26 Aprile 2024

Esternalizzazione delle frontiere, storia dal carattere ideologico

Profughi attraversano il Mar Mediterraneo su una barca, diretti dalla costa turca all’isola greca di Lesbo. Wikimedia Commons

L’urgente necessità di riportare l’essere umano al centro di questa migrazione globale senza precedenti e la criminalizzazione della migrazione continuano a porre molte sfide per lo stato di diritto e la difesa dei diritti umani nei Paesi europei.

La politica di esternalizzazione delle frontiere, ovvero il trasferimento del controllo delle proprie frontiere a Paesi terzi per impedire l’accesso delle persone straniere sul proprio territorio, è da tempo uno strumento strategico con cui l’Europa gestisce i flussi migratori. Una strategia che risale all’inizio del ‘900. Ci riferiamo alla Conferenza di Evian-les-Bains (Francia) organizzata nel 1938 dalla Società delle Nazioni per gestire l’accoglienza di oltre 600.000 ebrei in fuga dalla Germania e Austria a seguito della persecuzione nazista.

La Conferenza di Evian-les-Bains (Francia). Foto ripresa da Wikipedia

Nel corso di quell’incontro i delegati espressero apertamente la loro simpatia per rifugiati, ma non presero decisioni in merito all’accettazione nei propri Paesi. Si terminò quindi con una risoluzione che riguardava le conseguenze della migrazione di massa degli ebrei sull’economia globale, e stabilendo che i Paesi d’asilo, provati dalla crisi economica del 1929 e segnati dalla disoccupazione e a causa di vari altri problemi, potessero chiudere le frontiere.

La soluzione alternativa degli Stati democratici per risolvere la crisi era di stabilire con il regime nazista di Hitler qualche forma di controllo per poter limitare il flusso. Si disse poi che gli ebrei furono traditi e che queste azioni finirono per agevolare il  genocidio. Le strategie di respingimento sono tuttora utilizzate dagli Stati europei di fronte ai flussi migratori provenienti dall’Africa e da Paesi del Medio Oriente.

I Summit di Khartoum in Sudan e La Valletta a Malta nel 2015, sono infatti i due momenti fondamentali nella strutturazione dei rapporti dell’Unione Europea (UE) con l’Africa Sub-Sahariana, con l’utilizzo dell’esternalizzazione delle frontiere già adottata al Processo di Rabat nell’ambito del quale si era infatti lanciata, nel 2007, la collaborazione della UE nella gestione della migrazione con alcuni Paesi del Maghreb.

Da Khartoum in poi, viene estesa alla zona del corno d’Africa e Sahel la logica già applicata per controllare la frontiera marocchina-spagnola. Vengono delegati a questi Paesi terzi, regimi noti per le violazioni dei diritti umani come Sudan ed Eritrea, il controllo delle frontiere e il blocco dei migranti in transito. L’accordo con il Sudan sotto l’ex presidente Omar al-Bashir, la UE e l’Italia ha visto delegare il controllo alle cosiddette Rapid Support Forces ex milizie Janjaweed accusate di genocidio nel Darfur – per fermare i profughi a tutti costi.

Nel 2015, per poter finanziare queste iniziative, la UE ha creato un fondo fiduciario per l’Africa cioè il cosiddetto EU Trust Fund for Africa. Un presunto fondo di emergenza che era inizialmente pari a 1,8 miliardi di euro, aumentato poi a 4,3 miliardi di euro, di cui oltre 4 miliardi provengono dal fondo UE per gli aiuti e la cooperazione allo sviluppo. Fondi distribuiti tra i Paesi interessati alla rotta del Mediterraneo centrale: la regione del Sahel (Libia, Mali e Niger) e il Corno d’Africa (Etiopia, Eritrea, Somalia e Sudan).

Nonostante le gravi violazioni dei diritti umani di cui è stato accusato il presidente turco, Tayyip Erdogan, nel 2016 la Unione europea ha firmato il cosiddetto EU-Turkey Deal – un accordo con la Turchia a fronte dell’impegno a sigillare il suo confine con la Siria e Paesi del Nord Africa e per bloccare l’ingresso dei migranti in Grecia. In cambio il Governo turco avrebbe ricevuto la somma di 6 miliardi di euro. Un accordo che ha provocato drammatiche implicazioni per i diritti umani ed è costato la vita a molti migranti siriani.

L’Italia ha sempre avuto un ruolo centrale nell’esternalizzazione della frontiera, ed è uno dei principali Paesi beneficiari del fondo fiduciario per l’Africa. Da decenni, è stato uno dei Paesi europei con maggiore flusso migratorio dal continente africano, e questo lo ha spinto a focalizzare le sue politiche nei Paesi d’origine dei migranti o di transito coinvolti nella rotta del Mediterraneo centrale: Libia, Ciad, Niger,Tunisia, Egitto.

Già dal 2017, il Governo italiano ha intensificato la pratica di esternalizzazione dopo la firma della cosiddetta Intesa Tecnica con il presidente della Repubblica del Niger, Mahamadou Issoufou. L’intesa prevedeva un impegno di 50 milioni di euro da parte dell’Italia.

