18 Aprile 2024

Libertà di stampa, come informare è diventato un “crimine”

Foto dell’utente Pixabay Gerd Altmann – Licenza CC con attibuzione

Quando si prendono di mira i giornalisti, è la società nel suo insieme a pagare un prezzo molto alto. Nessuna democrazia è tale senza libertà di stampa. Antonio Guterres, Segretario Generale ONU.

Il 9 aprile scorso, il noto reporter greco di cronaca nera Giorgios Karaivaz è stato freddato in pieno giorno con 12 colpi di pistola fuori dalla sua abitazione, nel sobborgo ateniese di Alimos.

Un’esecuzione ad opera di due uomini in scooter, che ha lasciato attonito l’intero Paese, l’Europa tutta. E come sempre in simili circostanze, il coro istituzionale di indignazione è stato unanime.

“Siamo sconvolti (…). Le autorità stanno investigando per assicurare i responsabili alla giustizia“, ha subito dichiarato Aristolia Peloni, portavoce del Governo Mītsotakīs. “Un assassinio spregevole e codardo“, secondo la presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen. “Le indagini devono chiarire con urgenza se l’omicidio è collegato al suo lavoro“, ha twittato il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli.

Sta di fatto che, al di là dei buoni propositi della politica, Giorgios Karaivaz è solo uno tra gli ultimi, in ordine temporale, dei giornalisti silenziati “a causa” della professione.

Un tempo, era il corrispondente di guerra a correre i maggiori rischi per la propria incolumità. Le ragioni sono facili da immaginare, essendo immediatamente riconducibili alle caratteristiche proprie dei contesti conflittuali, dove il fattore sicurezza non sempre può essere garantito. Invero, rimanere uccisi mentre si documenta un bombardamento, un agguato, un’operazione bellica non è poi così improbabile.

Nell’ultimo decennio, invece, pare essere sufficiente coprire “certe” tematiche per ritrovarsi, in qualche modo, “imbavagliati” da Governi e attori non-statali, in un clima spesso caratterizzato da totale impunità.

I dati pubblicati lo scorso anno da Reporters sans Frontièrs rilevano come, nel corso del 2020, dei 50 giornalisti assassinati solo il 32% operava in zone di guerra o di conflitto a bassa intensità (Siria, Yemen, Afghanistan, Iraq), mentre il 68% – più di due terzi quindi – all’interno di Paesi “in pace”. “Molti ritengono che i giornalisti siano vittime dei rischi del mestiere. In realtà, il pericolo di essere colpiti è direttamente proporzionale alla ‘criticità’ dell’argomento trattato, spiegava Christophe Deloire, Segretario Generale di RSF.

Non a caso, Karaivaz era impegnato a fare luce sul fitto intreccio tra crimine organizzato e settori della polizia greca.

L’omicidio, peraltro, rappresenta “solo” uno dei tanti metodi utilizzati – il più estremo – per disfarsi dei giornalisti scomodi. Questi spesso si trovano a vivere e lavorare sotto la costante minaccia di essere aggrediti, arrestati, incriminati, molestati online.

Per non parlare poi del cosiddetto fenomeno delle SLAPPs (Strategic Lawsuits Against Public Partecipation), assai diffuso in tutta Europa. Trattasi di cause giudiziarie pretestuose tese a inficiare l’integrità intellettuale del giornalista. Promosse con l’esclusivo scopo di limitare e condizionare l’esercizio del suo diritto di cronaca.

Il caso di Daphne Caruana Galizia è senza dubbio tra i più eclatanti. Prima di essere fatta saltare in aria all’interno della sua auto nel 2017 mentre lavorava a un’inchiesta sui legami corruttivi esistenti tra funzionari maltesi, montenegrini e azeri, la giornalista maltese aveva affrontato ben 40 cause per diffamazione intentate da aziende e funzionari governativi, definite dal figlio Matthewun tipo di tortura senza fine.

