inoltre, non tutte le persone si percepiscono intimamente con il genere assegnato alla nascita e alcune di loro non si riconoscono nella tradizionale classificazione uomo-donna“.

Fluidità vs discriminazione

A volte – aggiunge l’antropologa “si pensa che l’unica possibilità per una persona che non si riconosce nel genere assegnato alla nascita sia quello di identificarsi nel genere opposto. Capita, invece, che sin da piccole alcune persone non si riconoscono in nessuno dei due generi o si identificano con entrambi oppure in maniera fluida con un genere e l’altro. E questo vissuto riguarda molte persone trans, soprattutto le più giovani“.

Per Camilla Vivian è anche “una questione politica e di potere, non di identità. I nostri figli e le nostre figlie vengono usatə come specchietto per le allodole. Nessuno dei privilegiati (privilegio maschile) vuole la parità dei generi né mettere in discussione lo stato delle cose e le persone trangender – sfinite da discriminazione, percorsi patologizzanti, cambi anagrafici non concessi o concessi dopo enormi fatiche e spese – spesso non hanno la forza di ribellarsi“.

Bambinə, ascoltare per capire

Se di identità di genere si parla poco (e sovente male), di identità di genere neə bambinə si parla quasi solamente con inquietudine, panico e scandalo. E con reazioni (sui social, ad esempio) sgradevoli, umilianti, denigranti e lesive per la dignità della persona.

Ma andiamo con ordine. In che modo si può capire se unə bambinə si riconosce in un genere diverso da quello “atteso”?

Secondo la dottoressa Modica “il modo migliore è l’ascolto del suo punto di vista e del suo vissuto. Parliamo del diritto di autodeterminazione, ovvero il diritto di poter affermare chi si è e come si vuole che il mondo si interfacci con sé“.

Anche per Michela Mariotto tale comprensione si attiva “osservando, ma soprattutto ascoltando attentamente quello che la giovane persona ha da dire“. “Lə bambinə gender creative sono queə bambinə che hanno dei comportamenti di genere non normativi, ossia comportamenti che non sono ritenuti ‘opportuni’ per il genere che è stato loro assegnato alla nascita. Così, ad esempio, unə bambinə biologicamente maschio che ama vestirsi con abiti e gonne utilizzati solitamente dalle bambine, giocare con le bambole, utilizzare elementi che fanno parte della cultura materiale e simbolica del mondo femminile“.

Bambinə liberə di esprimersi

Questa posizione è confermata anche dall’esperienza di Camilla Vivian: “normalmente unə bambinə liberə di esprimersi si esprimerà secondo il proprio sentire e quindi mostrerà fin da moltə piccolə chi è. Poiché fin da piccolə anche lə bambinə sanno molto bene cosa è ‘da maschio’ e che cosa è ‘da femmina’, sfrutteranno proprio questo stereotipo per dimostrare chi sono. Spesso lə vediamo vivere attraverso i personaggi dei cartoni animati. Spesso chiederanno di far crescere i capelli o piuttosto di tagliarli. Alcunə bambinə si riferiscono a loro stessə declinandosi nel genere che sentono loro e non capiscono come mai le altre persone non facciano lo stesso. A volte dicono esplicitamente ‘io sono una bambina!’, ‘Quando posso essere un maschio?’“.

“A volte però non hanno il coraggio di dire nulla soprattutto se hanno la consapevolezza delle aspettative che la famiglia riversa su di loro. Io penso che una mamma e/o un papà debbano osservare che cosa renda davvero felice la propria creatura e, in base a quello, capire e seguire“.

La rottura con la norma di genere nell’infanzia – aggiunge Michela Mariotto – non comporta necessariamente un’identificazione in un genere diverso da quello assegnato alla nascita ma ci sono deə bambinə che invece chiedono con persistenza e insistenza di essere riconosciuti in un genere diverso. Questi segnali possono far intuire a un genitore o a unə insegnante che c’è per lə bambinə il bisogno di essere vistə e riconosciutə in un genere diverso da quello assegnato“.

Ma di che età stiamo parlando?

