Sud America, ripercussioni della pandemia sui flussi migratori

[Traduzione a cura di Luciana Buttini dall’articolo originale di Mariana Almeida Silveira Correa e Mariane Monteiro Da Costa pubblicato su openDemocracy]

Rifugiati venezuelani che, passando per Cúcuta si dirigono verso il Venezuela. Flickr/Cristal Montanez in licenza CC
Rifugiati venezuelani che, passando per Cúcuta, si dirigono a piedi verso il Venezuela. Flickr/Cristal Montanez in licenza CC

La pandemia di coronavirus ha prodotto profonde ripercussioni in tutto il mondo ma ci sono alcune categorie di persone, ad esempio i migranti, che ne sono rimasti più duramente colpiti. L’articolo analizza il modo in cui il Covid ha contribuito ad accrescere la vulnerabilità dei migranti venezuelani in Sud America che si trovavano, in particolare, in Paesi come l’Ecuador, il Perù, il Cile e la Colombia.

Dal 2014 sono stati oltre 5 milioni i cittadini che hanno lasciato il Venezuela per spostarsi principalmente verso i Paesi limitrofi. Questo scenario si è realizzato dopo le diverse crisi, economica, politica, umanitaria e di approvvigionamento cui lo Stato stava facendo fronte. Il Governo di Nicolás Maduro non solo è stato accusato di aver perseguito politicamente gli oppositori ma anche di aver utilizzato la crisi umanitaria come strumento di persecuzione. Per questi motivi, l’Organizzazione degli Stati americani (OSA) e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) raccomandano di seguire la Convenzione di Ginevra del 1951 che riconosce ai Venezuelani lo status di rifugiati. Entrambe le organizzazioni hanno poi affermato che il riconoscimento di questa condizione si evince anche sulla base dei princìpi generali contenuti nella Dichiarazione di Cartagena del 1984.

Il processo di “securitizzazione” dei flussi migratori in Sud America

La presenza di questo flusso migratorio ha causato, nei Governi di tutto il Sud America, diverse reazioni. In primo luogo, nessuno dei Paesi sudamericani ha attribuito ai Venezuelani lo status di rifugiati, così come sancito dalla Dichiarazione di Cartagena. Sono solo alcuni i cittadini a cui, secondo la Convenzione del 1951, viene riconosciuta questa condizione in quanto si tratta di una procedura che avviene per singoli casi. Nel luglio del 2019, il Brasile è diventata il primo e, finora l’unico, Paese del Sud America a riconoscere ai migranti venezuelani la condizione di “rifugiati” sulla base dei princìpi generali contenuti nella Dichiarazione di Cartagena. Pertanto si può dire che il processo di regolarizzazione dei venezuelani sia avvenuto per lo più singolarmente.

L’alta intensità del flusso migratorio, insieme alla diffusione di discorsi xenofobi, ha portato all’adozione di misure di “securitizzazione” in tre Stati della Regione. Il Cile è stato il primo Paese a limitare l’ingresso dei Venezuelani. Per poter entrare nella nazione i Venezuelani dovevano essere provvisti di un passaporto e nell’aprile del 2018 ai cittadini di questa nazionalità è stato imposto di esibire un nuovo documento: il visto di responsabilità democratica. Questa misura, a sua volta, ha portato ad un aumento del numero di cittadini venezuelani in Perù in quanto molti di loro, non potendo entrare in Cile, sono rimasti bloccati al confine.

Di conseguenza, nello stesso periodo anche il Perù ha cominciato a chiedere i passaporti ai Venezuelani, ad eccezione dei richiedenti asilo. A giugno dell’anno scorso, il Paese ha adottato un’altra misura di sicurezza iniziando a chiedere un visto umanitario. Dopo i nuovi provvedimenti imposti dal Perù, la stessa situazione si è presentata anche in Ecuador e questo ha portato molti Venezuelani a rimanere bloccati al confine tra i due Paesi. A luglio del 2019, anche l’Ecuador ha introdotto il visto umanitario. Quest’ultimo, disponibile solo per chi entrava legalmente, veniva chiesto all’ingresso ed era obbligatorio anche per la regolarizzazione dello status di quei Venezuelani che già si trovavano nel Paese.

I requisiti per richiedere visti e passaporti sono misure messe in atto dai processi di “securitizzazione” della migrazione e sono volte a impedire l’ingresso dei migranti nel Paese. Lo scopo di questi provvedimenti è quello di ridurre il fenomeno dell’immigrazione con il pretesto della sicurezza nazionale. Nel caso del Venezuela, negli ultimi anni sta diventando sempre più difficile ottenere i passaporti. Anche se la maggior parte dei Paesi accetta passaporti scaduti, bisogna dire che molti cittadini non sono mai riusciti a ottenerne uno. I requisiti per il visto limitano ancora di più la migrazione regolare in quanto le procedure di richiesta comportano, oltre al possesso di un passaporto, versamenti fiscali e documenti difficili da reperire, come il certificato penale.