In buona sostanza, sono varie le forme subdole di censura indiretta che minano le fondamenta del pluralismo informativo e del diritto dei cittadini a essere informati, generando ciò che il Consiglio d’Europa definisce un chilling effect” sulla libertà di stampa.

Ne sono una recente dimostrazione gli accadimenti che hanno coinvolto la giornalista italiana, esperta di Libia, Nancy Porsia intercettata per mesi senza essere indagata dai PM di Trapani nell’ambito dell’inchiesta sulla Iuventa – nave utilizzata dalla ONG tedesca Jugend Rettet per soccorrere i migranti nel Mediterraneo.

Oltre alle intercettazioni, la magistratura ha dedicato un lungo dossier alle sue attività: foto, contatti sui social e con colleghi, nomi di fonti libiche. “Chi e perché ha disposto tali misure? Si volevano scoprire le fonti, violando il segreto professionale? A che titolo sono state trascritte le intercettazioni con la sua legale Alessandra Ballerini? (…)”, ha chiesto la Federazione Nazionale della Stampa italiana.

Un chiaro caso politico, tenuto conto che –  evidenzia Annalisi Camilli su Internazionale – la prima indagine sulle ONG dedite “a soccorrere i migranti in mare è cominciata nel 2017, quando il presidente del Consiglio era Paolo Gentiloni e il ministro dell’Interno era Marco Minniti, (…) entrambi promotori dell’accordo sui migranti con Tripoli.

È evidente che la funzione di “watchdog” propria del giornalismo sta diventando un pò ovunque una specie di chimera. Per un giornalista criticare le politiche di uno Stato, occuparsi di corruzione o ambiente, raccontare le proteste, può ormai significare non essere più al sicuro. Ovvero vedere compromessa la propria esistenza e la propria reputazione professionale.

Donald Trump, nel corso della sua presidenza, ha reso alquanto complicata la vita dei commentatori politici, screditando il loro lavoro, accusandoli di diffondere fake news, descrivendoli come “nemici del popolo americano“. I suoi continui attacchi contro la stampa sono stati ritenuti da Pen America, organizzazione no profit a tutela della libertà di espressione , “oltraggiosi e illegali”.

In Ungheria, il licenziamento di Szabolcs Dull, direttore del principale sito di notizie indipendente Index.hu, ha segnato nel 2020 la fine della libera informazione. Gli oppositori del premier Viktor Orbán hanno ritenuto l’episodio un manifesto segnale di interferenza governativa nella linea editoriale del giornale. Dal 2010, Index.hu pubblicava inchieste sugli intrighi politici (e non solo) del Governo.

Certo, in alcuni Paesi la deriva è più grave che in altri. Russia, Arabia Saudita, Turchia, Iran, Cina e la lista potrebbe continuare, sono notoriamente nemici giurati di ogni forma di dissenso politico, stampa compresa. La “sorveglianza” giornalistica sulle azioni delle istituzioni viene, infatti, percepita dalle stesse in termini di tentativo di delegittimazione del potere. E, quindi, mortificata attraverso misure liberticide che si riflettono sia sulla legittimità delle attività dei cronisti sia sulla loro sicurezza. Si tenta poi di giustificare il tutto in nome della “sicurezza nazionale” o dell'”interesse pubblico”.

A titolo esemplificativo, si ricorderà che Dunja Mijatović, Commissario per i Diritti Umani del CoE, all’indomani della sentenza di condanna nel 2020 di Svetlana Prokopyeva, dichiarava: “la Russia deve smetterla di ricorrere a procedimenti penali nonché arresti arbitrari per scoraggiare i giornalisti dall’esprimere la propria opinione. La “colpa” della cronista russa di Radio Liberty? Affermare che l’attentato suicida davanti la sede dell’Fsb di Arkangelsk fosse stato una reazione al pugno di ferro di Putin.

