L’Africa e i festival culturali: Nyere Nyere, Afrochella e Afropunk

Il 2021 è stato dichiarato dall’Unione Africana “Anno delle Arti, della Cultura e del Patrimonio”, puntando finalmente i riflettori sui costumi, l’artigianato, le religioni, il folclore, la moda, le cucina, le musiche e le lingue del Continente.

Nel 2020 la pandemia ha pesantemente impattato il settore dell’intrattenimento e della cultura e si spera che questa iniziativa contribuisca a ravvivare l’economia e il turismo. Purtroppo, la sfera pubblica in molte nazioni africane – a parte qualche raro caso come il Senegal, il Ghana e il Sudafrica – non è mai stata particolarmente attenta ed interessata alla promozione del patrimonio, mancando di mettere in atto piani strutturati e specifici a riguardo.

Certamente il fatto che un organo diplomatico internazionale come l’UA abbia deciso di riconoscere l’importanza capitale che la cultura e le arti hanno per la crescita economica e sociale dell’Africa è un cambiamento d’approccio che non può essere sottovalutato.

Bushfire Festival in Swaziland, 2019. Per gentile concessione di Away to Africa.

Nuove immagini dall’Africa

La cultura gioca un ruolo chiave non solo per l’economia di un Paese ma anche per l’immagine che di esso si riflette all’esterno. Negli ultimi tempi i modi e le dinamiche attraverso le quali per secoli si è parlato di Africa sono cominciate a cambiare, e questo soprattutto grazie al lavoro di molti creativi che attraverso social media ed eventi di varia natura hanno sfidato lo status quo. Per troppo tempo l’Occidente ha avuto il monopolio sulle rappresentazioni e sulle narrative riguardanti il Continente. L’idea di un’Africa esotica e selvaggia è stata combattuta dalla vibrante schiera di talenti locali che hanno sostenuto la loro identità ibridandosi con la scena globale. Da sempre le culture africane sono state esportate, sfruttate e distorte ma ora è tempo di riprenderne il controllo – a volte anche in senso letterale. Celebre è il caso dei bronzi del regno del Benin esposti al British Museum di Londra che recentemente sono stati reclamati dal Governo della Nigeria, iniziando un lungo contenzioso per la restituzione degli artefatti trafugati durante il colonialismo; o il caso dell’attivista congolese Mwazulu Diyabanza, famoso per fare irruzione nei musei parigini e rimuovere le opere d’arte africane sostenendo di volerle riconsegnare ai Paesi di provenienza.

La presa di coscienza dell’importanza di decentralizzare l’industria della cultura è andata a braccetto con la comparsa di molti festival, spesso nati da iniziative private. Questo tipo di eventi sono visti come un modo efficace e popolare per differenziare e promuovere le tradizioni e le arti. A segito di questo, anche iniziative che prosperano da anni come la Lagos Fashion Week, l’International Jazz Festival di Cape Town, lo Zanzibar International Film Festival, il FESPACO Film Festival in Burkina Faso, o Dak’Art in Senegal ora vengono celebrati in modo più ampio.

L’Africa viene finalmente riconosciuta per avere molto da offrire, non solo safari e natura selvaggia. Importanza di provvedere spazi in cui sia possibile celebrare la ricchezza artistica e culturale di un popolo o di un luogo è stata riconosciuta anche dall’UNESCO, che ha riconosciuto come i festival rappresentino un elemento chiave per uno sviluppo urbano sostenibile e per rinforzare il processo di costruzione dell’identità. In aggiunta a quelli già citati, negli ultimi anni ne sono emersi parecchi come lo Standard Bank Joy of Jazz in Sudafrica, il Vic Falls Carnival in Zimbabwe, il Sauti za Busara a Zanzibar, il Bushfire in Swaziland, il Chale Wote festival in Ghana o il Festival sur le Niger in Mali. Un fenomeno altrettanto interessante è l’esportazione sul continente di diversi festival di musica afro, europei e americani, come l’AfroNation e l’Afropunk.

Performer, festival Chale Wote, Ghana. Enoch Appiah Jr., Unsplash.

