Il blues accompagna me e Sara da ormai 30 anni, non è solo una musica è un modo di raccontarsi. L’abbiamo conosciuto quando eravamo bambini e con il passare del tempo invece di stancarci ci ha appassionato sempre di più.
Per tante ragioni spesso questa musica è stata maltrattata e raccontata in modo sbagliato e approssimativo, questo anche per i grossi limiti culturali con i quali abbiamo spesso dovuto fare i conti anche in tempi recenti.
Il blues per noi che non siamo nati in America non è un background e quindi è prima di tutto ricerca, questa è imprescindibile per evitare di fare passi falsi e toccare l’essenza di questa musica.
Da qualche anno io e Sara Piolanti suoniamo insieme, lei oltre ad essere una cantante straordinaria ha anche coltivato un proprio percorso autorale che l’ha allontanata dalla sua città d’origine per parecchi anni facendola collaborare con Modena City Ramblers, Caravan Deville, Marta Sui Tubi, io invece sempre alla ricerca del blues ho collaborato con artisti italiani e stranieri.
Tra gli autori che mi hanno sempre entusiasmato c’è sempre stato Bukka White. Booker T. Washington White era un galeotto i cui brani sono divenuti iconici per il blues con una qualità poetica che non è mai stata raggiunta da nessun altro. Da questa mia passione per Bukka White è nata una ricerca incentrata sul blues carcerario, che Sara ha sposato con grande entusiasmo facendola sua.
Effettuando la necessaria ricerca ci si è aperto un mondo di autori spesso dimenticati che ci ha fatto capire quanto questa tematica portasse al suo interno la vera matrice di questa musica.
Never will forget that day
When they taken my clothes
Taken my citizen clothes
And throwed them away
(Bukka White)
Non dimenticherò mai il giorno
che mi presero i vestiti
I miei vestiti civili
e li buttarono via
Si è trattato di una ricerca a tutto campo che ha preso poi il nome di Prison Songbook. Entrare nel dettaglio del lavoro che è alla base di Prison Songbook è anche l’occasione per fare conoscenza con alcuni artisti dalla forte originalità e personalità.
Sarebbe però sbagliato iniziare questa breve sintesi senza citare le persone che si interessarono in modo determinante alla scoperta e alla registrazione di molti degli artisti che con Prison Songbook abbiamo deciso di presentare. Infatti dagli anni 30 ai 60 gli etnomusicologi, Jhon e Alan Lomax, il Dr Hanry Oster e Richard Allen esplorarono e registrarono le voci più originali del Mississippi Blues all’interno dei penitenziari del Sud degli Stati Uniti. Un’opera monumentale che tuttora non ha eguali.
Ai Lomax dobbiamo la scarcerazione per esempio di Leadbelly nel 1934 grazie anche alle pressioni fatte sul governatore Allen, ad Oster invece dobbiamo la vera e propria scoperta e registrazione in carcere del geniale Robert Pete Williams, nonché la riduzione della condanna a vita a una condanna a 12 anni. Oster ci ha permesso anche di conoscere e apprezzare l’espressività di Otis Webster, Hogman Maxey, Guitar Welch e molti altri nelle registrazioni effettuate nel carcere di Angola in Louisiana. Sempre i Lomax registrarono Bukka White a Parchman anche se il bluesman aveva già un avviata carriera musicale prima della carcerazione.
Prison Songbook si arricchisce anche di contributi di artisti che dedicarono alla detenzione brani anche senza essere stati registrati nei penitenziari, questo perchè il tema della detenzione si lega strettamente alla quotidianità dell’afroamericano in quel periodo storico e quindi il blues in quanto principale strumento di narrazione lo racconta con frequenza. Abbiamo trovato riferimenti a prison song in Son House, in Skip James, in Blind Lemon Jefferson, Furry Lewis e molti altri.
Abbiamo divorato i testi di Lomax, consumato le registrazioni sul campo di Lomax e Oster, interpellato esperti come Marino Grandi (direttore del IlBlues Magazine), chiesto consiglio a musicisti, interpellato trascrittori madrelingua per mettere nero su bianco testi di canzoni altrimenti non disponibili.
