[Traduzione a cura di Luciana Buttini dall’articolo originale di Walid El Houri pubblicato su openDemocracy]
Nei dodici mesi successivi allo scoppio delle proteste nel Paese, il Libano è precipitato in una spirale di eventi sempre più rapidi, provocati da un élite politica incompetente e corrotta che deve ancora assumersi le responsabilità per i numerosi crimini commessi.
Un anno fa, la combinazione di fallimenti dello Stato, difficoltà economiche e perdita di fiducia nei confronti della classe politica hanno innescato manifestazioni di protesta in tutto il Paese. Collera mista a speranza hanno portato alla cosiddetta “Rivoluzione d’ottobre”, evento senza precedenti che sembrava poter rendere effettivo il vero cambiamento. Ad oggi, la rabbia non è diminuita, a differenza della speranza.
Data la scelta di attuare riforme, seppur minime, o comunque di arginare, anche momentaneamente, la corruzione al fine di impedire la totale distruzione dell’economia del Paese e della vita delle persone, la classe dirigente libanese ha trovato un’alternativa: la repressione.
Non in sordina ma con un colpo forte
Per decenni la cleptocrazia al potere ha gestito una sorta di “schema Ponzi”. Un sistema per cui i politici ricorrevano continuamente a prestiti per pagare un debito nazionale crescente in modo da potersi appropriare indebitamente dei soldi dello Stato. Ma alla fine, inevitabilmente, la bolla è scoppiata. Dal 1997, il tasso di cambio era stato fissato a 1.500 lire libanesi per dollaro. Tuttavia, ad agosto dello scorso anno, questa cifra ha iniziato a oscillare e dopo alcuni mesi sono stati introdotti sei diversi tassi di cambio del dollaro. Quello ufficiale resta a 1.500 ma nella realtà del mercato nero ha quasi sfiorato il rapporto di 9.000 a uno.
Essendo quella libanese un’economia basata sul dollaro che dipende fortemente dalle importazioni, molti cittadini hanno aperto un conto in questa valuta, ma le banche hanno bloccato gli accessi dando la possibilità, nel frattempo, ai grandi depositanti di contrabbandare miliardi all’estero.
Secondo le attuali previsioni dell’Agenzia delle Nazioni Unite, il 55% percento dei cittadini libanesi, quasi il doppio rispetto allo scorso anno, fatica a procurarsi lo stretto necessario. E tutto questo avveniva prima dello scoppio della pandemia.
Poi, lo scorso agosto l’enorme incendio scoppiato al porto di Beirut ha distrutto buona parte della capitale, causando oltre duecento vittime e migliaia di feriti. Incalcolabile il numero di persone rimaste senza casa tra cui molti lavoratori migranti e rifugiati che non ricevono quasi alcun tipo di sostegno, mentre intanto devono anche affrontare il razzismo dei libanesi.
Un crimine di quella portata non poteva essere ignorato. Eppure, finora non è stato ancora trovato il colpevole. Le indagini sono in ritardo impantanate a causa della sfiducia nei confronti di un’autorità che si è già dimostrata in più occasioni incompetente e corrotta.
Il 29 ottobre dello scorso anno, le continue proteste nel Paese avevano fatto cadere il Governo di Saad Hariri. Ad un anno dall’inizio delle manifestazioni, l’ex primo ministro sembra voler tornare al potere, anche se l’attuale presidente, Michel Aoun, deve ancora tenere le necessarie consultazioni parlamentari.
“Milizie e criminali”
Invece di far fronte a uno dei tanti mali abbattutisi sul Paese, la classe dirigente ha intensificato la repressione del dissenso e della libertà di espressione.
Wassef Harakeh, importante attivista e membro dell’Osservatorio popolare per la lotta alla corruzione, ha espresso chiaramente la sua posizione rispetto alle proteste contro l’establishment libanese. Nel corso di un’intervista mi ha spiegato che:
“Quello che sta accadendo in Libano è più di un semplice declino delle libertà. Siamo di fronte a una distruzione sistematica della libertà e questo è il risultato di una logica di securitizzazione della legge.”
Harakeh ha poi confermato che:
“Esiste una campagna intimidatoria contro giornalisti e attivisti che vengono sistematicamente convocati per essere interrogati, arrestati e persino perseguiti.”