Il Nyege Nyege Festival in Uganda

Probabilmente non sono molti quelli che hanno sentito parlare di Jinja in Uganda, comunità e cittadina alle sorgenti del Nilo. Eppure, qui ogni anno dal 2015 si tiene il festival di musica elettronica Nyege Nyege. I fondatori del festival Derek Debru e Arlen Dilsizian raccontano come nonostante tutte le avversità (difficoltà nel trovare dei finanziatori che volessero sponsorizzare un festival nel bel mezzo della foresta ugandese, mazzette a soldati e polizia e complicazioni logistiche di ogni genere) la manifestazione sia riuscita ad attirare l’interesse internazionale ospitando 300 artisti da tutto il mondo. In un’intervista per DazzedDigital, Dilsizian ha sostenuto come troppo spesso l’Occidente abbia guardato all’Africa più come un magazzino di allettanti stranezze al quale poter attingere a piacimento che a come vere culture viventi. Egli sostiene come il fenomeno dello sciacallaggio culturale e dei trendsetter europei è americani che si appropriano delle tradizioni africane per trarne profitto, i cosiddetti “culture voltures”, senza dare alle comunità d’origine il riconoscimento dovuto e ancora troppo comune. Spesso, dice Dilsizian, l’interesse occidentale salta da un gusto all’altro senza indugiarne abbastanza a lungo per fornire un supporto materiale autentico. Quello che i co-fondatori del Nyege Nyege sperano di realizzare è una piattaforma in cui gli artisti dell’Africa Orientale possono creare un’infrastruttura musicale locale e sostenibile alle loro condizioni, dove poter lavorare e capitalizzare sulla loro cultura.

Il Ghana e Afrochella

Anche Afrochella, che si tiene ad Accra, capitale del Ghana, è una celebrazione delle diverse culture del continente e del vivace lavoro di creativi e imprenditori africani. In questo caso la diaspora ghanese ha giocato un ruolo essenziale nel dar vita a questo evento. Le donne, nello specifico, sono il vero catalizzatore che ha permesso al festival di crescere e diventare un esempio da seguire. Al femminile infatti la gestione di Afrochella, un festival durante il quale assieme alla musica e alle performance artistiche si tengono anche atelier di moda e corsi di cucina, ed è soprattutto un progetto che eleva, promuove e raduna i talenti del continente.

Il festival è riuscito a portare in questi anni oltre 10.000 partecipanti in Ghana e nel 2019 ha visto la presenza complessiva di 30.000 persone, provando come, da un lato, la cultura possa divenire un mezzo per sviluppare e promuovere l’economia del Paese e dall’altro come i ghanesi stessi siano affamati per questo tipo di iniziative. Giunto al suo quarto anno, infatti, Afrochella ha contribuito a rilanciare l’economia ghanese, e solo nel 2019 è riuscito a portare 1,9 miliardi di dollari. L’obbiettivo è innanzitutto diventare un esempio di come sia possibile investire sulle arti per contribuire allo sviluppo locale e secondariamente costruire un’enclave culturale che non ha bisogno dell’approvazione occidentale per sopravvivere e proliferare.

La scelta del nome non è casuale, è infatti una provocazione al famosissimo festival Coachella in California, spazio che è stato più volte accusato di incoraggiare l’appropriazione culturale, nonostante i suoi partecipanti siano per la maggioranza bianchi.

Afrochella, Ghana. Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0

L’arrivo di Afropunk a Johannesburg

Il festival Afropunk ha invece origine oltreoceano, è iniziato a Brooklyn nel 2005 con lo scopo di fornire un luogo in cui la cultura nera poteste prosperare ed essere celebrata. Ispirato ad un documentario uscito nel 2003 che racconta la storia dell’esperienza nera nella scena punk americana, è una piattaforma per tutto ciò che è alternativo e sperimentale. Il festival propone musica dal vivo, film, moda, arte, artigianato, bancarelle di cibo e prodotti dalla gente del posto.

Per oltre dieci anni AfroPunk ha ridefinito le tendenze nel mondo della musica e ha contribuito all’ascesa e all’apprezzamento della cultura nera nell’ambiente pop e mainstream. Oggi oltre che a New York si tiene anche ad Atlanta, a Londra, a Parigi e a Johannesburg.