Parimenti, il CPJ (Committee to Protect Journalists) nel novembre scorso, ha inviato le autorità di Ankara a porre fine “alle intimidazioni nei confronti della redazione della Mezopotamya News Agency, chiedendo inoltre l’immediato rilascio del reporter curdo Dindar Karataş perseguito per la presunta appartenenza al PKK. Tuttavia è solo reo di aver documentato la repressione messa in atto dalle forze di sicurezza turche contro i civili curdi.

Anche il tema della corruzione nella politica costituisce una potenziale area off limits. Un terreno molto scivoloso sul quale i giornalisti investigativi rischiano cadute assai rovinose.

Gli esempi da citare sarebbero davvero tantissimi. Basti qui ricordare i casi Ismayilova, Šaramet, Kuciak, Marinova, Alonzo Almendares.

La giornalista azera di Radio Free Europe, Khadija Ismayilova, nel 2015, è stata condannata a 7 anni e mezzo di carcere per evasione fiscale. Un mero pretesto per fermare le sue indagini sugli affari di corruzione tra élite al potere, familiari del presidente Aliev e società off-shore.

Pavel Ryhoravič Šaramet, giornalista bielorusso per Ukraïns’ka pravda, ucciso il 20 luglio 2016 con un’autobomba nella capitale ucraina, da tempo si occupava degli abusi politici in Bielorussia. Ad avviso del New York Times, costitutiva una vera e propria spina nel fianco del governo autocratico di Lukašėnka.

Lo slovacco Ján Kuciak, assassinato insieme alla sua fidanzata Martina Kušnírova il 22 febbraio 2018 in una località poco distante da Bratislava, indagava su corruzione e truffe intorno ai fondi strutturali dell’Unione Europea.

Ancora, la bulgara Viktorija Marinova, violentata e uccisa il 6 ottobre del 2018 a Ruse, stava lavorando su uno scandalo legato all’affidamento dei fondi europei.

Mentre l’onduregno Luis Alonzo Almendares, ammazzato a colpi di pistola nella città di Comayagua il 27 settembre 2020, seguiva diverse piste sul malgoverno dei funzionari pubblici locali.

Ulteriore materia pericolosa da maneggiare con estrema cautela è diventata quella delle “proteste”.

L’UNESCO, nel report “Safety of Journalists Covering Protests“, rileva un allarmante trend da parte delle autorità di polizia, sempre più avvezze a usare la forza nei confronti dei reporter – durante le manifestazioni di piazza – con il fine specifico di ostacolare o impedire loro lo svolgimento del proprio lavoro. Centinaia di giornalisti sono stati molestati, picchiati, intimiditi, arrestati, messi sotto sorveglianza, mentre le loro attrezzature venivano distrutte.

Il CPJ ha riportato di oltre 500 incidenti riguardanti operatori della stampa verificatesi durante le proteste del movimento Black Lives Matter, negli Stati Uniti. Mentre, l’US Press Freedom Tracker ha pubblicato 128 storie contenenti dettagli precisi sugli attacchi fisici perpetrati ai danni dei giornalisti.

Espulsioni, detenzioni arbitrarie, violenze, revoche dei permessi necessari per svolgere le attività da reporter, hanno invece colpito, ad agosto scorso, i corrispondenti stranieri che si trovavano in Bielorussia per raccontare tutte le proteste in corso. A lanciare l’allarme era stata Amnesty International. L’ONG rilevava altresì la difficilissima condizione dei professionisti locali, sottoposti a una costante pressione. “I giornalisti in Bielorussia stanno svolgendo un lavoro eroico per far sapere al mondo la brutale repressione operata dalle autorità”, affermava Marie Struthers, direttrice di AI per l’Europa orientale e l’Asia centrale. “È orribile osservare fino a che punto il Governo si spingerà per sopprimere queste informazioni“.

Allarme rosso anche per il giornalismo “green”. L’attualità ci porta in Burkina Faso, dove pochi giorni fa sono stati ammazzati, nei pressi della riserva forestale di Pama, due reporter spagnoli in un attacco di jihadisti del GSIM (Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani). David Beriain – uno dei massimi esponenti del giornalismo d’inchiesta europeo – e Roberto Fraile, cameraman di grande esperienza in teatri di guerra, stavano realizzando un documentario sulla caccia illegale nel Paese africano.