Lidentità di genere – specifica Elisa Modica – inizia ad essere esplorata e a consolidarsi in tuttə già dai 4 anni, quando ə bambinə esprimono preferenze per ruoli e norme che sono socialmente considerati come appartenenti a un genere, seguendo il genere che hanno loro assegnato alla nascita o allontanandosene attraverso il gioco, i vestiti, il comportamento tipico di un genere diverso da quello assegnato. L’identità di ognuno, in ogni suo aspetto e caratteristica, si costruisce e si stabilisce nel tempo, ma non smette mai di modificarsi, anche solo minimamente“.

Adulti di riferimento: famiglia e scuola

Quali sono, in questo contesto, l’importanza e il ruolo della famiglia e della scuola?

Il ruolo della famiglia è essenziale” – sottolinea Camilla Vivian – “Ogni gruppo di persone che soffre di un minority stress ha almeno un luogo in cui è compreso e amato: torna a casa e trova un posto sicuro. Ma per le persone lgbtiq+ la questione è più difficile perché hanno spesso famiglie che non capiscono o peggio negano o peggio ancora discriminano. Essere capiti e ‘visti’ dalla famiglia, soprattutto nelle delicate fasi di crescita, è essenziale per ritenersi validə e per affrontare il mondo con la consapevolezza di cosa sia giusto e cosa sia sbagliato“.

È della stessa opinione Michela Mariotto: “Essere riconosciutə per quello che si è e sentire che le proprie necessità vengono prese in considerazione dalle persone più vicine rappresentano un grosso aiuto per l’infanzia e l’adolescenza gender creative. Un accompagnamento che prevede il riconoscimento sociale della persona secondo il genere con cui si identifica, senza alcun pregiudizio rispetto al suo percorso di vita futuro, può contribuire a garantire il benessere deə bambinə in termini di salute mentale, autostima e resilienza. Per loro è importante sapere che possono essere liberə di esprimersi e amatə allo stesso tempo, che possono indossare i vestiti che desiderano senza dover correre il rischio di subire degli atti di bullismo da parte dellə compagnə o delle figure adulte di riferimento“.

Adulti di riferimento che, continua l’esperta “hanno l’obbligo di garantire uno spazio sicuro e protetto, il più possibile libero da stereotipi“.

E se questo non accadesse?

Per Elisa Modica “ə bambinə che stanno ancora costruendo dalle basi la loro identità tendono giustamente a fidarsi di coloro che dovrebbero prendersi cura di loro e, se questə invalidano la loro percezione di se e identità di genere, metteranno in discussione il modo stesso in cui percepiscono l’esperienza del mondo, perderanno fiducia in se stessə” e, aggiunge Michela Mariotto, “cresceranno con la sensazione di non esistere o di non meritare l’amore dell’altro“.

La mancata comprensione e il rifiuto da parte delle famiglie rappresenterebbe, secondo  Camilla Vivian, “un vero e proprio accompagnamento al suicidio. Non si può quantificarne il peso. Sarebbe come dire: ‘Ok, tu da domani non sei tu, sei chi stabilisco io!’: una prigione e una violenza inaudita“.

E infatti – aggiunge Modica – ə bambinə di genere non conforme “sperimentano maggiori problemi psicosociali e di salute, con depressione (44,1%), ansia (33,2%) e somatizzazione (27,5%). Risulta anche che, in caso di abusi o violenza sessuale, aumentano i rischi di ideazione suicidaria, tentato suicidio e abuso di sostanze“. (Clements-Nolle & Katz, 2006; Sugano et al., 2006; Testa, 2012; Bockting et al., 2013)

Quindi, cosa potrebbe fare una famiglia? E cosa non dovrebbe fare?

La famiglia di unə bambinə di genere non conforme – risponde Vivian – può semplicemente accompagnarlə, ascoltarlə, credere alle sue parole. E studiare per conoscere e capire. E fare in modo che l’accompagnamento avvenga anche da parte della famiglia allargata e della scuola, pretendendo che venga rispettata la sua identità. Se parliamo di giovani adolescenti, bisogna anche attivarsi per affrontare, se la giovane persona lo desidera, un percorso medico“.

D’altro canto, aggiunge l’attivista, “non si dovrebbe mai mettere in dubbio, pensare che una persona esperta decida per ə nostrə figlə. Non si dovrebbe chiedere di aspettare perchè si capirà ‘da grandi’ o mettere le altre persone (nonnə, ziə, vicinə, colleghə) prima dellə nostrə figliə. Non si dovrebbero rendere le nostre paure un ostacolo alla vita e alla crescita sana di chi non ha fatto nulla di male e ha diritto come tuttə alla propria infanzia e adolescenza“.