In base a questo accordo, nel gennaio 2018, il Parlamento italiano ha votato per una missione militare in Niger con la spedizione di oltre 470 uomini, 130 mezzi terrestri e 2 aerei, trasformando il Niger nella nuova frontiera meridionale dell’Europa. Gli obiettivi della missione erano il contrasto alla migrazione irregolare, il rafforzamento delle capacità di controllo del territorio da parte delle autorità nigerine e dei Paesi del G5 Sahel, lo sviluppo e l’addestramento delle forze di sicurezza nigerine e la creazione di centri d’accoglienza in loco per facilitare i rimpatri.

La Libia rimane tuttavia il Paese principale per tali tipi di accordi. A cominciare dal trattato Italia-Libia siglato a Bengasi il 30 agosto 2008, approvato e reso esecutivo con la legge del 6 febbraio 2009, che all’art.19 comma 2 e 3 prevede espressamente aiuti e finanziamenti italiani ed europei per il contrasto dell’immigrazione irregolare che arriva a e proviene dal territorio libico. Una legge che verrà poi estesa al Memorandum d’Intesa firmato il 2 febbraio 2017 dall’ex Primo Ministro Paolo Gentiloni e il Governo libico di Fayez al Serraj.

Nonostante le condanne a questo accordo da parte delle organizzazioni internazionali per i diritti umani, per il rischio che comporta per la tutela dei diritti dei migranti, alla sua scadenza nel 2 febbraio 2020 il Governo Conte l’ha rinnovato, con lo scopo di rafforzare la cooperazione nella gestione delle frontiere libiche per altri tre anni, la gestione dei centri di detenzione per garantire il respingimento, la riduzione dei flussi migratori e l’addestramento e l’armamento della Guardia Costiera Libica.

Inoltre, con la politica anti-immigrazione del governo di centro-destra, nel 2018 è stato emanato il decreto Salvini-Bis convertito con legge 8 agosto 2019, n.77. Questo ha portato cambiamenti sulle norme in materia d’immigrazione e sul codice di condotta delle navi Ong che effettuano salvataggi nel Mar Mediterraneo, penalizzando e limitando le loro attività di ricerca e soccorso di migranti, e anche l’eliminazione della protezione umanitaria e alcuni diritti sociali dei migranti.

Un centro di detenzione dei migranti in Libia. Foto di Sara Greta, pubblicata su gentile concessione dell’autrice

Rimangono inascoltate le ripetute segnalazioni della violazione dei diritti umani fatte dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani-OHCHR, e le richieste per la chiusura dei lager libici, strutture che non sono adatte ad ospitare esseri umani, ma che la UE continua a di fatto a finanziare.

Nel mese di giugno, a Ginevra, sono stati presentati i rapporti di due relatori delle Nazioni Unite sui diritti umani e la tortura, Felipe Gonzàlez Morales e Nils Melzer. Il rapporto si sofferma sulla brutalità della polizia croata e sull’uso sproporzionato della forza, sugli abusi fisici e umiliazioni nelle operazioni di respingimento dei migranti compresi i bambini. Tutti atti compiuti in violazione del principio di non-refoulement e del diritto d’asilo stabiliti nella Convenzione di Ginevra del 1951 sullo Status del rifugiato e il successivo Protocollo del 1967. Il Governo croato a queste accuse non ha fornito alcuna risposta, nè giustificazione.

Dall’inizio del lockdown, molti Paesi europei hanno iniziato a utilizzare la pandemia di Covid-19 come un altro motivo per respingere ulteriormente i migranti in Libia e bloccare le frontiere. Nel mese di maggio, il Governo maltese ha respinto una nave con a bordo 51 migranti, tra cui bambini, che sono stati rimpatriati su una barca privata in Libia e successivamente inviati in una struttura di detenzione.

Proprio alcune settimane fa, il quotidiano statunitense New York Times ha raccontato di un’inchiesta dettagliata su espulsioni segrete di centinaia di migranti compiute dal Governo greco, persone abbandonate in mare al di là delle proprie acque territoriali, ma la Grecia continua a negare le accuse.

Nell’ultimo anno il Governo greco, con la nomina del Primo Ministro conservatore Kyriakos Mitsotakis, aveva già cominciato ad adottare politiche migratorie molto dure, ma quello che sta succedendo ora sembra essere senza precedenti. Dal mese di marzo fino ad oggi, più di 1000 migranti sono stati respinti in segreto in periodo di piena emergenza sanitaria.

Intanto, in Italia continuano a salire le tensioni tra il Governo e le regioni dopo la chiusura dei porti alle navi delle ONG, di hotspot e centri di accoglienza in Sicilia, e le richieste di rafforzare il blocco della frontiera a causa degli sbarchi dalla Libia. Tutto questo mentre si incolpano i migranti di essere possibili diffusori del coronavirus.

Questo sistema di politica della sicurezza basato sulla negazione e l’annullamento dei diritti dei migranti, condotto attraverso gli accordi, non può che portare alla cristallizzazione acuta della pratica dell’esternalizzazione creando una nuova forma di fascismo della frontiera, come lo ha definito la scrittrice francese Flore Murard-Yovanovitch, e la sua dilagante accelerazione.

Quasi ogni giorno si parla della questione migratoria, dei porti chiusi e dei profughi considerati soggetti non graditi, che devono restare fuori dalla vista, detenuti, discriminati, rimpatriati, respinti il più lontano possibile, o addirittura uccisi. Tutto questo può solo alimentare a sua volta ulteriore diffidenza, pregiudizi, odio, lasciando irrisolta una questione centrale della nostra epoca.

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