Già nel 2020, Reporters sans Frontièrs aveva denunciato i rischi derivanti dalla copertura di storie legate a questioni ambientali: 20 giornalisti assassinati in 10 anni e oltre 50 violazioni della libertà di stampa.

L’indiano Shubham Mani Tripathi, in un post su Facebook poco prima della sua morte, nel giugno 2020, esprimeva il timore di essere ucciso dalla cosiddetta “mafia della sabbia” per aver indagato sulle illecite espropriazioni di terreno connesse all’estrazione illegale di sabbia nell’India Settentrionale.

Non troppo diversa la testimonianza di Brandon Lee, giornalista statunitense di stanza nelle Filippine. Lee è sopravvissuto a un tentato omicidio nell’agosto 2019. Più volte aveva raccontato di aver subito “minacce e molestie, anche sui social media” per le sue inchieste ambientali nel nord dell’arcipelago. “Ho portato alla luce quelle ingiustizie che ogni governo vorrebbe nascondere“, affermava.

Peter Schwartzstein, esperto di questioni ambientali in Medio Oriente e Nord Africa nonché autore del noto reportage ” The Authoritarian War on Environmental Journalism“, ha spiegato come la crescente pericolosità del giornalismo ambientale sia fortemente connessa “alla maggiore consapevolezza dell’importanza rivestita dall’ambiente” tanto nell’opinione pubblica che nel dibattito politico.

Appare opportuno aggiungere a quanto finora detto una nota in merito alla pandemia da Covid-19. Per quanto possa sembrare assurdo, in diverse parti del mondo, quanti hanno dato copertura mediatica al “coronavirus” si sono ritrovati dietro le sbarre. Ben 130 membri della stampa, secondo il nuovo rapporto annuale di Reporters sans Frontièrs. In testa, gli operatori dei media cinesi, seguiti da sauditi, egiziani, vietnamiti, siriani.

Molti Governi hanno utilizzato le necessarie precauzioni sanitare come escamotage per determinare una sorta di lockdown dell’informazione rispetto al loro operato. In Pakistan, lo scorso giugno, Saeed Ali Achakzai e Abdul Mateen Achakzai sono stati trattenuti e torturati, per tre giorni, da un gruppo paramilitare dopo aver scritto delle disastrose condizioni di un centro di quarantena nella provincia di Balochistan. Da febbraio 2020, in Egitto, 10 giornalisti sono stati arrestati per aver criticato la risposta delle istituzioni al coronavirus. Ancora, in Zimbabwe, Hopewell Chin’ono ha trascorso 45 giorni in carcere a seguito della sua inchiesta sulle presunte frodi del ministero della Salute negli appalti di medicinali legati al Covid-19.

Oggi, in occasione della Giornata Internazionale della Libertà di stampa, leggeremo per tutto il giorno dichiarazioni altisonanti provenienti da più parti. Sarà sottolienato come la libera informazione e la sicurezza dei giornalisti rappresentino una delle basi fondamentali della democrazia. Valori, quindi, da difendere a ogni costo. Peccato che domani tutto tornerà come sempre. E i reporter si troveranno ad affrontare lo stesso immutabile senso di preoccupazione e caducità dettato del fatto di voler essere “voci fuori dal coro”. Senza arrendersi. E la libertà di stampa ringrazia.

Tiziana Carmelitano

Autrice freelance, si occupa in particolare di temi globali nonché di violazioni dei diritti umani in contesti conflittuali, post-conflittuali e in situazioni di "Failed States". Con un occhio di riguardo per donne, bambini e giustizia transitoria. Il tutto in chiave prevalentemente giuridica. Convinta che la buona informazione abbia un ruolo decisivo nell'educazione al rispetto dei diritti fondamentali e delle diversità.

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