Il fatto che si sia deciso di esportare il festival in uno dei luoghi simbolo della resistenza e della lotta dei neri non è né ovvio né scontato. Jozi, come la chiamano i sudafricani, è infatti la città in cui la lotta all’apartheid ha avuto il suo apice più violento durante le rivolte di Soweto nel 1976.

Afropunk a Johannesburg. Per gentile concessione di Away to Africa.

Importare l’Afropunk sul continente non ha solo una valenza simbolica ma è anche una presa di posizione politica che punta ad unire l’esperienza della diaspora con il resto dell’Africa. Il festival di Johannesburg vuole presentare le culture e i movimenti emergenti da tutto il continente contrastando attraverso la musica le polverose narrazioni coloniali. Ma il festival non è solo un evento musicale, del quale quest’ultimo è forse solo la punta dell’iceberg. Afropunk è anche e soprattutto un momento di scambio e confronto, un vero e proprio movimento durante il quale si celebrano non solo la musica e cultura africana ma anche la bellezza, l’estetica, e la fisicità nera esaltata in tutte le sue forme. Ad oggi questo evento si può veramente considerare come una risposta non-violenta agli stereotipi negativi e al “poverty porn” che l’Occidente è tanto abituato ad associare all’Africa. Johannesburg è inoltre una delle città chiave per l’industria dell’intrattenimento e dell’economia creativa.

La prima edizione di Afropunk si è tenuta nel 2017 attirando oltre 20.000 spettatori da tutto il mondo. La speranza è che una volta tornati nel loro Paese queste persone possano riportare una storia ben diversa della città rispetto a quelle comunemente proposte – Jozi è infatti tacciata di essere una delle località più pericolose ed ostili al mondo. L’evento è diventato un biglietto da visita per il turismo locale e nel 2018 ha fatto intascare al Governo oltre 16 milioni di Rand sudafricani, con un impatto diretto e indiretto attorno ai 100 milioni, creando inoltre 311 nuovi posti di lavoro.

Festival come l’Afropunk sono centrali per lo sviluppo urbano dell’Africa perché promuovono la sinergia tra l’industria musicale e le arti, e contribuiscono in ultima analisi allo sviluppo e alla coesione sociale delle comunità.

Impatto positivo

I festival fanno la differenza perché oltre a celebrare vecchie tradizioni e nuove idee sono anche luoghi di scambio e incontro dove è possibile confrontarsi e riflettere sul ruolo che la rievocazione dell’identità può avere su interi Paesi e generazioni.

L’impatto positivo che queste manifestazioni stavano provocando è stato sicuramente intaccato dall’avvento della pandemia che ha causato una forte battuta d’arresto. Tuttavia, una nota di speranza è sicuramente data dal fatto che, ad oggi, tutti gli eventi sopra citati sono in programma per la fine del 2021. Segno di una gran voglia di ripartire. L’idea di sostenere su larga scala questo tipo di iniziative è ancora alla sua fase iniziale ma sta rapidamente prendendo piede e certamente aiuterà da un lato a sviluppare l’economia e dall’altro a diversificare e a cambiare l’idea che si ha dell’Africa.

Troppo spesso si tende a dimenticare quanto la cultura e l’auto-rappresentazione del sé giochino un ruolo chiave sulla percezione di popoli e nazioni da parte della sfera globale e della comunità internazionale. D’altronde il disfacimento e il discredito di queste culture non era forse un importante paragrafo dell’agenda coloniale? Sostenere questo tipo di eventi è un primo passo per riprendere il controllo sulle narrative, le idee e le rappresentazioni vigenti.

Vittoria Paolino

Antropologa e analista con una specializzazione nella regione dell'Africa Sub-Sahariana ha lavorato con diverse organizzazioni internazionali e locali in progetti di sviluppo in Sudafrica, Kenya e Camerun. Appassionata di arte e cultura contemporanea le piace esplorare come questi elementi contribuiscano a favorire il cambiamento sociale e la resistenza politica.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *