27 Aprile 2024

Amazon, lavoratori senza diritti. Il lato oscuro dell’e-commerce

Foto tratta da Flickr – Licenza CC con attribuzione

Amazon nel 2020 ha registrato in Europa un fatturato di 44 miliardi di dollari, pagando zero tasse. Le mancate risposte alle domande del Parlamento Europeo costituiscono un vero e proprio affronto e riflettono il suo generale disprezzo per la democrazia.

Christy Hoffman – Segretario Generale di UNI Global Union –  ha così criticato la decisione di Jeff Bezos – CEO uscente di Amazon – di non presentarsi innanzi al Comitato per l’Occupazione e gli Affari Sociali del Parlamento Europeo, dove il 27 maggio si è tenuta un’audizione sugli “attacchi di Amazon ai diritti e alle libertà fondamentali dei lavoratori.

L’iniziativa si colloca all’interno di una più vasta indagine tesa a verificare il reale trattamento degli impiegati da parte del gigante tecnologico statunitense in ordine ai loro diritti sindacali e alla contrattazione collettiva.

Già lo scorso ottobre, 37 parlamentari europei avevano indirizzato una lettera a Bezos chiedendo (invano) chiarimenti in merito ad alcune policy aziendali, ritenute suscettibili di determinare violazioni del diritto europeo in materia di “lavoro, dati, privacy”.

La “questione Amazon” non riguarda però i soli lavoratori europei. Senz’altro assume sfumature differenti in base al contesto geografico di riferimento e alle legislazioni statali, che non necessariamente prevedono ampie tutele a favore dei lavoratori.

Ora, sappiamo che l’esistenza di una norma non è sempre garanzia del rispetto di un diritto. Lo Statuto dei Lavoratori in Italia – ad esempio – non rende certo immune la classe lavoratrice da eventuali soprusi.

Tuttavia, normative carenti, lacunose, frammentarie, aprono maggiori spazi a varie forme di abusi, che con ogni probabilità resteranno privi di conseguenze per i datori di lavoro.

Gli Stati Uniti, sempre a titolo esemplificativo, non hanno una legislazione federale a difesa dei diritti individuali dei lavoratori. Il licenziamento –  in ragione del paradigma tutto americano del cosiddetto “work at will” – rimane in linea di massima libero in quasi tutto il territorio. Non solo, i dipendenti di una stessa società – come nel caso di Amazon, appunto – possono essere sottoposti a condizioni lavorative differenti a seconda dello Stato in cui operano.

Ad ogni modo, proviamo a fare un pò di ordine per raccontare in modo semplice una vicenda assai articolata. L’ennesima storia contemporanea di “Davide contro Golia”, caratterizzata dalla contrapposizione tra centinaia di migliaia di lavoratori bistrattati e il solito Dio denaro in una lotta in apparenza impari.

Le rivendicazioni dei dipendenti Amazon, in tutti i 20 Paesi in cui lo stesso è presente con siti dedicati, attengono a due aspetti principali del lavoro: da un lato, le condizioni lavorative in senso stretto (orario, retribuzione, contratti, sicurezza, salute); dall’altro, i diritti sindacali.

Quanto al primo punto, per anni si sono rincorse voci circa le deplorevoli condizioni di lavoro – a tratti disumanizzanti – degli “Amazon Workers” di tutta la filiera operativa: dai magazzinieri agli impiegati dei centri di smistamento, passando per i driver.

Le continue denunce della stampa internazionale, delle ONG a tutela dei diritti umani, delle unioni sindacali nazionali, della Coalizione  Transnazionale Amazon Workers International (AWI), hanno progressivamente scalfito la punta dell’iceberg, facendo emergere dettagli sempre più allarmanti di una politica aziendale noncurante dei diritti dei propri lavoratori. Politica peggiorata oltremisura con lo scoppio della pandemia da Covid-19.

Nel 2018, secondo il Guardian, i servizi britannici di ambulanza avevano ricevuto ben 600 chiamate dai centri di distribuzione Amazon dislocati sul territorio statale. Le dichiarazioni raccolte dal sindacato GMB parlavano di un costante clima di pressioneper raggiungere i target prestazionali, tanto da rendere quasi impossibile trovare il tempo per andare in bagno o bere qualcosa. All’epoca Amazon si era difeso affermando: “sulla base di dati e aneddoti non comprovati, riteniamo non sia corretto insinuare che le nostre condizioni lavorative siano poche sicure e salutari” per il benessere dei dipendenti. “Le richieste di ambulanze, infatti, sono da associare a eventi sanitari personali del tutto slegati dal lavoro“.

L’anno successivo, l’Università di Berkeley descriveva però le prassi operative del colosso dell’e-commerce come più gravose e sensibili al tempo rispetto alle tipiche attività di magazzino.

Ancora, nell’ottobre del 2020, il Trade Union Congress evidenziava chele performance produttive dei lavoratori di Amazon sono costantemente monitorate. Il mancato raggiungimento degli obiettivi può tradursi in provvedimenti disciplinari o addirittura in licenziamenti.

Da ultimo, lo Strategic Organizing Center (SOC) – coalizione composta da 4 sindacati di USA e Canada – nel report pubblicato l’1 giugno scorso, ha rilevato come “nel 2020, ci siano stati 5,9 feriti gravi per ogni 100 magazzinieri Amazon. Un numero corrispondente a quasi l’80% in più rispetto al tasso di infortuni che si verificano nei depositidi altre multinazionali. L’ossessione di Amazon per la velocità – si legge nel documento – ha costituito l’elemento chiave della strategia di crescita” a totale discapito “della forza lavoro”.

Del resto, le recenti dichiarazioni di diversi dipendenti ed ex convergono proprio in questa direzione.

Amazon si vanta di pagare i lavoratori al di sopra del salario minimo. Non esplicita però le intense modalità di lavoro che dobbiamo subire”, dice Jennifer Bates chiamata a testimoniare, il 17 marzo scorso, innanzi alla Commissione Bilancio del Senato statunitense. “Il ritmo di lavoro è sostenuto. La mia giornata assomiglia a un duro allenamento di nove ore. Tracciano ogni movimento – ha continuato. Ho presto imparato che ogni minimo rallentamento avrebbe potuto costarmi una sanzione disciplinare o portarmi al licenziamento”.

Raymond Velez, ex imballatore presso il magazzino JFK8 di New York per quasi un anno tra il 2018 e il 2019, in un’intervista al Guardian, racconta: “si preoccupano più dei robot che dei dipendenti. Sono stato più volte nell’infermeria aziendale a causa di malori. Mi davano un’aspirina, rispedendomi alla mia postazione”. Velez era tenuto a imballare 700 prodotti all’ora.

Non troppo diversa la storia di Seth King, impiegato per un breve periodo presso il centro distribuzione di Chesterfield (Virginia). “Devi stare 10 ore in piedi in un luogo senza finestre. Non ti è permesso interagire con i colleghi. Si lavora fino allo sfinimento. Dopo due mesi sono andato via per tutelare la mia salute mentale”.

Gianpaolo (nome di fantasia) lavora da 8 anni nel magazzino di Piacenza e fa parte dell’Amazon Workers International, rete creata dai dipendenti di Francia, Germania, Italia, Polonia, USA. “Quando inizi a lavorare per Amazon non ti rendi conto di quale sia davvero il meccanismo”. L’azienda “si insedia in zone povere con alti livelli di disoccupazione, sfruttando il contesto a proprio vantaggio. All’inizio, vedi tutto in modo positivo”.  Poi, “cominci a capire tante cose: briefing non retribuiti prima dell’orario di lavoro; forte pressione psicologica per essere veloce. Ti ritrovi a lavorare come un matto per raggiungere gli elevati standard di produttività”.

Non è migliore la situazione dei driver, costretti a volte a fare pipì nelle bottiglie di plastica. Alcuni autisti – scegliendo di rimanere anonimi per non subire ritorsioni – hanno rivelato all’Insider di seguire questa prassi per necessità. “Non è che ti costringono. Ma non hai il tempo materiale per usare una toilette”. Questo perché “tracciano ogni movimento, considerano quante volte ti sei fermato e quanto veloce guidi per garantire le consegne.


Video tratto da Vimeo – Licenza CC con attribuzione

Per gli “Amazon Workers” denunciare le proprie condizioni di lavoro è rischioso tanto quanto aderire a un’organizzazione sindacale, soprattutto nei Paesi in cui i sindacati non hanno una solida tradizione storica alle spalle e non sono, quindi, ben radicati nel tessuto socio-economico.

Il riferimento è, in primis, agli Stati Uniti dove le Unions stanno incontrando non pochi ostacoli per inserirsi all’interno dell’universo aziendale Amazon. Lo dimostra il fallimento del noto referendum di aprile scorso in Alabama. Su 3215 voti, quelli contro la sindacalizzazione sono stati 1798, a favore 738.

Una sconfitta che potrebbe essere stata veicolata, stando alle affermazioni di Stuart Appelbaum, segretario generale del sindacato RWDSU. “Amazon non ha lasciato nulla di intentato per manipolare i suoi dipendenti (…). Chiederemo un’udienza per l’annullamento dei risultati perché il comportamento del datore di lavoro ha generato un’atmosfera di confusione, coercizione, paura interferendo con la libertà di scelta” del personale.

Gli sforzi per impedire ai lavoratori di organizzarsi in sindacati non sono stati messi in atto solo negli USA, ma altresì in Europa sebbene con minor successo.

Nel Vecchio Continente, invero, sindacati e lavoratori hanno maggiori tutele, il tasso di sindacalizzazione è alquanto elevato, le confederazioni sono più potenti rispetto alle Unions di stampo anglosassone. Ne è una dimostrazione lo sciopero indetto dalle sigle italiane (Filt Cgil, Fit Cisl e Uiltrasporti) il 22 marzo scorso. Nella nota dei sindacati, si legge: è il primo sciopero della filiera Amazon d’Italia e sicuramente d’Europa. Un’iniziativa che non ha riscontro nemmeno negli Stati Uniti. La multinazionale americana deve prendere atto, suo malgrado, che il sindacato fa parte della storia del nostro Paese”.

Amnesty International, avvalendosi degli articoli di stampa, ha individuato almeno tre strategie generali adoperate dall’azienda di Seattle per ostacolare i diritti sindacali dei propri dipendenti, in netto contrasto con i Principi Guida su imprese e diritti umani” delle Nazioni Unite, che la stessa si è impegnata a rispettare e sostenere a livello internazionale.

In primo luogo: piani di investimento destinati “al monitoraggio di ‘minacce’ sindacali attraverso un nuovo sistema tecnologico chiamato geoSPatial Operating Console“. In secondo luogo: annunci di lavoro per la posizione di “analisti di intelligence” con il compito di rilevare “i rischi aziendali, tra i quali: quelli derivanti da  minacce di organizzazioni dei lavoratori nei confronti dell’azienda”.  Infine: sorveglianza segreta e analisi deigruppi privati di Facebook dei lavoratori, anche con lo scopo di seguire eventuali programmi di attività di sciopero o proteste”.

L’importanza di rispettare il ruolo dei sindacati sui luoghi di lavoro ha trovato un’ulteriore conferma nel corso della pandemia da Covid-19, mostrando lo stretto legame tra “diritto ad organizzarsi, contrattazione collettiva, salute e la sicurezza dei lavoratori“.

In Francia, ad esempio, i sindacati hanno contribuito ad assicuraretutele sanitarie, rientro volontario a lavoro, orari modificati per facilitare il distanziamento e un aumento di 2 euro l’ora per tutto il mese di maggio” 2020. In Italia, i sindacati hanno ottenuto la firma di un accordo che prevede “procedure di pulizia e sanificazione costanti, programmate e tracciate; programmazione delle attività lavorative e organizzazioni delle postazioni di lavoro con almeno due metri di distanza garantiti tra i lavoratori“.

