19 Marzo 2024

West Bank, paradossi e incertezze dell'”accordo del secolo”

Il 28 gennaio 2020 il Presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump rendeva pubblici i dettagli del suo Deal of the century, risultato finale di un processo di elaborazione iniziato nel 2017. Si tratta di un documento di 181 pagine – la cui denominazione ufficiale è “Peace to Prosperity” – che ha come ambizioso obiettivo la risoluzione del conflitto senza dubbio più lungo e controverso della storia recente: quello fra Israele e Palestina.

L’attuale assetto geopolitico dell’area è il frutto di un tortuoso percorso storico iniziato alla fine del diciannovesimo secolo con la nascita del movimento sionista e culminato nel 1948 con la dichiarazione unilaterale della creazione dello Stato d’Israele.

Nella memoria collettiva palestinese il 1948 è al-Nakba, “la catastrofe”: in quell’anno circa 700.000 arabi palestinesi furono espulsi dai loro villaggi di origine, che vennero successivamente distrutti per far spazio a quello che sarebbe diventato lo Stato Ebraico.

Il 1967 è invece l’anno della Naksa, “la ricaduta”. Tale termine indica la diaspora palestinese avvenuta a seguito della vittoria di Israele nella Guerra dei Sei Giorni, che portò alla conquista di Gaza, della Cisgiordania (più nota come West Bank) e di Gerusalemme est.

È su questo schema territoriale che verranno applicati gli accordi di Oslo del 1993, un’articolata road map che idealmente poneva le basi per la creazione di un’entità statale palestinese. L’eredità di Oslo è la suddivisione dei territori occupati in tre aree di influenza, suddivisione che negli intenti iniziali doveva rappresentare una fase transitoria propedeutica alla soluzione dei due Stati ma che di fatto si è trasformata in una bizzarra normalità priva di data di scadenza. L’intera West Bank è quindi tutt’oggi spezzettata in tre settori: area A, controllata direttamente dall’Autorità Nazionale Palestinese; area B, posta sotto il controllo israeliano ma amministrata dall’ANP; area C, interamente sottoposta a Israele.

A tutto questo si aggiunga l’annosa questione degli insediamenti, comunità ebraiche autonome fondate entro i confini dei territori occupati il cui status giuridico non è mai stato nettamente definito da Israele. La comunità internazionale ha a più riprese condannato e dichiarato illegale tale pratica, ma nonostante questo il numero degli insediamenti è esponenzialmente cresciuto dal 1967 ad oggi.

Il precario contesto geopolitico fin qui delineato è dunque il terreno su cui il cosiddetto “accordo del secolo” intende intervenire. Secondo l’analisi pubblicata dall’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale i contenuti del documento sarebbero riassumibili in quattro nodi cruciali che ben illustrano gli intenti e il potenziale impatto del piano, tracciando un percorso perfettamente iscrivibile nella linea di condotta dichiaratamente filoisraeliana del presidente americano – quella stessa linea che nel 2018 ha portato allo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme.

Il punto più importante e controverso riguarda ovviamente l’annessione. Il piano di pace accoglie infatti la richiesta israeliana di annettere ufficialmente al territorio statale gli insediamenti presenti nella West Bank e la Valle del Giordano, un’area fertile che rappresenta circa il 30% della Cisgiordania. In cambio, ai palestinesi verrebbero concesse alcune piccole aree desertiche nel Negev e il problema della mobilità tra la Striscia di Gaza e la West Bank verrebbe risolto con la costruzione di un tunnel sotterraneo.

Viene poi ipotizzata la creazione di uno Stato palestinese, ma con innumerevoli vincoli: la totale accettazione dell’assetto geografico stabilito dal piano di pace, una completa smilitarizzazione e la delega del controllo di spazio areo e confini a Israele.

Per quanto riguarda invece la fondamentale questione del diritto al ritorno dei profughi – vale a dire la possibilità per tutti coloro che furono costretti a fuggire nel 1948 e nel 1967 di far rientro nelle rispettive terre d’origine – il piano si limita a prevedere tre opzioni: il ritorno in un ipotetico futuro stato di Palestina, la concessione della cittadinanza da parte dei Paesi di attuale residenza (Siria, Libano, Giordania) o la ricollocazione in altri Stati membri dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica. Nel primo caso, coloro i quali volessero far rientro in Palestina sarebbero sottoposti al vaglio di una commissione con poteri di controllo sui flussi migratori in ingresso.

Infine, Gerusalemme viene designata come capitale di entrambe le entità statali. A Israele, tuttavia, verrebbe destinata gran parte della città, compresi i siti religiosi che rivestono una particolare importanza per l’Islam; ai palestinesi rimarrebbero soltanto alcuni sobborghi periferici.

Nel piano d’azione tratteggiato da Trump c’è tuttavia una grande assente: Hebron, una città a Sud di Gerusalemme la cui attuale situazione rappresenta una realtà del tutto peculiare nell’intera Palestina.