Man mano che andavamo avanti ci siamo resi conto che avevamo tra le mani qualcosa di bollente che andava oltre l’aspetto musicale toccando profondamente quello dei diritti umani.
Ovviamente conoscevamo il percorso degli afroamericani nella definizione di una piena ma imperfetta accettazione dei loro diritti civili conoscevamo il codice Jim Crow che per quasi novant’anni creò e mantenne la segregazione razziale in tutti i servizi pubblici, nelle scuole pubbliche, nei mezzi di trasporto e anche nell’esercito, istituendo uno status definito di “separati ma uguali” per i neri americani e per i membri di altri gruppi razziali diversi dai bianchi, ma questa ricerca ci metteva di fronte a una testimonianza poetica e umana inattesa.
Cercando informazioni sul penitenziario di Parchman ci imbattemmo in questa frase di tale Jhon Lewis:
“53 yrs ago today I was released from Parchman Penitentiary after being arrested in Jackson for using “white” restroom” (Jhon Lewis)
“53 anni fa fui arrestato e portato nel penitenziario di Parchman per aver usato i servizi igienici dei bianchi”
Questa frase raccontava molto di come fossero i rapporti di forza fra bianchi e neri in quegli anni ma al tempo stesso ci interrogava sulla nostra società che a volte pare un grande presente dilatato e senza appigli, un’epoca quasi solitaria rispetto al percorso di sviluppo di coscienza dell’umanità, e di come ci sia bisogno di questo sguardo sul passato, sulle origini, di questo approfondimento che non è solo musicale ma abbraccia un più ampio campo di conoscenza, dalla storia alla politica, dai diritti civili fino alla poesia.
La poesia di questi blues che racconta con finezza e ingenuità il sopruso della privazione, della prevaricazione dei diritti umani man mano che provavamo ci si manifestava in tutta la sua potenza. Mai scorderò quando Sara durante una prova del brano Electric Chair di Robert Guitar Welch a un certo punto si ferma e dice: “… ho i brividi, in questo punto il testo dice che le luci della città si abbassano perchè con la corrente elettrica nel penitenziario stanno giustiziando una persona… con una ingenuità… come se fosse la cosa più naturale del mondo…”
Cimentarsi in un repertorio così caratteristico e strettamente legato alla questione razziale è stato da una parte confortante, nel realizzare che l’espressione artistica può trarre ispirazione anche e soprattutto da contesti di segregazione e ingiustizia, e una lezione di umiltà dall’altra, nel ritrovarsi stupiti come bambini, emozionati, quasi messi alla prova da questi immensi interpreti del blues, probabilmente sconosciuti ai più, che con la sintesi più perfetta di chitarre scordate e parole amare, spesso come la vita, in registrazioni che hanno il colore di un giorno di festa, di una manciata di libertà ma il sapore e l’odore di alcol, sudore e sangue, li hanno tenuti in silenzio per ore.
La forza delle registrazioni e dei brani che stavamo studiando ci rendemmo conto che era data da un profondo senso di indispensabilità, cioè dall’urgenza espressiva che i musicisti avevano al momento delle registrazioni. Quasi un testamento sonoro con un ultimo messaggio da lasciare al mondo un messaggio di riscatto personale e storico. Questa cosa ci faceva capire anche la pochezza del ruolo attuale della musica nella società del consumo ma al tempo stesso l’importanza di un progetto come Prison Songbook.
Ci sentivamo dei privilegiati a poter affrontare questo percorso dopo una lunghissima gavetta che ci aveva spogliato di molte ingenuità e superficialità, sentivamo e sentiamo che Prison Songbook era arrivato al momento giusto nella nostra vita.
[Aggiornamento: Prison Songbook doveva essere presentato a fine maggio ma, a causa del Covid 19, la presentazione è slittata ed ha avuto luogo il 5 settembre 2020 allo String Theory Music Fest di Lendinara.]