La stessa pandemia, inoltre, ha determinato un significativo cambiamento nell’approccio degli “Amazon Workers” rispetto alle criticità della propria condizione lavorativa. Questi, invero, hanno meglio compreso il valore dell’internazionalizzazione delle proprie istanze. E hanno cominciato a portare la loro battaglia per la tutela dei diritti al di fuori dei meri contesti locali abbracciando – pur nella diversità – una visione globale.

In occasione dell’ultimo Black Friday autunnale, è stata infatti lanciata la campagna #MakeAmazonPay, ad opera di una coalizione composta da lavoratori Amazon, sindacati, attivisti. Sono stati organizzati scioperi coordinati e proteste in Australia, Bangladesh, Francia, Filippine, Germania, India, Italia, Polonia, Regno Unito, Spagna, Stati Uniti. “Amazon è in grado di costruire potere operando a livello globale senza alcuna opposizione”, ha spiegato Casper Gelderblom, sindacalista olandese e coordinatore di Progressive International. “È necessario quindi far collimare la portata transazionale della sua organizzazione con una strategia internazionalista” dei lavoratori.

Impegno che è continuato anche nel corso di quest’anno. Non a caso, per il referendum in Alabama, gli “Amazon Workers” statunitensi hanno ricevuto il supporto da parte dei colleghi di tutto il mondo. I lavoratori italiani, durante il menzionato sciopero di marzo, hanno esposto con fierezza uno striscione riportante la scritta: From Piacenza to Alabama: One Big Union“.

Finora, Amazon non si è mai preso la briga di replicare in modo chiaro ed esaustivo alle accuse provenienti da più parti. Si è solo limitato a enunciare frasi slogan, tipo: “niente è più importante per noi che proteggere la salute e la sicurezza del nostro team“. Stessi toni usati da Jeff Bezos, nella sua ultima lettera da CEO agli azionisti – dove ha scritto: “dobbiamo fare di meglio per i nostri dipendenti (…). Abbiamo sempre voluto essere l’azienda più cliente-centrica del mondo. Questo non cambierà. Ma mi sto impegnando per raggiungere un altro obiettivo: diventeremo i migliori datori di lavoro e il posto di lavoro più sicuro sulla Terra”.

In conclusione, una nota va dedicata a noi consumatori. Parafrasando Marco Bettiol, docente di management presso l’Università di Padova, “in questi anni abbiamo imparato ad amare gli incredibili servizi di Amazon senza porci troppo il problema della loro sostenibilità dal punto di vista ambientale e sociale“.

In effetti, Amazon appare come una sorta di “paese dei balocchi”. Un semplice click rende possibile acquistare i prodotti più disparati a costi convenienti con consegne rapidissime. Il fatto che il funzionamento di una macchina così mastodontica e articolata impatti in modo tanto negativo sui diritti dei suoi dipendenti costituisce, di fatto, un tema di poco interesse per quasi tutti gli utenti. Eppure, un atteggiamento più critico da parte degli oltre 450 milioni di clienti (tra membri Prime e fruitori attivi) – a cui Amazon presta enorme attenzione – potrebbe fare la differenza nel trattamento dei lavoratori. E invece, gli acquisti continuano. Tutti in attesa del prossimo imperdibile Black Friday o Prime Day.

Tiziana Carmelitano

Autrice freelance, si occupa in particolare di temi globali nonché di violazioni dei diritti umani in contesti conflittuali, post-conflittuali e in situazioni di "Failed States". Con un occhio di riguardo per donne, bambini e giustizia transitoria. Il tutto in chiave prevalentemente giuridica. Convinta che la buona informazione abbia un ruolo decisivo nell'educazione al rispetto dei diritti fondamentali e delle diversità.

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