Che cos’è la “carriera alias”?

Per quanto riguarda la scuola, ultimamente si è assistito ad un acceso dibattito sulla cosiddetta carriera alias. Ma di cosa si tratta?

La carriera alias è una buona pratica che evita a studentə trans il pesante disagio di continui e forzati coming out in classe giustificando ogni volta la propria identità di genere, come fossero manchevoli di qualche cosa, è una procedura di semplice applicazione, che non ha bisogno di nessuna certificazione medica”. Ricordiamo che l’OMS, nel 2018, ha rimosso la disforia di genere dalle malattie mentali.

La carriera alias prevede infatti la possibilità di modificare, sul registro elettronico, negli elenchi e in tutti i documenti, non ufficiali, interni alla scuola, il nome anagrafico di studenti trans, con quello di elezione scelto e consentirebbe, ad esempio, la scelta di quale bagno e spogliatoio utilizzare. Questo eviterebbe forme certe di bullismo e possibili aggressioni anche fisiche, tutelerebbe la privacy, il benessere e la sicurezza deə giovani”.

“Ad oggi, in Italia, l’accettazione della richiesta di un alias resta vincolata alla sensibilità della dirigenza scolastica di turno: concessione quindi e non un diritto. Eppure sono pratiche facili da applicare, che non chiedono cambi strutturali e che possono davvero fare la differenza per una giovane persona che chiede di essere riconosciuta in un genere diverso da quello anagrafico“.

Educazione alle differenze

Restando nella scuola, perchè c’è così tanta paura quando si vuole parlare di educazione al rispetto, all’affettività, alle differenze, alla sessualità e al genere all’interno delle scuole?

“È davvero inconcepibile che certi temi non vengano trattati nelle scuole italiane” risponde Michela Mariotto. “Non fanno parte di teorie astratte discusse nelle aule universitarie, ma toccano la vita delle persone nella loro quotidianità. Imparare a riconoscere le molteplici differenze che ci attraversano in termini di abilità, di genere, di orientamento sessuale, di etnia, etc, implica prendere atto della pluralità delle esperienze che costituiscono il mondo in cui viviamo, riconoscendone la validità e il valore“.

Michela Mariotto percepisce “molto disagio e molti pregiudizi rispetto a certe tematiche, che appaiono come lontane e poco utili per la società in generale. La strumentalizzazione delle proposte educativeai fini di una propaganda a difesa della naturalità del genere e, per estensione, della famiglia – rende complicato fornire/ricevere una formazione accurata e scientifica sull’argomento“.

“Blocco” della pubertà

Non approfondiremo la questione del “blocco” della pubertà ma proviamo solo a capirne di più. Cosa sono i farmaci bloccanti della pubertà? Cosa rappresenta questo farmaco per lə pre-adolescenti?

Mariotto spiega che “i bloccanti della pubertà sono dei farmaci in uso da più di trent’anni nel caso di pubertà precoce neə bambinə e di endometriosi nell’adolescenza. Il loro uso è stato poi esteso per bloccare la pubertà di giovani persone che non si riconoscono nel genere assegnato alla nascita.

E Vivian sottolinea che “l’AIFA già da un paio di anni ha approvato l’uso della triptorelina (comunemente chiamata bloccante della pubertà) non soltanto per la pubertà precoce ma anche per quella che ‘malamente’ definisce pubertà atipica. La triptorelina, una volta iniziata la pubertà (quindi parliamo di adolescenti e mai di bambinə come invece spesso viene riportato), blocca la produzione ormonale evitando che si sviluppino le caratteristiche sessuali secondarie che sono tra le cose che più pesano a unə adolescente transgender”.

Questo permette di poter vivere in maniera più spensierata la propria adolescenza – aggiunge la blogger attivista – senza che la propria identità di genere divenga l’unico pensiero, che l’ansia del cambiamento del corpo impedisca una crescita sana. I bloccanti concedono tempo per pensare e crescere e capire se una terapia ormonale cross-sex sia esattamente ciò che si desidera intraprendere“.

Foto di Camilla Vivian, gentilmente concessa

Processo reversibile

“Questo intervento medico è assolutamente reversibile e pertanto, una volta sospesa la somministrazione, lo sviluppo dell’adolescente riprenderà esattamente dal punto in cui è stato interrotto” sottolinea la dotoressa Mariotto.