Skyline di Hebron, dicembre 2019

L’unicità di Hebron risiede nel fatto che qui gli insediamenti israeliani – fondati tra gli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso ed oggi abitati da circa 800 coloni – sono incuneati nel centro storico della città. Ciò ha reso impossibile includere Hebron in una delle tre aree stabilite dagli accordi di Oslo, imponendo la necessità di un Protocollo separato che nel 1997 sancì definitivamente la divisione della città in due parti: zona H1, sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese, e zona H2, corrispondente al centro storico e sotto il controllo diretto dell’esercito israeliano.

Muro e filo spinato che dividono la zona H1 dalla zona H2, dicembre 2019

Una città letteralmente spaccata a metà dunque, la cui situazione è andata notevolmente peggiorando nel corso degli anni. Nel 2001, infatti, a seguito della Seconda Intifada, una parte di Shuhada Street (al tempo cuore commerciale di Hebron) viene completamente interdetta ai palestinesi. Comincia una lenta agonia per gli abitanti e i negozianti del centro storico, che culminerà nel 2015 con la conversione della zona in area militare e nel 2017 con la creazione di numerosi checkpoint tesi a sigillare definitivamente l’intera città vecchia.

Checkpoint militare israeliano che segna l’ingresso di Shuhada Street, dicembre 2019

Oggi il centro storico è completamente spopolato, fatta eccezione per i coloni. Le restrizioni imposte dagli occupanti – attraversamento dei checkpoint con annessi controlli invasivi per recarsi in una qualsiasi altra parte della città, possibilità di aprire gli esercizi commerciali solamente per pochissimi giorni al mese, ecc. – hanno reso impossibile la vita in questa parte di Hebron.

Le poche famiglie palestinesi rimaste a vivere qui possono accedere alle loro case solamente attraverso un’unica scalinata, interamente avvolta da una rete di metallo e presidiata dai soldati. Vivono completamente isolate dal resto della comunità araba, in quanto l’accesso alla zona H2 è consentito soltanto ai palestinesi residenti registrati. Le loro case sono facilmente riconoscibili: le finestre sono coperte da fitte inferriate di metallo, installate per proteggere ciascuna famiglia dagli attacchi dei coloni.

Shuhada Street, dicembre 2019; nella parte superiore degli edifici sono visibili le finestre e i balconi protetti da reti metalliche

Il silenzio su Hebron nella road map di Trump desta quindi molte perplessità. Come può un piano che si pone l’obiettivo di risolvere il conflitto israelo-palestinese tacere su una questione così spinosa, che rappresenta senza dubbio un enorme ostacolo al dialogo?

Per cercare di dare una risposta a questo e ad altri quesiti contatto tramite Skype Adli Daana, direttore generale del Palestinian Center for Media Research and Development di Hebron.

Il cosiddetto piano di pace è un documento lungo e dettagliato, ma Hebron non viene mai menzionata. Qual è la ragione di questo silenzio dal tuo punto di vista?

Si tratta in realtà di una questione più ampia. Non è soltanto Hebron a non essere menzionata nel documento. Mancano tutte le questioni più importanti, tutti i temi che hanno sempre costituito il cuore della lotta palestinese. Manca Gerusalemme. Manca il diritto al ritorno. Mancano tutti i prigionieri politici rinchiusi nelle carceri israeliane. Manca il diritto all’autodeterminazione.

Ma d’altra parte cosa ci si poteva aspettare? Basti pensare che Jared Kushner [il consigliere di Trump a cui si deve la paternità del piano, ndr] ha stretti legami personali con Netanyahu. E anche David Friedman [l’ambasciatore USA in Israele che ha partecipato alla stesura del documento, ndr] è dichiaratamente vicino al movimento di colonizzazione dei territori occupati.

È quindi chiaro che siamo di fronte ad un accordo preparato fra amici nella cucina di Netanyahu, l’ennesimo documento studiato a tavolino senza tenere minimamente in considerazione le aspirazioni dei palestinesi. Non c’è stato, non c’è e mai ci sarà spazio per le negoziazioni in questo accordo, è un pacchetto “prendere o lasciare” totalmente sbilanciato a favore di Israele. Lo definirei più un mero accordo economico, in cui numeri e dichiarazioni chiuse eclissano le persone e i loro diritti.

Per questo non mi sorprende che Hebron non venga menzionata, così come tutte le questioni cruciali per le quali ci battiamo da 72 anni. Non c’è la reale volontà di sciogliere i nodi che impediscono la pace. Ancora una volta veniamo trattati come gli Indiani d’America del Ventunesimo secolo. Ma non lo siamo, e non accetteremo mai un accordo del genere.

Puoi riassumermi quello che è successo ad Hebron dal momento dell’annuncio del piano ad oggi?

La reazione degli abitanti di Hebron è stata immediata. Come sai qui l’occupazione è particolarmente visibile, basta fare una passeggiata attorno al centro storico per trovarsi faccia a faccia con un soldato o un colono. Quindi sin dall’annuncio del piano le persone si sono riversate nelle strade, in particolare in prossimità della città vecchia occupata, lanciando pietre contro i soldati e i coloni per esprimere il loro netto rifiuto nei confronti dell’ennesima finta soluzione calata dall’alto [un sedicenne palestinese è stato ucciso da un soldato durante uno di questi scontri, ndr].