Nell’ultimo anno, giornalisti e attivisti hanno affrontato sempre più difficoltà, il tutto in un contesto fatto di insicurezza e minacce sia da parte delle istituzioni statali che dai criminali associati ai diversi partiti politici al potere.
Secondo Nour Haidar, avvocata libanese di Legal Agenda, organizzazione no-profit con sede a Beirut, dietro questa repressione nel Paese non c’è soltanto la polizia ma anche “l’esercito, la sua intelligence, le guardie del corpo dei politici, i sostenitori dei partiti politici e i procuratori che hanno sporto, in modo spropositato, pesanti accuse contro i manifestanti trattenendoli per settimane senza una causa.”
E ancora, “questo regime dispone di diversi strumenti operativi per gli attacchi alle libertà, tra cui le milizie e i criminali.”
Le forze che guidano queste azioni violente ruotano attorno alla complessa rete del potere politico, finanziario e settario del Paese. Esercito, polizia e magistratura fanno tutti parte dello stesso network che comprende molti uomini d’affari noti, banchieri, politici e organi di stampa. Qualora ciò non bastasse, i partiti politici e gli oligarchi hanno spesso a disposizione un esercito, una milizia o addirittura dei criminali da mettere in campo quando tutto il resto fallisce.
Un potere giudiziario difettoso
Uno dei problemi principali nel Paese risiede nel suo sistema giudiziario. Secondo Harakeh,
“Il potere giudiziario non è indipendente ma è uno strumento nelle mani del… potere politico. Perciò non sorprende il fatto che i tribunali siano impegnati a emanare accuse contro giornalisti e attivisti mentre coloro ritenuti responsabili del crollo economico, della corruzione e recentemente dell’esplosione al porto di Beirut godano dell’impunità.”
Aggiunge inoltre:
“Sfortunatamente, se qualcuno scrive un post su Facebook viene perseguito o, comunque, convocato per essere interrogato, mentre coloro che hanno attaccato i manifestanti, accecandoli, nonostante sia stati ripresi e siano state presentate delle cause penali contro di loro, rimangono liberi.”
Un gruppo di legali coinvolti nelle proteste si è riunito nel Comitato degli avvocati per la difesa dei manifestanti al fine di aiutare le persone arrestate a causa della repressione. Collaborando poi con Legal Agenda hanno sporto quindici denunce per conto di diciassette persone che dichiarano di aver subito tortura, e a questo proposito Nour Haidar ci ha spiegato che “il giudice istruttore ha preferito non indagare.”
I legali hanno anche presentato una denuncia per l’impiego di vere e proprie munizioni e schegge di proiettili ma, secondo Haidar, il caso resta sotto inchiesta “in quanto non si è avuto alcun aggiornamento in merito”.
Andare contro la legge libanese
“I manifestanti che si sono mobilitati per esprimere liberamente il loro rifiuto nei confronti dell’attuale regime politico ed economico hanno subito una violenta repressione” ha affermato Haidar. Ha poi continuato: “la legge libanese è chiara riguardo all’importanza fondamentale della libertà di espressione e del diritto di protestare.” Nonostante ciò, secondo lei, lo Stato ha fatto ricorso agli arresti di massa, alla brutalità, alla violenza e alla tortura per mano dell’esercito e della polizia, ma anche ai mandati di comparizione e agli interrogatori per post scritti sui social network fino ad arrivare ai processi penali per reprimere le stesse manifestazioni.
Per Haidar, è stato il termine arabo “شغب”, spesso tradotto erroneamente come “sommosse”, a rappresentare la ragione più comune per giustificare gli arresti. In realtà, si tratta del reato di “continuare a protestare dopo che le forze dell’ordine abbiano intimato ai manifestanti di disperdersi, che è diventato legge nonostante il Libano fosse ancora sotto il mandato francese.”
Talvolta, ha continuato Haidar, “le accuse mosse contro i manifestanti sono di violenza contro le forze dell’ordine o di insulti nei confronti dell’esercito”, e secondo la legge libanese, in questi casi i civili possono essere processati soltanto nei tribunali militari. Per questo motivo, ha spiegato l’avvocata libanese, “l’accusa di violenza contro le forze dell’ordine è stata così largamente utilizzata.”
Verso la metà del mese di ottobre, Legal Agenda ha pubblicato un rapporto che fornisce dettagli utili circa il fenomeno della repressione. Infatti, nel periodo che va dal 17 ottobre 2019 al 15 aprile scorso (inizio del lockdown nel Paese), sono state almeno 967 le persone arrestate in relazione alle proteste. Del totale, 58 erano minori e 46 erano cittadini non libanesi. Invece, dal 16 aprile al 30 giugno di quest’anno, sono state arrestate altre 208 persone.