E specifica gli effetti del blocco dello sviluppo ormonale: “funzione terapeutica: miglioramento della salute mentale, riduzione di problemi emozionali e sintomi depressivi, riduzione della necessità di interventi chirurgici in futuro, rendendo la transizione di genere più semplice“. “L’uso dei bloccanti ha anche una funzione diagnostica perché permette all’adolescente di guadagnare tempo e poter esplorare il suo sentire in termini di identità di genere, senza dover fare i conti con la sofferenza di assistere ai cambiamenti di un corpo in una direzione che non è quella desiderata“.

Esempi virtuosi, Mio figlio in rosa

Fondamentale è il ruolo che le associazioni in lotta per i diritti delle persone trans o gender-variant stanno rivestendo nel cambiamento di mentalità e nell’apertura verso l’altro. Camilla Vivian ha iniziato a gestire un blog e ha scritto un libro, “Mio figlio in rosa“, in un periodo in cui in Italia non si parlava molto di varianza di genere. Ce ne spiega il motivo.

Non ne potevo più di sentirmi dire che ero l’unica. Era impossibile, significava che c’erano bambinə che stavano soffrendo e famiglie che si sentivano sole e non sapevano che fare. Inoltre anche io avevo bisogno di trovare il mio branco di pari. Il confronto è sempre costruttivo, soprattutto quando vivi un’esperienza per la quale non puoi attingere a esperienze personali o all’educazione ricevuta. Avere unə figlə che vive un’esperienza totalmente diversa dalla tua, qualsiasi essa sia, ti costringe a imparare da zero. Per molti può essere frustrante. Soprattutto se lo devi fare in un Paese in cui non esiste nessuno che ti possa aiutare. Ma è una delle esperienze più umanamente educative che ci possano essere. Per questo ho pensato che mettere a disposizione la mia esperienza e le informazioni via via raccolte potesse essere importante“.

Foto di Camilla Vivian, gentilmente concessa

“Potersi rivedere e riconoscersi – conclude Vivian – poter ascoltare parole che senti tue, poter guardare chi ci è già passato, ti restituisce i sogni. Poter aver degli esempi da mostrare a tuə figlə, potersi rilassare perché in quel luogo nessuno ti giudica è assolutamente salvifico“.

GenderLens

GenderLens è un’associazione nata dall’incontro di alcune famiglie di bambinə e adolescenti gender creative in Italia con un progetto di ricerca dell’Universitat Autonoma de Barcellona. è in contatto con circa un centinaio di famiglie, in Italia, e collabora con professionistə che lavorano nell’ambito della psicologia, dell’antropologia e della pedagogia infantile, e giovani persone trans” spiega Michela Mariotto, co-fondatrice dell’associazione.

Lo scopo principale di GenderLens è riuscire a far vedere quanto l’ambiente, il sostegno e l’accompagnamento da parte delle famiglie e della comunità educativa siano fondamentali per il benessere psicofisico deə bambinə e adolescenti gender creative e possano in larga misura contribuire a crescere degli esseri umani in grado di affrontare con determinazione qualsiasi situazione. Ma è anche quello di creare uno spazio libero dal giudizio in cui la famiglia possa piano piano, nel rispetto dei tempi che ogni persona può richiedere, acquisire gli strumenti concettuali e pratici per accompagnare lə propriə figliə“.

Le famiglie, sottolinea Mariotto iniziano ad acquisire consapevolezza rispetto ai diritti dellə loro figliə e a esigerne il rispetto. Questo è uno scenario completamente diverso da quello riscontrato fino a pochi anni fa, quando la maggior parte delle famiglie si limitava a considerare quello che stava accadendo allə figliə come un’esperienza personale, da gestire in maniera privata. Ora le madri e i padri delle giovani persone gender creative hanno capito che il benessere dellə loro figliə è in primo luogo una questione sociale, che interpella la responsabilità della comunità intera e delle istituzioni che la rappresentano, in primo luogo la scuola“.

[Tutti i disegni sono pubblicati per gentile concessione di GenderLens – Disegni di Andu]

Alessandro Luparello

Ingegnere, attivista impegnato nella difesa dei diritti umani con Amnesty International e alcune realtà associative territoriali a Palermo.

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