L’attuale corridoio migratorio che dal Venezuela collega fino al Cile, ad eccezione della Colombia, è stato messo in sicurezza. È importante sottolineare infatti come il Perù, l’Ecuador e la Colombia, oltre a essere Paesi di transito, sono anche Paesi di destinazione. Com’è noto nella letteratura, le misure di “securitizzazione” non riducono il fenomeno della migrazione ma, al contrario, aumentano la vulnerabilità dei migranti stessi. Alla luce dei nuovi provvedimenti in materia di sicurezza, i migranti sono alla mercé dei coyotes (termine utilizzato in Sud America per indicare i trafficanti di migranti che si muovono tra le due frontiere NdT) e devono rischiare la loro vita. Una volta arrivati a destinazione, i migranti sono considerati “clandestini” e non hanno diritto all’assistenza pubblica. Inoltre, la loro condizione di “irregolarità” li rende vulnerabili allo sfruttamento da parte di datori di lavoro e inquilini. Così, la maggior parte di loro si inserisce nel mercato cosiddetto “informale”.

In che modo il Covid-19 ha colpito i rifugiati venezuelani?

La pandemia di coronavirus ha aggiunto un altro elemento alla questione migratoria. Molti cittadini venezuelani che vivevano in Cile, in Colombia, in Ecuador e in Perù hanno cominciato l’esodo verso il Venezuela. Una situazione, questa, già difficile di per sé che si è aggravata ancor di più: molte persone hanno perso il lavoro e la casa e hanno iniziato a patire la fame. Tutto ciò ha causato quello che i ricercatori Espinoza, Zapata e Gandini hanno denominato come una sorta di “mobilità nell’immobilità”. Quest’espressione descrive il persistere dei flussi migratori, nonostante la chiusura delle frontiere per arginare la diffusione del Covid-19.

Il processo di regolarizzazione dei Venezuelani nei Paesi in cui si sono trasferiti è direttamente connesso alla loro questione sociale. Solo dopo essersi regolarizzati, i migranti possono procurarsi i documenti locali, un ulteriore passo che consente loro di cercare dei posti di lavoro formali. Oltre a ciò, soltanto i migranti regolari possono chiedere gli aiuti pubblici, come i programmi di trasferimento di denaro contante per le famiglie che vivono in una situazione di vulnerabilità sociale. Degli esempi sono i programmi di welfare istituiti dai rispettivi Governi quali “Bolsa Família” in Brasile, “Chile Solidario”, “Programa Nacional de Asistencia Solidaria” in Perù, “Famílias en Acción” in Colombia e “Bono de Desarrollo Humano” in Ecuador.

Sebbene siano disponibili per tutti i cittadini dei Paesi del Sud America, questi aiuti non vengono concessi a caso e questo fa sì che molti migranti restino tagliati fuori da questi programmi governativi. Inoltre, anche coloro che hanno diritto agli aiuti si ritrovano in una situazione finanziaria e sociale difficile in quanto la somma stanziata non risulta sufficiente a coprire tutte le spese. Questi cittadini incontrano delle difficoltà ancora più grandi quando devono accedere all’istruzione e ai servizi sanitari, per non parlare dei numerosi ostacoli posti dalle barriere linguistiche che, soprattutto in Brasile, impediscono di poter ottenere un posto di lavoro formale. Tuttavia, anche quest’ultimo non garantisce un reddito fisso alle famiglie e, durante la pandemia, questa situazione è peggiorata drasticamente.

A differenza degli altri Paesi, il Brasile non ha adottato alcuna politica di “securitizzazione” e non si sa nulla nemmeno dei comuni rimpatri. Questo non vuol dire, però, che la situazione dei migranti venezuelani nel Paese sia più facile. Nelle grandi città, dove si assiste ad un aumento del costo della vita, le persone vengono sfrattate dalle loro abitazioni e si ritrovano a far fronte all’insicurezza alimentare. Sebbene il Governo abbia messo a disposizione aiuti di emergenza per coloro che versano in condizioni di vulnerabilità, come i programmi di trasferimento di denaro contante, non tutti ricevono ciò di cui hanno diritto. Inoltre, la crisi ha causato un aumento della disoccupazione, un elemento che ha finito per aggravare ulteriormente la condizione di fragilità di queste persone.

Ed è in questa situazione che entra in gioco la solidarietà di quei volontari che aiutano migranti e profughi. I Venezuelani cercano aiuto, innanzitutto, all’interno della loro comunità, una rete fatta di amici e parrocchiani che spesso effettuano donazioni di cibo, vestiti e anche mobili. Chi aiuta rifugiati e richiedenti asilo appartiene perlopiù alla Chiesa Cattolica e alle ONG.

Le campagne di raccolta fondi sono comunque già sufficienti. Alla luce della pandemia bisognerebbe piuttosto mettere in atto specifiche politiche pubbliche che, a prescindere dal singolo status giuridico, facciano fronte all’attuale situazione di migranti e rifugiati al fine di evitare un’ulteriore violazione dei loro diritti.

Luciana Buttini

Laureata in Scienze della Mediazione Linguistica e Specializzata in Lingue per la cooperazione e la collaborazione internazionale, lavora come traduttrice freelance dal francese e dall'inglese in vari ambiti.

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