Repressione digitale
SMEX, [l’ONG libanese per lo sviluppo e la difesa dei diritti digitali nel MENA, NdT], gestisce un database che registra gli attacchi alla libertà di parola in Rete. Un uso continuo della banca dati ha permesso di registrare quasi il quadruplo degli attacchi rispetto al 2017.
A quanto riportato, gli attacchi si rivolgevano non solo a coloro che criticavano o deridevano le figure politiche e religiose, ma anche ai “cittadini, ai giornalisti e alla società civile.” Si sono verificati anche casi di attacchi contro chi “denuncia la situazione finanziaria dello Stato.” L’organizzazione ha spiegato che casi come quest’ultimo “sono aumentati moltissimo da quando l’economia del Paese si è deteriorata” in quanto lo Stato ha emanato arresti in base a vecchie leggi che sopprimono il diritto di espressione.
Lo scorso giugno, il pubblico ministero libanese ha avviato un’indagine per scoprire “chi, attraverso i social network, ha pubblicato di proposito post contro il Presidente della Repubblica rendendosi responsabile di reati quali diffamazione, calunnia e oltraggio.”
Secondo SMEX,
“Spesso, le autorità interrogano e trattengono gli imputati prima del processo e cercano di costringerli a firmare una dichiarazione d’impegno ad astenersi dall’uso dei social network oppure li esortano a rimuovere i contenuti pubblicati, il che favorisce una cultura di autocensura.”
“A volte, prima di essere citati in giudizio da parte delle autorità, i giornalisti, gli attivisti e i cittadini possono anche subire attacchi in Rete da parte di un ‘esercito elettronico’ , come i follower della polizia militare.”
L’ONG ha poi sottolineato che se la maggior parte di coloro che vengono processati nei tribunali appartengono al genere maschile, sono specialmente le donne a subire abusi raccapriccianti in quanto spesso “vengono prese di mira sui social network e sono vittime di molestie e doxing.”
Impossibile arrendersi
Mentre lo stato di povertà e la crisi economica provocano violenza e scatenano episodi di razzismo, la situazione di stallo politico persiste. I leader si rifiutano di fare concessioni per timore che possano perdere il loro potere, lo stesso che gli permette di evitare ogni tipo di responsabilità.
Inoltre, il fatto di non riuscire a fare giustizia o, meglio, di aver fallito nel perseguire i grandi reati, in quanto le risorse finanziarie vengono spese per dare la caccia agli attivisti, sono due elementi che contribuiscono a perpetuare la crisi.
Dopo oltre due mesi dall’esplosione al porto di Beirut, non è stato ancora identificato alcun responsabile del disastro.
Haidar ritiene che le libertà garantite dalla legge libanese “siano state profondamente intaccate” dal momento che al sistema giudiziario penale è stato consentito di “dare la caccia a manifestanti e giornalisti.” Sembra che ciò “sia il segnale di una tendenza preoccupante che spinge verso il rafforzamento di uno Stato di polizia nel Paese.”
Come ha affermato Harakeh,
“la Costituzione libanese garantisce la libertà. Tuttavia, il testo legislativo, invece di essere usato per il bene della giustizia, viene messo al servizio della classe politica dominante.”
L’élite corrotta del Paese, anche mentre porta avanti i suoi sporchi affari, non si fa scrupoli a prendere posizione e promettere di contrastare il fenomeno della corruzione, apparentemente visto come un concetto astratto. Di questi tempi, le promesse di lotta alla corruzione sono diventate parte integrante di qualsiasi discorso retorico da parte di politici corrotti.
Il fatto di avere dei tribunali indipendenti è una necessità fondamentale per il Paese. Come spiega Haidar,
“La soluzione più importante e urgente sarebbe quella di approvare una legislazione ampia e aggiornata che garantisca e difenda l’indipendenza del potere giudiziario.”
Harakeh crede anche che la lotta non debba fermarsi e quindi:
“Il modo più importante per far fronte a questa forma di autorità e alla campagna di repressione è quello di sostenere il diritto alla libertà. Il resto sono dettagli. La nostra unica speranza resta quella di ottenere un vero cambiamento.”