Oggi gli scontri continuano, nonostante il Covid-19 stia colpendo in maniera fortissima la nostra città. Piano o non piano, pandemia o non pandemia, l’occupazione a Hebron è molto opprimente, per questo le persone reagiscono e continueranno a farlo.

Sì, infatti Hebron è la città palestinese più duramente colpita dalla pandemia di Covid-19. Stando alle ultime statistiche i casi verificati sarebbero fra i 3000 e i 4000. L’emergenza sanitaria ha in qualche modo influito sull’implementazione del piano?

Occorre per prima cosa specificare che l’occupazione di certo non facilita la gestione della pandemia. L’Autorità Nazionale Palestinese non può in alcun modo accedere alla zona H2, il che rende praticamente impossibile monitorare la situazione in quella parte di Hebron ed eventualmente intervenire con misure contenitive. La vita all’interno dell’insediamento israeliano procede normalmente, esattamente come prima. Non è stata apportata nessuna modifica alle abitudini sociali, il che non aiuta affatto. Però l’accesso alla Moschea Al-Ibrahimi [che si trova all’interno della zona H2 ma è accessibile ai palestinesi tramite un passaggio corridoio, ndr], quello sì, è stato regolamentato. Gli ingressi sono centellinati.

Parlando invece più nello specifico del piano di Trump, il discorso va allargato. I medicinali e la strumentazione sanitaria faticano ad arrivare perché rimangono bloccati negli aeroporti di Israele. Il punto è che le autorità israeliane invitano quelle palestinesi ad andare a ritirare il dovuto, ma ponendo una condizione: se venite collaborate con noi [dopo l’annuncio del piano il Presidente palestinese Abu Mazen ha rotto ogni tipo di rapporto con Israele e Stati Uniti, ndr]. Ci stanno praticamente ricattando.

Stando a quanto riportato dai media internazionali, il piano di annessione previsto nella road map di Trump ha subito una battuta d’arresto. Sono ormai passate tre settimane dal fatidico primo luglio, data annunciata come inizio ufficiale dell’annessione. Com’è la situazione ad Hebron e, in generale, nella West Bank?

Si tratta di una battuta d’arresto che interessa solo la controparte americana. Sappiamo tutti che al momento Trump è sotto pressione per via dell’emergenza sanitaria fuori controllo e il contestuale avvicinarsi delle elezioni, ovviamente non ha più tempo per occuparsi di quel che accade qui.

Ma la realtà dei fatti è che l’annessione di terre procedeva velocemente già prima, e non si è mai fermata. A Hebron i coloni continuano ad occupare case palestinesi nel centro storico per espandere gli insediamenti. Nella Valle del Giordano l’esercito israeliano impedisce ai proprietari palestinesi di accedere ai terreni per lavorarli; che cos’è questo, se non un modo indiretto per procedere con l’annessione? Scoraggiare i palestinesi, così che mollino la presa e lascino mano libera all’occupazione.

La decisione di dichiarare pubblicamente una data precisa, quella del primo luglio, non è stata altro che una trovata propagandistica per rafforzare la credibilità del governo israeliano, messo alla prova dalle pesanti vicende giudiziarie che hanno investito Netanyahu.

Ma ripeto, nel concreto il processo di annessione continua inesorabile. Anzi, ora l’ambasciatore Friedman spinge Netanyahu ad annettere il prima e il più possibile perché teme che Trump non venga rieletto a novembre e che, di conseguenza, venga meno il sostegno americano.

Quindi quali potrebbero essere gli scenari futuri?

È difficile dirlo adesso, purtroppo non sono un profeta. Ma sono sicuro che questo piano finirà nella spazzatura, esattamente come tutti i tentativi di risoluzione precedenti. La pace si avrà solamente nel momento in cui tutte le richieste dei palestinesi verranno ascoltate e discusse.

Personalmente trovo che la soluzione dei due Stati sia ormai inapplicabile, credo che al punto in cui ci troviamo ora l’unica via percorribile sia quella di un unico Stato. Ma di che tipo? Uno Stato che garantisca pari diritti a tutti i suoi cittadini o uno Stato a due velocità, con una fascia di popolazione che domina sull’altra? Questo non so dirlo, lo vedremo. Ma sono ottimista. Tutto questo non potrà durare per sempre.

[Tutte le foto sono dell’autrice dell’articolo]

Camilla Donzelli

Laureata in Scienze Politiche per la Cooperazione e lo Sviluppo, si forma poi come consulente legale professionale con ASGI - Associazione Studi Giuridici Immigrazione e lavora per diversi anni nel sistema di accoglienza italiano. Appassionata di antropologia politica e da tempo impegnata nella diffusione di buona informazione circa i fenomeni migratori, nel 2020 si trasferisce ad Atene per studiare da vicino gli effetti delle politiche europee sulle popolazioni in movimento. Attualmente collabora con Jafra Foundation Greece.

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